GEOMETRIA e ARITMETICA
Branche della matematica che nel Medioevo costituiscono, con la musica e l'astronomia, le scienze del quadrivium all'interno delle arti liberali, che preparano alla conoscenza di Dio.
La g., scienza della misura ("Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso"; Sap. 11, 20), in un contesto agostiniano, vale a dire neoplatonico, si avvicina al Verbo divino. Essa è trattata con 'simpatia' dalla corrente enciclopedica che va da Macrobio a Rabano Mauro attraverso Isidoro di Siviglia, anche se l'intenzione positiva urtava contro l'inadeguatezza della documentazione allora disponibile. Gli Elementi di Euclide, almeno per quanto riguarda i primi sei libri, erano stati tradotti direttamente dal greco da Boezio, intorno al 500, ma non ne rimaneva che qualche frammento in Cassiodoro, nei manoscritti del Corpus agrimensorum Romanorum e nelle due opere apocrife di g. attribuite allo stesso Boezio. Questi pochi resti non permettono di immaginare il rigore logico degli Elementi di Euclide.I maestri dell'Alto Medioevo dovettero alimentare il proprio insegnamento in materia di g. sulla base di ciò che avevano a disposizione, cioè le sintesi degli agrimensori romani: fonte inadatta, perché legata ai condizionamenti sociali di Roma antica, come la misurazione dei campi militari, la centuriazione delle colonie, il catasto. In principio si trattava di manuali scritti per la formazione professionale dei geometri romani, originariamente detti gromatici dal nome del loro strumento principale, la groma, per i quali si preferì in seguito la denominazione di agrimensores. Dall'abbondante letteratura tecnica loro destinata (v. Agrimensura) fu ricavato, all'inizio del sec. 6°, il Corpus agrimensorum Romanorum, compilazione più volte copiata con continui rimaneggiamenti. I gromatici adoperavano soprattutto la pratica della suddivisione in quadrati, così diffusa presso i Romani. Tuttavia già ben prima della riscoperta di Archimede nel sec. 12° si può trovare la valutazione del π a 22/7 (pari a 3,14285); questa approssimazione, già fornita da Macrobio, può derivare dai Metrica di Erone di Alessandria, attraverso il Podismus attribuito a Nipso.Nell'assimilazione di questa letteratura per farne la base di manuali scolastici, l'abbazia di Corbie sembra aver giocato, nei secc. 8° e 9°, un ruolo importante; è infatti in quest'ambiente che, amalgamando frammenti di Euclide ed estratti degli agrimensori, sembra aver visto la luce la prima delle opere di g. apocrife attribuite a Boezio, quella in cinque libri.In realtà, l'insegnamento della g. nei secc. 9°-11° appare ancora vago, a causa dei dubbi che circondano l'attribuzione di alcuni testi ad autori celebri. È questo il caso delle Propositiones ad acuendos iuvenes, attribuite ad Alcuino di York (post 730-804), consigliere di Carlo Magno. Un quarto ca. della raccolta è dedicato a calcoli di g. che si apparentano, per la maggior parte, a quelli degli agrimensori: la propositio 29 pone il quesito di quante case rettangolari di piedi 3020 si possano impiantare in una città rotonda avente 8000 piedi di circonferenza. I problemi successivi vertono sulla pavimentazione di una basilica (quanti laterculi) e sul numero di botti che può contenere una cantina. Questo gruppo di problemi geometrici si ritrova anche, abbastanza stranamente, nella famosa Geometria incerti auctoris, che attesta d'altro canto, alla metà del sec. 10°, una certa influenza araba.La figura chiave di queste prime infiltrazioni della scienza araba è quella di Gerberto di Aurillac (940 ca.-1003); nell'opera di g. collegata al suo nome, si distinguono nettamente tre parti. L'inizio, assai letterario, ma elementare, che lo stesso autore sembra aver rinunciato a proseguire, è stato assegnato espressamente a Gerberto da Bubnov (1899). La seconda parte, strumentale, è incentrata sulla misurazione sul terreno ed è chiaramente in rapporto con una fonte arabizzata circa l'uso dell'astrolabio. La terza, infine, è costituita da brani tratti dagli agrimensori romani. Bubnov (1899) ha mantenuto raggruppate la seconda e la terza parte sotto la denominazione di Geometria incerti auctoris. In confronto con la tradizione degli agrimensori romani, la grande innovazione nella parte strumentale consiste nell'impiego dell'astrolabio, qui chiamato horoscopus (è menzionato anche il quadrante, ma ancora solo con finalità astronomica).Risalendo in origine a Tolomeo e forse anche oltre, l'astrolabio planisferico era stato, nel sec. 6°, l'oggetto di un celebre trattato scritto in greco da Giovanni Filopono d'Alessandria. Se questo strumento aveva conosciuto un grande favore nel mondo arabo, era invece rimasto sconosciuto in quello latino, ove venne introdotto solo nella seconda metà del sec. 10°, grazie all'influenza araba penetrata attraverso la Catalogna.Senza parlare delle funzioni astronomiche, molto più interessanti, il dorso dell'astrolabio e il quadrante presentano un quadrato delle ombre in cui ciascuno dei lati esterni (graduati in 12 digiti) indica la tangente (umbra versa) o la cotangente (umbra recta) dell'angolo osservato sul lembo nel corso della rilevazione: la cotangente se l'angolo è superiore a 45°. Il semplice geometra praticante poteva esimersi da ogni ricorso alla trigonometria: basandosi sui triangoli rettangoli simili, era per lui estremamente facile, grazie al quadrato delle ombre, calcolare l'altezza di una torre sulla base della distanza di questa dal punto di osservazione. L'arte di misurare si trovava così ormai insegnata anche da testi relativi all'uso dell'astrolabio o del quadrante, ma la nuova g. pratica non raggiunse il suo completo sviluppo che nel 12° secolo.Gerberto era stato più un dinamico animatore che un grande autore scientifico e avendo trovato nel monastero di S. Colombano a Bobbio, nel periodo in cui vi era stato abate, un importante manoscritto di Boezio e degli agrimensori, ne aveva fatto fare una copia che in seguito donò ad Adalboldo di Liegi. Questa fu la fonte essenziale della seconda opera di g. apocrifa attribuita a Boezio, della prima metà del sec. 11°, che contiene molte riprese dagli agrimensori, pochissimi elementi tratti da Euclide, ma ancora nessun cenno all'astrolabio. Il testo si tradisce citando Gerberto sotto il nome del matematico greco Archita, in particolare a proposito dei numeri arabi che allora erano una novità nell'Occidente cristiano. Lo pseudo-Boezio fu il testo base della scuola dei geometri mosani, nota soprattutto per il De quadratura circuli di Francone di Liegi e per la corrispondenza di argomento geometrico scambiata, negli anni tra 1020 e 1027, dagli studiosi Randulfo di Liegi e Ragimboldo di Colonia: le frequenti ingenuità attestano un livello matematico assai basso, benché certe questioni tornino a essere più accettabili una volta collocate nel contesto del Corpus agrimensorum Romanorum; l'astrolabio è conosciuto ma mal padroneggiato.Nel sec. 12° il dinamismo della cristianità portò sovente agli stessi sviluppi delle influenze arabe; ne fanno fede le idee di Ugo di San Vittore (m. nel 1141) sull'inclusione delle arti meccaniche nella filosofia e sui rapporti tra teoria e pratica, agere de arte e agere per artem. Dopo alcune esitazioni è stata definitivamente attribuita a Ugo di San Vittore la Practica geometriae (1125 ca.) conosciuta sotto il suo nome. Questo trattato si divide in tre parti: altimetria, planimetria e cosmimetria. Benché Macrobio sia il solo a essere espressamente invocato, la fonte principale del testo tuttavia è la Geometria incerti auctoris. Come in questa, Ugo di San Vittore privilegia l'uso dell'astrolabio, pur ricorrendo anche ad altri mezzi (misura dell'ombra, bastone, asta, specchio, ma non il quadrante). L'altimetria è la parte tecnicamente più interessante, in particolare per la misurazione delle altezze la cui base non sia raggiungibile, mentre la cosmimetria va al di là della g. e concerne la cosmografia terrestre e celeste, soprattutto per ciò che riguarda il Sole.La g. pratica precisò quindi sempre meglio la sua identità che, sotto l'influsso della classificazione delle scienze di alFārābi diffusa da Domenico Gundisalvi, s'imponeva e si affinava sempre più, nel sec. 12°, con la distinzione tra teoria e pratica. Ciò che restituiva tutto il senso alla nozione di g. teorica fu la riscoperta del rigore degli Elementi di Euclide. Prescindendo da una traduzione greco-latina che rimase senza diffusione, la conoscenza essenziale di quest'opera derivò dal mondo arabo: esistevano due grandi traduzioni in arabo degli Elementi di Euclide - dovute l'una ad al-Ḥajjāj, l'altra a Isḥāq ibn Ḥunayn e a Thābit ibn Qurra - dalle quali derivarono nel sec. 12° numerose traduzioni latine. Più influenti di quelle di Ermanno di Carinzia e di Gerardo di Cremona furono le tre versioni tradizionalmente attribuite ad Adelardo di Bath (1070 ca.-1160 ca.): la prima sembra essere stata effettivamente tradotta da quest'ultimo, ma senza le dimostrazioni; la seconda, i cui enunciati sono oggi attribuiti a Roberto di Retines, non prevede le vere dimostrazioni di Euclide, quanto piuttosto un orientamento in vista della dimostrazione, con una particolare insistenza sulle costruzioni; la terza è già una sorta di commentario, con incisi filosofici che tentano di rendere il ragionamento meno astratto. La seconda ebbe la più vasta diffusione (si conservano oltre cinquanta manoscritti) e fu alla base della celebre versione di Campano da Novara (1250 ca.), destinata a divenire il testo di norma utilizzato fino al pieno Rinascimento.Parallelamente a questa corrente teorica si fissava, nella silloge di Ugo di San Vittore, un tipo di g. pratica basata essenzialmente sui triangoli simili e tendente dunque a insistere fortemente su rapporti e proporzioni. Sono stati pubblicati due importanti trattati di questo genere: il Geometrie due sunt partes principales (Hahn, 1982) e l'Artis cuiuslibet consummatio (Victor, 1979). Il primo, il cui titolo deriva dall'incipit, sembra risalire al sec. 12°; il suo contenuto pratico è, per larga parte, quello della Geometria incerti auctoris e del trattato di Ugo di San Vittore. Di quest'ultimo viene conservata la divisione tripartita, ma si preferisce, per la misurazione dei volumi, steriometria a cosmimetria; viene poi introdotta una divisione della misurazione in inartificiale, basata sul calcolo, e artificiale, ottenuta con il ricorso a strumenti. Oltre al normale uso di ombre, aste e specchi, l'autore utilizza un quadrato delle ombre vicino a quello dell'astrolabio, ma non parla del quadrante. Ciò nonostante il trattato conobbe una fortuna singolare: si trova infatti parzialmente ripreso nel Quadrans vetus - attribuito ipoteticamente a Giovanni Anglico di Montpellier e tradizionalmente considerato opera di Roberto Anglico -, che ebbe grandissima diffusione nel corpus che costituiva la base dell'insegnamento scientifico nelle università medievali nel prolungamento dei manuali di Giovanni di Sacrobosco.Il trattato Artis cuiuslibet consummatio, redatto a Parigi e datato, sulla base di un dato astronomico, al 1193, resta anch'esso fedele alla divisione tripartita di Ugo di San Vittore, ma include l'altezza degli astri nell'altimetria e, per la misurazione dei volumi, preferisce il termine crassimetria. Un largo spazio è lasciato a calcoli ripresi dagli agrimensori romani attraverso la mediazione delle opere di g. falsamente attribuite a Boezio. L'accento viene posto sulle relazioni tra figure differenti e i rapporti delle loro superfici o volumi e si mantiene ancora la sorprendente confusione tra l'area dei poligoni e la formula dei numeri poligonali secondo l'aritmetica di Boezio; una quarta e ultima parte del testo è dedicata alle frazioni e specialmente all'estrazione delle radici; si tratta estesamente, anche se in maniera malaccorta, di astronomia. Recentemente è stato dimostrato che l'autore dell'Artis cuiuslibet consummatio fu Gerardo di Bruxelles, avanzando la datazione verso il 1240 e assegnando al testo un'intenzione più pedagogica che pratica. Una parziale traduzione di quest'opera è la Pratike de geometrie, in cui le aggiunte riguardano i commerci e la moneta; il testo, redatto in dialetto piccardo del sec. 13°, ha lasciato ipotizzare che si trattasse di una g. popolare.Le opere di g. pratica avevano una funzione soprattutto pedagogica, sovente rivolta verso l'astronomia. Del tutto diversa è la g. dei veri praticanti: non conservando più nulla di una lezione matematica, essa si riduceva a una serie di ricette puramente visive e operative che escludevano non solo la dimostrazione ma anche il calcolo; alcune costruzioni di figure, più o meno approssimative, derivavano dall'esperienza e non da un ragionamento matematico.Di questo tipo di sapere esiste, per il sec. 13°, una testimonianza straordinaria, unica e difficile da interpretare: il Livre de portraiture di Villard de Honnecourt (Parigi, BN, fr. 19093). Questo testo è stato ristudiato a fondo da Bechmann (1993), che ha individuato due serie di schizzi: una legata alle figure geometriche per la costruzione di edifici, l'altra concernente i rapporti tra disegno e geometria.Esempi caratteristici della g. operativa di Villard e del suo continuatore, il Magister II, sono: la ricerca del diametro di una semicolonna addossata mediante il rilievo, con compasso a settore e regolo, di tre punti della circonferenza, successivamente riportati per determinare il centro del cerchio; la costruzione di due recipienti cilindrici, l'uno contenente il doppio dell'altro, per cui i diametri dei cerchi di base nel rapporto 1 e radice di 2 sono ottenuti con lo spostamento di una squadra intorno al primo cerchio.Si trovano inoltre alcuni disegni di uomini e di animali, cui sono sovrapposti o incorporati grafici geometrici (cc. 18-r19r, 21v), che non possono essere considerati né tracce preparatorie, né schemi destinati a facilitare la riproduzione o l'ingrandimento dei disegni, ma che vanno intesi invece come ausilio alla memorizzazione di un certo insegnamento geometrico trasmesso sui cantieri (Bechmann, 1993). Casi emblematici sono i due fenicotteri, che ricordano la maniera più semplice di tracciare un angolo retto (c. 18v), e l'uomo con il bambino (c. 19r), in una posa rigida che potrebbe evocare una figura analoga contenuta negli Elementi di Euclide (VI, 32). Secondo lo stesso principio, numerose figure sembrano riferirsi alla tecnica di costruzione, come l'immagine dei due leoni accovacciati dorso contro dorso (c. 19), che, suggerendo un arco spezzato in cui si inscrive un triangolo equilatero, farebbe pensare a una finestra della cattedrale di Reims disegnata e, per sua diretta ammissione, particolarmente prediletta da Villard de Honnecourt. A questa g. operativa senza calcolo si ricollegano le attuali nozioni sulle squadre. Si tratta di squadre a bordi non paralleli, come quella di cui Hugues Libergier, l'architetto di St. Nicaise a Reims, fece tracciare il profilo sulla propria tomba. Una corda tesa sull'ipotenusa genera, con il bordo interno, gli stessi angoli della diagonale di un rettangolo aureo: se alcune squadre a bordi non paralleli potevano servire a tagliare i conci degli archivolti, altre permettevano di ottenere direttamente angoli e proporzioni privilegiate.Nella Mathematica di Philippe Eléphant, scritta molto probabilmente a Tolosa intorno alla metà del sec. 14°, sono attribuite ad alcune figure curiose denominazioni, per es. Victoria e Figura Demonis, appartenenti al percorso che va, secondo Euclide, dal numero aureo alla costruzione del pentagono regolare. Anche se la Figura Demonis era già apparsa nel sec. 12° sotto il nome di Abeliz (dall'arabo Iblīs, Satana), rimane comunque vero che, memorizzate grazie a denominazioni pittoresche o a piccoli disegni, alcune costruzioni euclidee erano destinate a essere trasmesse come indicazioni pratiche.Nel cantiere del duomo di Milano, nel 1391, si pose il problema di calcolare l'altezza di un triangolo equilatero in funzione della sua base. Fu necessario ricorrere a un 'esperto dell'arte della g.'; di fronte a un testo assai corrotto, è stata proposta un'interpretazione estremamente complicata: in realtà, come in numerose g. pratiche medievali, l'esperto utilizzò l'approssimazione 26/30 per radice di 3/2.Rimane da prendere in considerazione un'altra tradizione della g. pratica, quella che utilizza l'algebra alla maniera dei trattati arabi come il Liber mensurationum di Abū Bakr. Rappresentata nel sec. 12° dal Liber embadorum dell'ebreo Savasorda (Abrāhām ben Ḥiyyā), questa corrente raggiunse la sua massima espressione nella Practica geometriae composta nel 1220 da Leonardo Fibonacci; si tratta in questo caso di un'opera ambigua, poiché l'autore volle, di volta in volta, rivolgersi 'secondo l'uso volgare' agli agrimensori e 'secondo le dimostrazioni geometriche' a studiosi di alto livello (equazioni di secondo grado, estrazione di radici).È noto il legame tra il Liber abaci di Leonardo Fibonacci e la notevole fioritura di 'scuole d'abaco' in Toscana nel sec. 14°, ove si insegnava un'aritmetica commerciale ben differente dall'algorismo universitario. Lo scarto è meno netto per quanto riguarda la geometria. Le applicazioni geometriche di questi trattati sull'abaco del sec. 14° sono poco originali. Domenico di Chivasso era italiano, ma la sua Practica geometriae del 1346 appartiene, al pari del De ratione mensurandi di Jean de Murs, all'ambiente universitario parigino.Nel secolo successivo, Leon Battista Alberti giunse a individuare negli agrimensori romani e nella g. pratica medievale (in particolare a proposito delle asticelle utilizzate per traguardare) una delle chiavi della rappresentazione prospettica. La Practica geometriae di Fibonacci fu parzialmente tradotta in italiano nel sec. 15° e proprio in Italia si sviluppò, solo dalla seconda metà di questo secolo, il rinnovamento della g. pratica ereditata dal Medioevo.
Bibl.:
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L'aritmetica è così definita da Isidoro di Siviglia (Etym., III, 1, 6-20): "Arithmetica est disciplina quantitatis numerabilis secundum se [...] ideo primam esse voluerunt, quoniam ipsa ut sit nullam aliam indiget disciplinam, Musica autem et Geometria et Astronomia quae sequuntur, ut sint atque subsistant istius egent auxilium". La diffusione dell'aritmetica nell'Occidente latino medievale è legata all'opera di Boezio, che con il suo De institutione arithmetica introdusse in Europa l'Arithmetica introductio del greco Nicomaco di Gerasa. Il trattato di Nicomaco fu il libro di testo corrente nelle scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria; l'opera, che è pervenuta nella redazione greca originale, fu commentata da Giamblico, da Asclepio di Tralle e da Filopono già nel sec. 4°; è invece perduto il commento di Proclo. Dello stesso Nicomaco non è pervenuta l'Arithmetica theologica, che illustrava i misteri della numerologia intesi come chiave per interpretare l'universo. Questi orientamenti si ritrovano in Boezio, il quale sostiene che lo studio dell'aritmetica è propedeutico a quello della filosofia: l'aritmetica viene dunque paragonata alla pietra senza forma dalla quale l'abilità dello scultore trae la sua statua ed è considerata quindi l'arte sulla quale si fondano tutte le altre. Questa prospettiva boeziana lascia da parte l'idea di Vitruvio, per il quale l'aritmetica era legata alla costruzione di edifici (De arch., I, 1, 4), ripresa nel Rinascimento da Brunelleschi.Per Boezio come per altri filosofi del Medioevo, l'aritmetica "cunctis prior est, non modo quod hanc ille huius mundanae molis conditor Deus, primam suae habuit ratiocinationis exemplar, et ad hanc cuncta constituit, quacumque fabricante ratione, per numeros assignati ordinis invenere concordiam: sed quaecumque naturam priora sunt, his sublatis simul posteriora tolluntur [...] Si enim numeros tollas, unde triangulum vel quadratum, vel quidquid in geometria versatur?" (De institutione arithmetica, I, 1). L'aritmetica è dunque per Boezio la scienza del numero e di quella unità che "retinet, unit et colligit, ac per haec ne materia dividatur et spargatur, necesse est ut ab unitate retineatur" (De unitate et uno). Proprio s. Agostino aveva sottolineato nel De ordine (II, 15) come chi abbia compreso i numeri semplici e intelligibili più facilmente giunge alla comprensione dei misteri divini.Fu Boezio a operare il rovesciamento dell'ordine del quadrivium, tramandato da Varrone e da Marziano Capella, secondo il quale la prima delle quattro discipline era la g. e non l'aritmetica. Il sistema boeziano, con l'aritmetica al primo posto, si spiega con la necessità di preparare la ragione alla comprensione dei fenomeni naturali, così come sosteneva Tommaso d'Aquino (In librum Boetii De Trinitate, V, 1); per questo l'aritmetica, insieme alle altre arti del quadrivio, rappresentava lo strumento con cui la mente umana avrebbe potuto riconoscere e intendere l'arte del Creatore. Questa prospettiva si può ricollegare ai modelli pitagorici e a quel filone di pensiero che vide in Nicomaco, come anche in Plotino e in Proclo, l'idea di una teologia matematica in cui a ogni numero corrispondeva una divinità e in base alla quale il divino artefice aveva realizzato la sua opera seguendo le regole dell'aritmetica. In realtà l'aritmetica boeziana si diffuse lentamente con la circolazione dei testi dei matematici arabi, quindi solo a partire dal 12° secolo. Fino a quest'epoca lo studio dell'aritmetica rimase circoscritto ad ambienti della corte carolingia o alla cultura ecclesiastica; Gregorio di Tours, per es., racconta che intorno al 570 uno schiavo, proveniente da Marsiglia, in virtù della sua abilità negli studi di aritmetica fu accolto presso la corte franca (Hist. Fr., IV, 32).Quel che più spingeva il mondo occidentale allo studio dell'aritmetica era il desiderio di fissare con certezza quelle date calendariali legate alla liturgia cattolica; particolarmente problematica era infatti l'individuazione dei cicli pasquali. Fu il Venerabile Beda, soprannominato computator mirabilis, a dare un particolare impulso all'ars calculatoria, come si può notare nel suo De temporum ratione. Quest'opera circolò in numerosi manoscritti, corredata da miniature che illustravano la corrispondenza tra le diverse posizioni delle dita della mano e i valori numerici: "cum ergo dicis Unum, minimum in laeva digitum inflectens, in medium palmae artum infiges. Cum dicis Duo secundum a minimo flexum ibidem impones. Cum dicis Tria, tertium similiter afflectens" (PL, XC, col. 296). Questo sistema di 'calcolo digitale' ebbe una rapida diffusione e fu rappresentato in numerosi manoscritti. A Beda è anche attribuito un trattato dal titolo De arithmeticis numeris, che presenta una interessante distinzione delle diverse unità numeriche.Nel De computo, Beda ricostruì l'origine dell'aritmetica seguendo quest'ordine leggendario. "Abraham primus invenit numerum apud Hebraeos, deinde Moses; et Abraham tradidit istam scientiam numeri ad Aegyptios et docuit eos"; dall'Egitto l'aritmetica si sarebbe diffusa in Grecia con Pitagora e Nicomaco e poi nel mondo latino con Boezio e Apuleio. All'origine egiziana dell'aritmetica Beda fa di nuovo cenno nella Historia ecclesiastica gentis Anglorum; quest'idea deriva dal fatto che, in seguito all'invasione musulmana della Siria e dell'Egitto, un numero considerevole di scienziati alessandrini cercò rifugio in Occidente (Murray, 1978).Dalla stessa scuola di York, dove insegnò Beda, proveniva Alcuino, il quale, chiamato a corte da Carlo Magno intorno al 781, riorganizzò il sistema delle scholae imperiali, legando la tradizione classica del quadrivio allo studio e all'applicazione dell'aritmetica per la soluzione di problemi tecnici; nascono così i cinquantatré problemi aritmetici attribuiti ad Alcuino, noti come Propositiones ad acuendos iuvenes. Questi interessi matematici di Alcuino portarono lo stesso Carlo Magno a far sì che, in uno dei suoi primi capitolari sull'educazione, nel 789, lo studio del computus precedesse quello della grammatica nell'organizzazione dell'insegnamento nelle scuole monastiche (Admonitio generalis; MGH. Capit., I, 1883, p. 60).Nella Historia Karoli Magni et Rolandi attribuita a Turpino, ma compilata solo verso il sec. 12°, si legge che il monarca franco volle che le sette arti liberali fossero rappresentate nel suo palazzo di Aquisgrana. Il fatto potrebbe anche essere vero; infatti la prima testimonianza di una rappresentazione pittorica delle sette arti viene dal De septem liberalibus artibus in quadam pictura depictis (Carm., XLVI), un poema composto da Teodulfo di Orléans al tempo di Carlo Magno. In questo caso la fonte iconografica sembra proprio essere stata il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella: l'aritmetica appare dopo la g., che è sua sorella, e indossa un abito dalle pieghe molto più movimentate, che rappresentano la complicazione delle operazioni numeriche; dalla sua fronte scintillano dieci raggi luminosi, tanti quanti i numeri pitagorici e le sue dita vibrano incessantemente rappresentando l'attività di calcolo, che, in Marziano, termina nel numero 717.Intorno alla seconda metà del sec. 10° si diffusero in Europa le prime nozioni della scienza araba: è noto il caso di Gerberto di Aurillac, il quale, prima di essere eletto papa con il nome di Silvetro II (999-1003), secondo la leggenda si sarebbe recato in Spagna da dove tornò avendo appreso l'uso dell'astrolabio e del nuovo abaco.L'abaco, unitamente alla diffusione delle cifre arabe, semplificò notevolmente le procedure di calcolo. L'adozione del sistema numerale arabo (o indiano) incontrò però anche molti ostacoli: nel 1299 l'Arte del Cambio di Firenze ne proibì l'uso; le difficoltà che si presentavano nell'insegnare a tracciare questi numeri appaiono da una serie di miniature e disegni che avevano lo scopo, attraverso la mnemotecnica, di facilitare la memorizzazione della grafia di queste cifre; il 13, per es., viene raffigurato come un albero con un serpente intrecciato (Murdoch, 1984, p. 75).Gerberto alle soglie del sec. 11° aveva scritto come l'aritmetica fosse "aut neglecta [...] aut ignorata"; solo nel secolo successivo avvenne la grande rinascita degli studi di aritmetica e si ebbe quindi un'applicazione più consapevole di questa scienza alle attività artistiche. Ugo di San Vittore nel suo Didascalicon (II, 4, 7) scrive: "Matesis enim quando t habet sine aspiratione [...] significat superstitionem illorum qui fata hominum in constellationibus ponunt [...] Quando autem habet t aspiratum doctrinam sonat. Haec autem est quae abstractam considerat quantitatem [...] ᾽Αϱετή Grece, Virtus interpretatur, Latine arithmus, numerus, inde arithmetica virtus numeri dicitur". Dalla Spagna, attraverso le traduzioni di Roberto di Chester, Gerardo da Cremona, Giovanni di Siviglia e Adelardo di Bath, furono introdotti i trattati di algebra di al-Khwārizmī e di altri matematici arabi. Furono così possibili gli studi di Giordano Nemorario e di Leonardo Fibonacci; quest'ultimo - noto per aver risposto ai quesiti di Federico II - volle insistere sull'unione tra aritmetica e g.: "arismetrica et geometria scientia sunt connexe et suffragatorie sibi ad invicem, non potest de numero plena tradi doctrina, nisi intersecantur geometrica quedam, vel ad geometriam spectantia [...]" (Liber abbaci).L'affermazione di Leonardo Fibonacci ha una particolare rilevanza nel campo artistico; infatti con l'introduzione della scienza araba l'aritmetica e le altre discipline matematiche persero parte dell'astrattezza che ancora Alberto Magno nel commento al De generatione et corruptione di Aristotele (1, 110, 37) aveva loro attribuito paragonandole alla metafisica. L'aritmetica, a partire dal sec. 13°, entrò a far parte di quella scientia de ingeniis cui facevano cenno sia Domenico Gundisalvi sia Vincenzo di Beauvais. A quest'evoluzione contribuì non poco Leonardo Fibonacci, che, pur servendosi dell'algebra rettorica, in cui le regole vengono esposte a parole non essendo ancora disponibili simboli e lettere, espresse algebricamente la sezione aurea, con la radice quadrata, l'incognita e l'equazione di secondo grado. La riproposizione in chiave algebrica e non più geometrica della sezione aurea sarebbe stata determinante per la ripresa del classicismo nell'arte del Trecento (Thiery, 1980). In base a questi nuovi orientamenti matematici Federico II, dopo aver incontrato Leonardo Fibonacci a Pisa nel 1226, fece costruire quell'unicum nell'architettura europea che è Castel del Monte: l'edificio risponde fin nei più piccoli dettagli alle regole geometriche della trasformazione delle figure piane e dei solidi e alle formule matematiche che descrivono quei processi (Thiery, 1980). Con il sec. 13° si recupera anche la prospettiva di Vitruvio e l'aritmetica non è più solo un'abstractio; la rinascita del sec. 12° e l'introduzione della scienza araba la resero una materia fondamentale e nella Facoltà delle Arti di Parigi si prescrisse di ascoltare "centum lectiones de mathematica ad minus" (Chartularium Universitatis Parisiensis, II, 1183).Questa rinascita dello studio dell'aritmetica venne celebrata nelle chiese e nelle cattedrali, raffigurata secondo le linee tracciate dal De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella, impostazione che si riscontra sia negli arazzi della cattedrale di Quedlinburg (1186-1203) sia in molti manoscritti contenenti l'opera di Boezio. Nell'Hortus deliciarum di Herrada di Landsberg (1175) l'aritmetica, insieme alle altre arti che circondano la Filosofia, è raffigurata mentre tiene nelle mani una corda con delle palline per effettuare i suoi conteggi.La rappresentazione iconografica dell'aritmetica dipese in primo luogo dalla tradizione e dalla diffusione delle opere di Marziano Capella e di Boezio: la raffigurazione dell'aritmetica in quanto legata a un testo di studio è quasi sempre accompagnata o impersonata dall'immagine di Pitagora, così come quella di Euclide è presente nelle illustrazioni della g.; tuttavia quando l'aritmetica appare nel contesto dei cicli figurativi che contengono le sette arti liberali il legame tra essa e il suo 'inventore' si spezza.In modo progressivo, tra i secc. 5° e 14°, l'immagine dell'aritmetica si accompagnò a vari maestri: in Marziano Capella appariva assieme a Pitagora, in Isidoro di Siviglia era con Pitagora, Nicomaco e Apuleio; in Ugo di San Vittore con Boezio; in Alano di Lilla con Nicomaco, Gerberto di Aurillac, Pitagora e Crisippo, nella cattedrale di Chartres con Nicomaco. Questa impostazione avrebbe condotto Andrea di Buonaiuto a eseguire nel Cappellone degli Spagnoli (Firenze, S. Maria Novella) gli affreschi delle Sette arti liberali con i loro rappresentanti. In questa tendenza appare evidente il legame tra gli artisti e il mondo delle università o delle scuole ed emerge l'intima connessione tra ciò che era letto e ciò che veniva raffigurato; la conferma viene proprio da Chartres, famosa per i suoi studi, dove nel portale ovest della cattedrale vennero rappresentate le Sette arti liberali accompagnate dai loro maestri. In molte altre cattedrali note per le loro scuole si trovano rappresentazioni dell'aritmetica: a Laon come ad Auxerre, mentre a Parigi forse si trovavano ai lati dell'ingresso centrale di Notre-Dame, che fu distrutto nel sec. 18°; qui tuttavia la bella dea dell'aritmetica non è più accompagnata da Pitagora e lo stesso accade nella fontana Maggiore di Nicola e Giovanni Pisano a Perugia (1278-1280), nel pulpito di Giovanni Pisano nel duomo di Pisa (1302-1311), negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena (1339), nel sepolcro di Roberto d'Angiò in S. Chiara a Napoli (1343-1345), nel campanile del duomo di Firenze, dove l'aritmetica fu rappresentata sia dagli allievi di Andrea Pisano sia da Luca della Robbia; in tutti questi casi l'aritmetica venne raffigurata come una distinta dama con in mano gli strumenti per far di conto: l'abaco, una tavola, un'asta.La figura dell'aritmetica è sempre caratterizzata da questi strumenti di calcolo: nella fontana Maggiore di Perugia sono le dita, già descritte da Marziano Capella, a risaltare, mentre in un manoscritto del De nuptiis Mercurii et Philologiae di Parigi (BN, lat. 8500, c. 38r) appare mentre scrive le prime dieci cifre, così come nelle sculture della cattedrale di ClermontFerrand, con una simbologia molto più evidente di quella che, nella cattedrale di Laon, tendeva a evidenziare il movimento rapidissimo delle dita.
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