Geometria: nuovi orizzonti
I tempi della matematica sono più lunghi di quelli di altre scienze. Per la natura stessa, semplice e fondamentale, degli oggetti studiati (i numeri e le figure geometriche), e lo scarsissimo rilievo dell’apporto tecnologico, i suoi progressi risiedono quasi esclusivamente nell’affinamento, nello sviluppo, e talvolta nell’invenzione, di strumenti concettuali, la cui efficacia si misura in ultima istanza con la loro capacità d’illuminare fenomeni di natura elementare, quali la distribuzione dei numeri primi o la struttura delle soluzioni delle equazioni algebriche e delle equazioni differenziali della fisica matematica. Certe idee e certi problemi guida estendono la loro influenza sulla matematica per decenni, per cui una discussione sulle prospettive della geometria nel secolo appena iniziato non può che tentare di individuare quali tematiche e problemi, di origine più o meno recente (ma in alcuni casi anche molto antica), potrebbero dominare tale disciplina nei prossimi anni. Un saggio di questo tipo pone un difficile problema espositivo. Nonostante il suo appello all’intuizione dello spazio, comune a tutti gli esseri umani, la geometria, forse più di altri settori della matematica, si è sviluppata, da almeno un secolo e mezzo a questa parte, seguendo vie che l’hanno allontanata enormemente dalle realtà geometriche primitive, specializzandosi in discipline che trattano contesti di oggetti il cui legame con l’idea di spazio è talmente mediato da essere difficilmente comprensibile e comunicabile persino ai cultori di altri settori matematici. Sembra perciò che l’unica via percorribile sia cercare di enucleare, più che i progressi tecnici concreti conseguiti (a volte notevoli), lo spirito di questa evoluzione, illustrandolo con esempi quanto possibile elementari.
Questo saggio non può ambire, e non soltanto per ragioni di spazio, a dare una panoramica esauriente dei temi più importanti della ricerca in geometria. Il punto di vista adottato è perciò dichiaratamente parziale. Dovendo scegliere una sola linea di ricerca da descrivere, la scelta sembra obbligata: la soluzione, dovuta a Grigorij J. Perelman, della congettura di Poincaré e della congettura di geometrizzazione di Thurston. Essa spicca tra i molti, notevoli risultati importanti ottenuti in geometria in questi primi anni del 21° sec., per l’importanza degli strumenti tecnici introdotti, la portata dei risultati e la loro risonanza anche al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti. Si dovranno quindi trascurare altri sviluppi estremamente fecondi e stimolanti, primo tra tutti il programma di Langlands nella sua versione geometrica, al quale sarà fatto cenno al termine del saggio. Tra le altre omissioni, sono particolarmente significative l’estensione del programma di Mori per la classificazione birazionale delle varietà algebriche a dimensioni maggiori di 3, i recenti sviluppi della teoria geometrica dei sistemi dinamici e lo studio dei problemi di geometria algebrica e differenziale posti dalla teoria delle stringhe, in particolare la tematica della simmetria speculare omologica; in termini di apertura di prospettive geometriche, i recenti sviluppi in geometria non commutativa nonché costruzione della geometria algebrica derivata.
La geometria e le altre discipline matematiche
La geometria non si distingue dagli altri settori della matematica tanto per i metodi e le tecniche, che spesso anzi mutua da essi, quanto per il particolare atteggiamento mentale nella scelta dei problemi e nel modo di affrontarli. Il suo carattere intrinsecamente interdisciplinare nell’ambito della matematica ha origine dal fatto che i metodi puramente geometrici sono per loro natura deboli, se confrontati con la potenza tecnica dell’analisi matematica o dell’algebra, cosicché i maggiori progressi in geometria sono stati ottenuti combinando le risorse dell’intuizione geometrica con i metodi ‘duri’ dell’analisi, nel caso della geometria differenziale, o dell’algebra, nel caso della geometria algebrica e della topologia algebrica. A loro volta, la suggestività del linguaggio geometrico e la sottigliezza delle questioni geometriche costituiscono tuttora una guida in questi settori, indirizzandone e stimolandone gli sviluppi. Molte equazioni differenziali studiate assiduamente in analisi hanno origine geometrica, e spesso considerazioni di tipo geometrico aiutano la comprensione di queste equazioni, consentono di intuire il tipo di soluzioni e il loro comportamento, suggeriscono problemi interessanti, in un’interazione sempre feconda. I lavori di Perelman sono un’illustrazione esemplare di questo fenomeno, ma si possono citare altresì i risultati sulle equazioni di Monge-Ampère, il problema di Yamabe, i problemi sulla curvatura di Levi. Analogamente, tra le molte possibili strutture studiate dall’algebra astratta, sono spesso quelle di origine geometrica a rivelarsi le più ricche e interessanti. Accade anzi che strutture studiate per sé vengano illuminate dall’interpretazione geometrica e acquistino una rilevanza maggiore. È stato così per l’algebra commutativa che, per tutto il 20° sec., ha tratto ispirazione dalla geometria algebrica; è il caso, più di recente, delle vertex algebras, grazie all’interpretazione geometrica che ne hanno dato Alexander A. Beilinson e Vladimir G. Drinfel´d o, in modo ancor più spettacolare, del programma geometrico di Langlands.
Varietà algebriche e differenziabili
È tipico dello sviluppo della matematica un continuo spostamento di accento: problemi di natura elementare suggeriscono ambiti più ampi in cui possono essere efficacemente trattati. A loro volta questi ambiti generano nuovi problemi e trovano applicazioni in altri contesti a prima vista lontani dalle motivazioni iniziali, perdendo così la loro natura accessoria e diventando meritevoli di essere studiati per sé. Tale indagine a sua volta produce nuove generalizzazioni e così via, finché diventa difficile, a volte anche per gli specialisti, rintracciare il filo che lega certi settori ai problemi chiave che li hanno motivati. La difficoltà maggiore nel comunicare a un non specialista gli sviluppi moderni in geometria risiede perciò nel mostrare la serrata necessità logica che ha portato a introdurvi nozioni a prima vista lontane dagli oggetti primari di questa disciplina, cioè lo spazio e le figure geometriche. È dunque necessario, anche in un’opera che si propone di trattare solo temi strettamente contemporanei, dedicare una parte significativa dell’esposizione a illuminare la genesi di alcune nozioni di base della geometria differenziale e algebrica.
La possibilità di applicare strumenti algebrici o analitici allo studio di problemi di natura geometrica ha origine nel metodo delle coordinate di Descartes. Questo metodo consente, com’è noto, di tradurre problemi relativi alle proprietà di figure geometriche in problemi algebrici sui polinomi che definiscono tali figure. Così, per es., la determinazione del punto d’intersezione di due rette nel piano si traduce nel problema puramente algebrico di risolvere un sistema di due equazioni di primo grado in due incognite, e il parallelismo di tali rette si traduce nell’annullarsi del determinante della matrice associata alle equazioni delle due rette. L’introduzione del metodo delle coordinate ha aperto in modo naturale la strada a tre generalizzazioni di grande portata.
Spazi di dimensione maggiore di tre
Dal punto di vista algebrico non vi è alcuna differenza, se si eccettua un’eventuale maggiore difficoltà di calcolo, nel trattare problemi che coinvolgono un numero arbitrario di coordinate al posto delle due o tre dei problemi della tradizionale geometria del piano o dello spazio; da qui l’introduzione di spazi lineari di dimensione arbitraria e luoghi geometrici definiti da insiemi di polinomi in un numero qualsiasi di indeterminate.
Coefficienti in un campo qualsiasi
È stato presto osservato che l’introduzione di punti le cui coordinate sono numeri complessi anziché reali (e la considerazione dei punti impropri della geometria proiettiva) porta a una radicale semplificazione e a risultati di maggiore armonia. Così, per es., il problema di determinare i punti comuni a due curve definite da polinomi di grado rispettivamente m e n ha, se si considerano punti complessi anche impropri, sempre esattamente mn soluzioni, se contate con l’opportuna molteplicità. La maggiore uniformità dei fenomeni della geometria complessa, rispetto a quella reale, è stata alla base del suo sviluppo impetuoso a partire dalla seconda metà del 19° secolo. D’altro canto, nella teoria dei numeri sorgono naturalmente (in particolare nello studio dei problemi di congruenze) altri insiemi numerici, differenti dai numeri reali e dai numeri complessi, in cui sono definite le operazioni dell’aritmetica elementare: somma, sottrazione, moltiplicazione e divisione per un elemento non nullo. Insiemi con queste proprietà sono detti campi. Di particolare importanza sono i campi finiti e le loro estensioni, ed è stato presto notato che molta parte della geometria algebrica, cioè dello studio dei luoghi geometrici definiti come zeri di polinomi in più variabili, si estende in modo naturale, pur dando luogo a nuovi fenomeni, se si considerano le coordinate dei punti in un campo qualsiasi. Come nel caso dell’ampliamento complesso del campo reale, ogni campo ha una chiusura algebrica, è cioè contenuto in un campo più grande in cui tutte le equazioni algebriche hanno soluzione. Lo studio della geometria algebrica su campi qualunque e più tardi, con Alexander Grothendieck, su anelli qualunque, oltre ad avere profonde implicazioni aritmetiche, ha permesso di distillare le nozioni che sono alla base della geometria algebrica e illuminare il carattere specifico di alcuni fenomeni al campo dei numeri complessi. In determinati casi, importanti teoremi di geometria nel campo complesso si sono potuti dimostrare solo passando alla geometria algebrica sui campi finiti e poi ‘rimontando’ il risultato sul campo dei numeri complessi.
Varietà e coordinate locali
L’essenza del metodo delle coordinate consiste nella possibilità di specificare in modo unico un punto dello spazio fornendo una terna di valori individuati rispetto a un sistema di riferimento fissato. Nel trattare i punti di un luogo geometrico, ci si scontra immediatamente con il problema che questa parametrizzazione è possibile solo localmente. Si consideri il luogo dei punti dello spazio le cui coordinate soddisfano un’equazione del tipo F(x, y, z)=0, per es. la sfera di equazione x2+y2+z2−1=0; sotto ipotesi abbastanza generali (gradiente non nullo sul luogo in considerazione), in regioni opportune, che coprono la superficie, una variabile si può esplicitare in funzione delle altre. Pensiamo, per es., all’emisfero nord della sfera, cioè l’insieme dei punti della sfera con coordinata z>0; esplicitando z, si ottiene z=√−1−−−x−2−−−y−2− e le coordinate dei punti dell’emisfero nord sono dati da (x, y, √−1−−−x−2−−−y−2−).
Quindi, esplicitare una variabile in funzione delle altre due, in una certa regione di superficie, permette di associare univocamente a una coppia di numeri un punto della regione, più precisamente consente d’identificare la regione con un dominio nel piano, in questo caso l’insieme dei punti del piano che si trovano nel disco di raggio 1 e centro 0. Per parametrizzare altri punti è opportuno, invece, esplicitare un’altra variabile, oppure, per i punti sull’emisfero inferiore, considerare la parametrizzazione z=−√−1−−−x−2−−−y−2−.
Si giunge così all’idea di un oggetto geometrico, da chiamarsi superficie, oppure genericamente, varietà, coperto da regioni i cui punti possono parametrizzarsi con coppie, o in generale n-uple, di numeri reali, ossia le coordinate locali che variano in un certo dominio di uno spazio lineare. Tale parametrizzazione può non essere realizzabile globalmente, come testimonia l’impossibilità di rappresentare tutti i punti della sfera senza eccezioni su una regione piana: una carta geografica rappresenta soltanto una regione della Terra. La terminologia matematica conserva il ricordo dell’origine cartografica di tali nozioni: queste parametrizzazioni locali si chiamano infatti carte, e per designare una collezione di carte che coprono tutto lo spazio si parla di atlante. Naturalmente un dato punto può apparire in più di una carta, e gli corrisponderanno coordinate diverse, legate tra loro da corrispondenze, dette cambi di coordinate. Si parla di varietà differenziabile se le funzioni che definiscono i cambi di coordinate sono dotate di derivate di ogni ordine, mentre si parla di varietà topologica se si suppone che queste funzioni siano soltanto continue. Così, localmente, una varietà non differisce da una regione di uno spazio lineare, a meno che non sia data naturalmente qualche altra struttura geometrica. Ciò consente di applicare gli strumenti del calcolo differenziale in tutta la loro potenza, a patto di definire oggetti intrinseci, cioè le cui proprietà non dipendano dal sistema di coordinate usato per esprimerli. La costruzione del calcolo intrinseco sulle varietà (calcolo tensoriale), opera di molti matematici – Gregorio Ricci Curbastro, Tullio Levi Civita, Hermann K.H. Weyl, Élie J. Cartan –, si è rivelata uno degli strumenti più utili in matematica e in fisica.
Gli spazi della geometria differenziale
La classificazione topologica della varietà
Con buona approssimazione, si può dire che la dicotomia locale/globale corrisponde in geometria differenziale a quella geometria/topologia. Due varietà X e Y sono omeomorfe, o topologicamente equivalenti, se esiste una corrispondenza continua tra i punti di X e quelli di Y e una, inversa della prima, tra i punti di Y e quelli di X. Un po’ approssimativamente si può dire che la definizione esprime il fatto intuitivo che una varietà può deformarsi con continuità nell’altra. In questa deformazione si perde ogni dato geometrico, quale la distanza tra due punti, la lunghezza di una curva, l’angolo tra due curve. Si conserva solo il dato qualitativo. Per es., una varietà chiusa di dimensione 1 (una curva chiusa semplice, cioè che non interseca sé stessa) è sempre topologicamente equivalente a una circonferenza; una sfera e la frontiera di una regione convessa nello spazio sono topologicamente equivalenti. Le superfici della figura 1 con lo stesso invariante g danno altri esempi di equivalenza topologica. L’equivalenza topologica di due varietà è una nozione relativamente ampia; in senso lato due varietà sono omeomorfe quando hanno qualitativamente la stessa forma. La questione della classificazione topologica delle varietà si pone naturalmente: si tratta in un certo senso di classificare i fenomeni geometrici globali che si possono presentare in uno spazio. Data la natura ‘robusta’ dell’equivalenza topologica, cioè il fatto che il tipo topologico di uno spazio resta costante se questo viene deformato, si può sperare in una classificazione che coinvolga solo un insieme discreto di possibilità. Questo succede, per es., nel caso delle superfici. Limitiamoci a quello delle superfici chiuse orientabili, cioè quelle che possono essere pensate nello spazio tridimensionale e lo dividono in una parte interna e una esterna. È possibile dimostrare che una superficie chiusa orientabile è topologicamente equivalente a una sfera con g manici (fig. 1).
Le superfici non orientabili, quali le classiche bottiglie di Klein, si classificano in maniera analoga a partire da quelle orientabili. Il numero intero g, detto genere della superficie, è perciò l’unico invariante topologico di una superficie chiusa orientabile, nel senso che due superfici di questo tipo sono omeomorfe se, e solo se, hanno lo stesso genere.
Il gruppo fondamentale e la congettura di Poincaré
Una superficie di genere maggiore di zero, come quelle nella figura 1, contiene curve chiuse che non possono deformarsi con continuità a un punto: si consideri, per es., la curva che ‘gira attorno a un manico’. Si può dunque caratterizzare topologicamente la sfera bidimensionale come l’unica superficie chiusa in cui ogni curva chiusa può essere deformata con continuità a un punto: tale proprietà topologica si chiama semplice connessione. Jules-Henri Poincaré, in una sua celebre memoria (Analysis situs, «Journal de l’École polytechnique», 1895, sér. 2, 1, pp. 1-121), ipotizza che, analogamente, ogni varietà chiusa semplicemente connessa di dimensione 3 sia omeomorfa alla sfera tridimensionale S3. Nella stessa memoria Poincaré definisce un invariante, il gruppo fondamentale, che misura quanto uno spazio non è semplicemente connesso (si ricorda che si parla di gruppo per indicare un insieme su cui è definita un’operazione, detta prodotto, non necessariamente commutativa, dotata della proprietà associativa e rispetto alla quale ogni elemento ha un inverso).
Il gruppo fondamentale può essere descritto in due modi diversi. Il più intuitivo è il seguente: si fissa un punto sulla varietà, detto punto base, e si considerano le curve chiuse tracciate sulla varietà che partono e arrivano al punto base. L’operazione di composizione che origina la struttura di gruppo consiste nel percorrere prima una curva poi l’altra. Come accade per molti oggetti in matematica, gli elementi del gruppo fondamentale sono classi di equivalenza: gli elementi del gruppo fondamentale sono le classi di omotopia delle curve. Due curve si dicono omotope quando si ottengono l’una dall’altra con un processo di deformazione (nel nostro caso è richiesto che tutte le curve della famiglia continuino ad avere il punto base come punto di partenza e di arrivo). Così due curve omotope sono due diverse rappresentazioni di uno stesso elemento del gruppo fondamentale. La curva degenere, costantemente uguale al punto base, e tutte quelle a lei equivalenti, sono l’elemento 1 del gruppo. In una varietà semplicemente connessa questa classe costituisce l’unico elemento del gruppo fondamentale. A ogni varietà X è possibile associare una varietà X῀ semplicemente connessa, detta il suo rivestimento universale; gli elementi del gruppo fondamentale Γ di X definiscono trasformazioni di X῀ in sé, e X si ottiene da X῀ identificando i punti che si ottengono l’uno dall’altro applicando una trasformazione in Γ, costruendo cioè quello che si chiama lo spazio quoziente di X῀ rispetto all’azione del gruppo Γ.
Per es., un cilindro non è semplicemente connesso, in quanto la sua circonferenza direttrice non può deformarsi con continuità a un punto. Ogni curva chiusa tracciata sul cilindro può deformarsi a un punto o alla circonferenza direttrice percorsa un certo numero di volte. Il rivestimento universale è il piano. Il cilindro si ottiene dal piano identificando i punti che si ottengono applicando una traslazione τ di ampiezza fissata o un suo multiplo intero (anche negativo). Questa descrizione traduce il fatto che un cilindro si costruisce ‘arrotolando’ il piano. Una scelta diversa dell’ampiezza della traslazione produce cilindri diversi dal punto di vista metrico (v. oltre Proprietà locali), ma topologicamente indistinguibili. Un segmento che nel piano congiunge un punto al suo traslato mediante τ corrisponde, nel cilindro, alla circonferenza direttrice.
Analogamente, se si scelgono due vettori non paralleli v, w nel piano, e si identificano due punti qualora il loro vettore differenza appartenga al reticolo intero generato da v e w, si ottiene topologicamente un toro, come è mostrato nella figura 2 nel caso particolare di due vettori ortogonali della stessa lunghezza: ogni punto del piano è equivalente a un punto del parallelogramma individuato da v e w (nel caso in figura il quadrato di lati A, B, C, D). Inoltre i punti sui lati opposti del bordo del parallelogramma sono ancora equivalenti, per cui la superficie cercata si ottiene incollando i lati B e D, ottenendo così un cilindro, e poi ancora i lati A e C.
Diverse coppie di vettori danno strutture geometriche diverse sul toro, ma la stessa struttura topologica. Il gruppo fondamentale è il primo di una serie di invarianti topologici di una varietà; una costruzione simile a quella del gruppo fondamentale, in cui però si considerano non curve chiuse, ma superfici omeomorfe a sfere di una dimensione data, sempre a meno di omotopia, dà origine ai gruppi di omotopia superiore. Una versione ‘linearizzata’ di questi invarianti è data dai gruppi di omologia e coomologia, oggetti la cui definizione, che non daremo, è più complicata ma il cui calcolo è enormemente più facile di quello dei gruppi di omotopia. Lo studio di questi invarianti, delle loro relazioni e dei metodi per calcolarli, costituisce l’oggetto della topologia algebrica, un settore della geometria che ha conosciuto nel 20° sec. uno sviluppo impetuoso, e le cui tecniche hanno invaso campi a prima vista lontanissimi, come la teoria dei numeri.
La congettura di Poincaré è semplice e fondamentale: si suppone che il semplice comportamento delle curve chiuse su una varietà di dimensione 3, in particolare la proprietà che ogni curva si possa deformare a un punto, sia sufficiente a caratterizzare topologicamente la sfera tra tutte le possibili varietà chiuse. Essa appartiene a quel piccolo numero di problemi presto riconosciuti come centrali nella matematica; la sua fecondità si può misurare dalla ricchezza di risultati e teorie costruite per provarla. Una buona parte del lavoro fatto in topologia geometrica nel 20° sec. è più o meno direttamente ispirata a tale congettura, mentre i tentativi di tipo analitico di dimostrarla hanno condotto allo studio di importanti equazioni differenziali di origine geometrica. Anche se è piuttosto facile costruire varietà semplicemente connesse di dimensione maggiore di 3 non omeomorfe alla sfera, per es. il prodotto di due sfere di dimensione 2, si può enunciare un analogo della congettura di Poincaré in dimensione maggiore di 3 che coinvolge i gruppi di omotopia superiore. Sorprendentemente, questo si è dimostrato un problema più facile della congettura originale se la dimensione dello spazio è maggiore di 4, caso risolto da Stephen Smale all’inizio degli anni Sessanta. Negli anni Ottanta la congettura di Poincaré è stata inquadrata da William P. Thurston nell’ambito molto più ampio della sua congettura di geometrizzazione, un grandioso tentativo di comprendere le varietà di dimensione 3 mediante le particolari geometrie locali che si possono definire su esse. La congettura è stata risolta nel 2003 da Perelman, che ha portato a termine un approccio proposto da Richard S. Hamilton, superando difficoltà tecniche molto ardue. Per dare un’idea di questo programma e della portata della sua soluzione, dovremo fornire alcune definizioni di geometria riemanniana e discutere il teorema di uniformizzazione per superfici, modello al quale Thurston si è ispirato.
Proprietà locali
Metriche riemanniane. Dal punto di vista topologico la struttura locale di una varietà non è significativa: ogni punto appartiene a una regione che può essere identificata, mediante una carta, con una regione dello spazio lineare n-dimensionale. In termini vaghi ma suggestivi si può dire che un essere che vive sulla varietà non può, mediante esperienze qualitative limitate a una piccola regione, distinguere una varietà da un’altra. Soltanto esperienze di misurazione possono evidenziare tale differenza. In altri termini, dal punto di vista metrico, più rigido, due varietà possono differire anche localmente. Per es., una regione della sfera, per quanto piccola, non si può sovrapporre a una regione del piano senza distorcere le distanze. Analogamente, una regione di una superficie di tipo iperbolico, per es. la superficie di equazione z2−x2−y2+1=0, non può sovrapporsi né a una regione piana né a una sferica. Si dice che una varietà è dotata di una metrica riemanniana quando in ogni regione con coordinate (x1,…, xn) sono date delle funzioni gij(x1,…, xn), che forniscono la forma infinitesimale del teorema di Pitagora, ossia che un arco infinitesimo che congiunge il punto di coordinate (x1(0),..., xn(0)) al punto (x1(0)+δx1,..., xn(0)+δxn) ha lunghezza infinitesima
−−−−−−−−−−−−−−−−−−−
√Σgij (x1(0),...,xn(0)) δx1δxj
Equivalentemente, una curva γ(t)=(γ1(t),..., γn(t)) ha lunghezza
−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−−
∫√Σgij (γ1(t),..., γn(t))γi′(t)γj′(t)dt
Per es., nel caso dello spazio euclideo piatto, rispetto a un sistema di coordinate ortonormali, si ha gij=1 e gij=0 se i≠j. Nel caso del piano, n=2, l’espressione che dà la lunghezza infinitesima si riduce esattamente al teorema di Pitagora per il triangolo rettangolo con cateti di lunghezza δx1 e δx2. Nel caso della sfera si possono scegliere coordinate per cui gij=0 se i≠j e gii =(1+Σx2i)−2, mentre, sull’insieme dei punti che distano meno di 1 dall’origine, ossia il disco aperto di raggio 1, la metrica definita da gij=0 (se i≠j) e gii = (1−Σx2i)−2 è denominata metrica iperbolica. Questi due esempi, che hanno senso in qualsiasi dimensione, presentano, come vedremo, caratteristiche opposte, corrispondendo ai casi di curvatura costante non nulla, positiva per la sfera, negativa per il disco aperto.
La presenza di una struttura riemanniana permette di definire molte proprietà geometriche, quali l’angolo formato da due curve che si intersecano e la distanza tra due punti, definita come il minimo tra le lunghezze delle curve che congiungono i due punti. Dati due punti non troppo distanti esiste un’unica curva di lunghezza minima, detta geodetica, che li congiunge. Le geodetiche hanno in geometria riemanniana lo stesso ruolo che hanno le rette nella geometria euclidea. Nel caso della sfera le geodetiche sono i cerchi massimi che si ottengono intersecando la sfera con un piano passante per l’origine. Nel caso dello spazio iperbolico che, come abbiamo già detto, identifichiamo con i punti del disco aperto, ovvero i punti dello spazio interni alla sfera di raggio 1, le geodetiche sono archi di circonferenza perpendicolari al bordo del disco o diametri del disco, come si vede nella figura 3, che mostra le geodetiche sullo spazio iperbolico di dimensione 2 (piano iperbolico). In tale modello, l’angolo tra due geodetiche rispetto alla metrica iperbolica coincide con quello usuale (si dice che si tratta di un modello conforme).
Le trasformazioni di una varietà riemanniana che conservano le distanze tra i punti che possono considerarsi l’analogo dei movimenti rigidi della geometria euclidea, sono dette isometrie.
Essendo una metrica un oggetto di natura locale, è possibile definire una metrica sul rivestimento universale di una varietà riemanniana in modo che la geometria locale della varietà e del suo rivestimento siano uguali. In particolare, la varietà si può descrivere, in modo analogo a quanto discusso prima nel caso topologico, come quoziente del suo rivestimento universale per un gruppo Γ di isometrie, con la differenza che adesso sia il rivestimento sia il quoziente non sono più soltanto spazi topologici, ma sono dotati di un’ulteriore struttura, quella riemanniana. L’esempio discusso sopra del cilindro e del toro definisce su queste superfici una metrica riemanniana localmente equivalente alla metrica euclidea.
Curvatura. Poiché una proprietà delle varietà è che non ci siano sistemi di coordinate privilegiati, si devono considerare equivalenti due metriche che si ottengono l’una dall’altra con un cambio di coordinate, poiché in tal caso le due regioni possiedono la stessa geometria. Sorge così il problema di individuare invarianti che permettano di riconoscere l’equivalenza o meno di due metriche. A differenza del problema topologico globale, questi invarianti saranno di natura locale. Proprio nel tentativo di rispondere a questa domanda Carl F. Gauss introdusse, nel caso delle superfici, la curvatura, come invariante che misura la non sovrapponibilità di una superficie a una regione del piano, nozione poi generalizzata da Bernhard Riemann a spazi di dimensione qualunque. La curvatura è un’espressione piuttosto complicata, dipendente da 4 indici (tecnicamente si tratta di un tensore), che si calcola a partire dalla metrica gij e dalle sue derivate parziali di ordine 2.
Un’importante osservazione dovuta a Gauss interpreta la curvatura come una misura della differenza tra π e la somma degli angoli interni di un triangolo tracciato sulla varietà i cui lati sono curve geodetiche. Così, il teorema della geometria euclidea, che asserisce che la somma degli angoli interni di un triangolo è esattamente π, è equivalente al fatto che il piano euclideo ha curvatura nulla. Tracciando, come nella figura 4, un triangolo su una sfera i cui lati sono due archi di meridiani che partono da un polo e arrivano all’equatore formando un angolo retto, ci si rende conto che un triangolo geodetico ha angoli interni la cui somma è maggiore di π, il che esprime il fatto che la curvatura della sfera è positiva. La figura 3 mostra il disco aperto di dimensione 2 e alcune geodetiche. Poiché gli angoli nella metrica iperbolica coincidono con quelli della geometria euclidea, si vede immediatamente che nello spazio iperbolico, a curvatura negativa, la somma degli angoli di un triangolo che abbia lati geodetici (come il triangolo ABC della fig. 3) è minore di π, arrivando addirittura a 0 quando i vertici si trovano sul bordo del disco (triangolo ideale). Gran parte della ricerca in geometria riemanniana si è concentrata sull’interazione tra l’esistenza, su una varietà, di metriche la cui curvatura abbia particolari proprietà, e la topologia della varietà: in altri termini sull’interazione tra proprietà locali (ipotesi sulla curvatura) e proprietà globali (topologia).
Il teorema di uniformizzazione per superfici
L’ipotesi più semplice che si può fare su uno spazio è quella di curvatura costante. Una varietà riemanniana a curvatura costante possiede notevoli proprietà, dovute al fatto che sostanzialmente per ogni valore fissato della curvatura esiste un solo modello locale: la geometria di una varietà a curvatura costante è la stessa nell’intorno di un qualsiasi suo punto. Non è difficile mostrare che le uniche varietà riemanniane semplicemente connesse e complete (una condizione tecnica su cui non ci soffermeremo) a curvatura costante sono la sfera, lo spazio euclideo e lo spazio iperbolico, caratterizzate da una curvatura costante rispettivamente positiva, nulla, negativa. Ogni altra varietà completa a curvatura costante ha uno di questi tre modelli come rivestimento universale, e si ottiene perciò come quoziente per un sottogruppo Γ di isometrie. Il teorema di uniformizzazione, dimostrato nel 1907 da Poincaré e da Paul Koebe, asserisce che su ogni superficie è possibile definire una metrica a curvatura costante, il cui segno dipende dal genere g. La sfera (g=0) ammette una metrica a curvatura costante positiva, il toro (g=1) ammette una metrica a curvatura nulla indotta dalla sua descrizione come quoziente del piano euclideo. Osserviamo che se si pensa al toro come contenuto nello spazio ordinario si ha un’altra metrica, nella quale la lunghezza di una curva tracciata sul toro si definisce uguale alla lunghezza calcolata nello spazio ambiente tridimensionale. La curvatura di questa metrica è, tuttavia, positiva in certe zone e negativa in altre. Le superfici di genere maggiore di 1 ammettono metriche con curvatura costante negativa; hanno perciò il disco iperbolico come rivestimento universale e si ottengono come quozienti di questo per un sottogruppo Γ di isometrie. Osserviamo, in conclusione, la seguente caratterizzazione riemanniana della sfera, che stabilisce un forte legame tra le proprietà topologiche e quelle metriche di una superficie: una superficie chiusa orientabile è topologicamente equivalente a una sfera se, e solo se, ammette una metrica a curvatura costante positiva.
Il programma di geometrizzazione
di Thurston
Nel tentativo di far percepire anche al lettore non specialista la bellezza e la grandiosità del programma di geometrizzazione, ancora fino a pochi anni fa in larga parte congetturale, sarà inevitabile sacrificare molti aspetti tecnici; molto di ciò che diremo sarà leggermente semplificato, senza tuttavia, pregiudicare gravemente la correttezza del discorso. Analogamente al teorema di uniformizzazione per le superfici, il programma di Thurston indaga la possibilità di costruire una metrica speciale su una varietà tridimensionale. Poiché, come nel caso bidimensionale, ogni varietà topologica tridimensionale ha un’unica struttura differenziabile, la questione dell’esistenza di tali metriche, che a rigore concerne la struttura differenziabile della varietà, ha senso anche nel contesto della topologia. Semplici esempi mostrano che la richiesta che la metrica abbia curvatura costante è troppo restrittiva. Si richiede allora che la metrica sia localmente omogenea, vale a dire che la geometria, nell’intorno di un qualsiasi punto della varietà, sia la stessa, ossia nessuna nozione che riguarda solo regioni piccole della varietà può distinguere un punto da un altro. Si dice allora che è definita sulla varietà una struttura geometrica, o, più brevemente, una geometria. In dimensione 3 esistono 8 possibili geometrie, le 3 a curvatura costante (sferica, euclidea e iperbolica a seconda del segno della curvatura) e 5 a geometria mista. Ogni varietà con una struttura geometrica si ottiene da un modello semplicemente connesso (unico) e da un sottogruppo discreto di isometrie. La presenza di una geometria su una varietà fornisce una grande quantità di informazioni, in particolar modo quando è unica. Un esempio di unicità è fornito dal classico teorema di rigidità di Mostow, generalizzato da Gopal Prasad: una varietà tridimensionale ammette al massimo una geometria iperbolica con volume finito; in questo caso ogni invariante geometrico, quale il volume o l’insieme delle lunghezze delle geodetiche, risulta automaticamente un invariante topologico. Ciò è in marcato contrasto con il caso bidimensionale, poiché su ogni superficie di genere g≥2 esiste una famiglia continua di strutture iperboliche non equivalenti.
Nella teoria delle varietà tridimensionali antecedente al lavoro di Thurston, era stata evidenziata l’importanza di particolari superfici, dette sfere essenziali e tori incomprimibili, che possono essere contenute in una varietà. Thurston interpreta tali superfici come ostruzioni all’esistenza di strutture geometriche globali: semplificando, egli congettura che ogni varietà sia suddivisa da queste superfici in regioni, ognuna delle quali è dotata di una geometria.
Una varietà tridimensionale si dice irriducibile se ogni superficie omeomorfa alla sfera in essa contenuta è la frontiera di un disco tridimensionale. Già negli anni Trenta del secolo scorso, Hellmuth Kneser aveva individuato un metodo per scomporre una varietà tridimensionale in un’unione di nuove varietà che sono o irriducibili oppure omeomorfe al prodotto S2×S1 di una sfera per una circonferenza. Una varietà dotata di una struttura geometrica è necessariamente irriducibile, a meno che non sia omeomorfa a S2×S1.
Anche supponendo che una varietà sia irriducibile, vi è un’ulteriore ostruzione all’esistenza di una struttura geometrica: la presenza di tori incomprimibili. Una superficie contenuta in una varietà tridimensionale si dice incomprimibile se gode della seguente proprietà: se una curva chiusa tracciata su di essa può essere deformata con continuità a un punto nella varietà ambiente, allora tale deformazione è già possibile senza uscire dalla superficie. Su una varietà irriducibile esiste un numero finito di tori incomprimibili disgiunti T1,..., Tn che suddividono la varietà in regioni con la seguente proprietà: ogni toro incomprimibile contenuto in una di esse può deformarsi con continuità fino a coincidere con uno dei Ti. Una delle più importanti intuizioni di Thurston è che questi tori separino tra loro le diverse regioni geometrizzabili della varietà: su ogni regione esiste una geometria che degenera lungo i tori contenuti nella sua frontiera, nel senso che i punti di questi tori appaiono come infinitamente lontani.
Come nel caso delle superfici, la geometria di gran lunga prevalente è quella iperbolica, mentre le geometrie non iperboliche riguardano casi piuttosto speciali (trascuriamo qui alcuni importanti aspetti tecnici, legati alle varietà di Seifert e alle cosiddette varietà grafo, che precisano sensibilmente la congettura).
La congettura di geometrizzazione ingloba la congettura di Poincaré, in quanto una varietà chiusa e semplicemente connessa non contiene tori incomprimibili, e l’unica varietà chiusa semplicemente connessa con struttura geometrica è la sfera. Con sottili argomentazioni geometrico-topologiche, Thurston ha mostrato che la congettura vale per una larga classe di varietà, dette di Haken.
La strategia di Hamilton: il flusso di Ricci
Nei primi anni Ottanta, Hamilton ha proposto un approccio fortemente analitico per provare la congettura di Thurston, iniziando lo studio approfondito del flusso di Ricci. L’idea è abbastanza semplice, anche se i dettagli tecnici non lo sono affatto. Un analogo lineare è fornito dall’equazione del calore ∂tu=Δu, che descrive l’evoluzione temporale della distribuzione della temperatura u(x, y, z, t) di un mezzo a partire dalla distribuzione al tempo iniziale e dalle condizioni al contorno. Il calore fluisce dalle zone più calde a quelle più fredde e la temperatura evolve verso una distribuzione uniforme. In modo analogo, partendo da una metrica data gij(0) al tempo iniziale, la si fa evolvere secondo l’equazione introdotta da Hamilton ∂tgij=−2Ric(g)ij, detta flusso di Ricci, che dà, per ogni tempo t per cui esiste la soluzione, una metrica gij(t), la cui curvatura tende a distribuirsi uniformemente sulla varietà. La quantità Ric(g)ij è legata alla curvatura, la cosiddetta curvatura di Ricci, che nel fortunato caso di dimensione 3 la determina completamente. In particolare, Ric(g)ij è un’espressione non lineare che coinvolge le derivate parziali seconde delle funzioni gij. Essendo l’unico oggetto geometrico costruito a partire dalla curvatura dello stesso tipo della metrica – tensore di tipo (0,2) –, il tensore di Ricci appare in molte equazioni cruciali delle geometria e della fisica, quali le equazioni della relatività generale e le equazioni di Monge-Ampère della congettura di Calabi, risolta da Shing-Tung Yau negli anni Settanta. Una metrica si dice di Einstein se il suo tensore di Ricci è multiplo della metrica, ossia se Ric(g)ij=cgij. Nel caso di dimensione 3, una metrica di Einstein è automaticamente a curvatura costante. Il flusso di Ricci è un sistema di equazioni alle derivate parziali non lineari di tipo debolmente parabolico, perché il gruppo dei diffeomorfismi della varietà agisce come gruppo di simmetrie delle equazioni. Hamilton ha mostrato che, partendo da una metrica iniziale gij(0), l’equazione possiede soluzione, almeno per tempi piccoli; in generale, però, il flusso di Ricci esiste solo in un intervallo di tempo limitato: vi è un tempo T in cui l’equazione cessa di avere soluzione, ed è nel controllo di questo fenomeno che risiedono alcune delle maggiori difficoltà tecniche della strategia di Hamilton. Infatti, come discuteremo più avanti, se le soluzioni esistono per ogni tempo t>0 si ha una metrica limite che dà la geometrizzazione della varietà.
Hamilton, inoltre, ha iniziato lo studio delle singolarità che si producono quando si raggiunge il tempo massimo T di esistenza delle soluzioni, mostrando in particolare che vi sono regioni della varietà in cui la curvatura ‘diverge’. Questo fenomeno si verifica, per es., se la metrica iniziale ha curvatura di Ricci positiva; in questo caso, però, un cambio di scala nelle soluzioni produce una metrica limite a curvatura positiva costante e si conclude che il rivestimento universale della varietà è la sfera. Il programma di Hamilton prevede tre stadi, in ognuno dei quali s’incontrano enormi difficoltà tecniche alle quali possiamo solo accennare; un’analisi anche parziale dei metodi usati da Perelman per superare tali ostacoli sarebbe accessibile a pochi specialisti, contrariamente allo scopo di questo saggio.
Determinare la struttura delle singolarità. Come già detto, il flusso di Ricci produce singolarità. La serrata analisi della struttura delle possibili singolarità condotta da Hamilton lasciava aperti due problemi tecnicamente molto ardui, una stima sul raggio di iniettività, il cosiddetto lemma del piccolo laccio, e la possibilità dell’insorgenza di una singolarità (detta solitone a sigaro) che non può essere eliminata con una chirurgia.
Chirurgia e continuazione del flusso di Ricci. Hamilton propone di modificare il flusso di Ricci effettuando una ‘chirurgia’ sulla varietà appena prima che si raggiunga il tempo T, nel quale appaiono singolarità. Tale operazione cambia in modo controllato la topologia e la metrica della varietà: le regioni ‘sferiche’ vengono eliminate; altre regioni, dette di tipo collo (neck), vengono tagliate e modificate incollando un disco tridimensionale con una metrica opportuna. Si continua il flusso di Ricci con la nuova varietà riemanniana così ottenuta; se si producono nuove singolarità si itera il procedimento, e così via. Sorge il problema di mostrare che in ogni intervallo finito di tempo è necessario solo un numero finito di queste operazioni.
Analisi del comportamento asintotico del flusso con chirurgia. Hamilton aveva mostrato che se il flusso di Ricci ha soluzione gij(t) per ogni valore di t, e la curvatura di gij(t) soddisfa opportune ipotesi di limitatezza, allora la varietà verifica la congettura di Thurston: la metrica gij(t) determina, per t molto grande, una scomposizione della varietà in due regioni separate da tori incomprimibili: una parte ‘sottile’, omeomorfa a una varietà grafo, e una ‘spessa’ in cui la metrica, dopo un opportuno cambiamento di scala, converge verso una metrica iperbolica. Per portare a termine il programma, supponendo di avere risolto i problemi dei punti precedenti, è necessario mostrare che le soluzioni del flusso di Ricci, modificato con le chirurgie nel modo descritto sopra, hanno questo stesso comportamento.
Questi problemi vengono risolti da Perelman introducendo idee particolarmente originali e nuovi potenti strumenti tecnici; delicati argomenti geometrici interagiscono con elaborate tecniche di rescaling e stime di tipo analitico di nuovi funzionali, che Perelman chiama entropia e volume ridotto. Anche a prescindere dalle sue notevoli applicazioni alla topologia delle varietà tridimensionali, la realizzazione del programma di Hamilton è uno dei maggiori successi dell’analisi geometrica, in quanto rappresenta forse il primo caso in cui viene raggiunto un controllo così preciso delle singolarità che si producono in equazioni alle derivate parziali non lineari. Se si eccettuano pochi casi particolari, fino a oggi l’insorgere di una singolarità in un’equazione differenziale bloccava irrimediabilmente l’indagine; nel caso del flusso di Ricci, le singolarità sono una parte naturale e ineludibile del programma. È facile prevedere che, come succede per i progressi più significativi della matematica, una volta che i metodi sviluppati da Perelman saranno divenuti patrimonio comune dei matematici, essi troveranno applicazioni importanti anche in altri problemi della geometria differenziale, e probabilmente anche della fisica matematica, come le equazioni di Einstein della relatività generale o quelle di Navier-Stokes dell’idrodinamica.
Sviluppi della geometria algebrica e teoria dei numeri
Questo saggio si è concentrato quasi esclusivamente sui progressi della geometria differenziale. Si darebbe però un’idea fortemente distorta della ricerca geometrica attuale se non si accennasse ad alcuni dei temi di maggiore attualità in geometria algebrica. Tra questi i più interessanti appaiono quelli ispirati dalla teoria dei numeri. Studiati indipendentemente da ogni possibile applicazione e per pure ragioni estetiche, i problemi aritmetici, facili da enunciare e da comprendere, spesso difficili da distinguere da un rompicapo enigmistico, hanno nutrito lo sviluppo di alcune tra le più importanti teorie matematiche. L’esigenza, che ha origine nella scuola tedesca di teoria dei numeri dell’Ottocento, di abbracciare con il linguaggio geometrico settori fondamentali della teoria dei numeri, ma soprattutto la formulazione, nel 1949, delle congetture di Weil, hanno dato luogo a una profonda ridefinizione e riorganizzazione della geometria algebrica. Lo stesso André Weil, nell’enunciare queste congetture, di straordinaria precisione e generalità, sull’aritmetica delle varietà algebriche, osserva che esse potrebbero essere affrontate se gli invarianti della topologia algebrica, quali i gruppi di coomologia, e le loro proprietà, quali la dualità di Poincaré e la formula di Lefschetz, avessero senso nel quadro delle varietà algebriche definite su campi qualsiasi; in particolare su campi finiti, dove però è del tutto assente il carattere ‘continuo’ dello spazio, che pare ineludibile anche solo per la definizione di tali invarianti.
La realizzazione di questo programma ambizioso, culminato, negli anni Sessanta del secolo scorso, nella creazione della coomologia étale da parte di A. Grothendieck e della sua scuola, in particolare Michael Artin, Jean-Louis Verdier, Pierre Deligne, e con la soluzione delle congetture di Weil, completata da Deligne nel 1973, costituisce senza dubbio una delle maggiori conquiste matematiche del 20° secolo. Al termine di questa gigantesca rielaborazione teorica, il linguaggio della geometria algebrica, con le sue potenti tecniche, ha potuto affrontare tematiche a prima vista lontanissime, che hanno origine nel mondo ‘discreto’ della teoria dei numeri. Gli importanti risultati ottenuti – tra tutti la soluzione già menzionata delle congetture di Weil, la dimostrazione, dovuta a Gerd Faltings, della congettura di Mordell (1983), la soluzione della congettura di Shimura-Taniyama-Weil (2001), che ha come corollario il teorema di Fermat, a opera di Andrew J. Wiles e dei suoi collaboratori – sono praticamente impossibili da descrivere senza usare il linguaggio e le tecniche della geometria algebrica moderna. Una delle peculiarità di quest’opera di rifondazione è che essa non nasce da una riflessione sulla natura dello spazio fisico, dalla domanda sulla vera natura dello spazio. Ci si chiede, piuttosto, quali enti matematici siano passibili di essere trattati come spazi e, in particolare, a quali oggetti sia possibile applicare il linguaggio e i teoremi della topologia algebrica con i suoi invarianti; la risposta comporta un enorme allargamento dell’orizzonte geometrico. In questo senso è possibile dire che tale domanda sia ancora al centro della ricerca in geometria. La geometria non commutativa e la geometria algebrica derivata costituiscono ulteriori allargamenti di questi orizzonti. La ragione dell’efficacia di quest’invasione e colonizzazione di ambiti lontani da parte del linguaggio geometrico, sintetizzata in tutt’altro contesto nella frase di René Thom ‘capire è geometrizzare’, affonda forse le sue radici nel funzionamento stesso della mente umana.
Nella profonda interazione tra problemi aritmetici e formulazione geometrica si situa la corrispondenza di Langlands, tuttora congetturale, che nella sua versione geometrica ha catalizzato negli ultimi anni gli sforzi dei migliori geometri algebrici. Il programma di Langlands, nella sua forma originaria, abbraccia e organizza in modo sorprendentemente unitario i fenomeni più importanti della teoria dei numeri emersi, nel 20° sec., nei lavori di Emil Artin, Erich Hecke, John T. Tate Jr e Weil. Centrale è la nozione, estremamente generale e tecnica, di rappresentazione automorfa che comprende come casi particolari oggetti classici della teoria dei numeri quali i caratteri di Dirichlet e le funzioni modulari. Motivare l’emergere di queste nozioni e introdurre gli elementi tecnici necessari significherebbe fare la storia della teoria dei numeri nel 20° sec. e richiederebbe un saggio di ben altre dimensioni (per un’incisiva presentazione, v. Gelbart-Miller 2003; per un’introduzione al principio di funtorialità, un tema unificante della filosofia di Langlands, v. Arthur 2002). La stretta analogia tra gli ambiti aritmetico e geometrico, emersa come detto nella seconda metà del 20° sec., ha suggerito un analogo geometrico della corrispondenza di Langlands; è proprio in tale campo, in cui la corrispondenza acquista un senso geometrico pregnante, che, negli ultimi anni, si sono visti i maggiori progressi, in particolar modo per il gruppo GLn. Il caso n=1 è quello della teoria geometrica del corpo di classe, nota dagli anni Cinquanta. Negli anni Ottanta, Drinfel´d ha introdotto una serie di idee, eccezionali per sottigliezza algebrica e penetrazione geometrica, che gli hanno permesso la costruzione della corrispondenza nel caso molto più significativo di n=2. L’estensione di queste idee al caso n>2 si scontrava, però, con enormi difficoltà, risolte nel 2000 da Laurent Lafforgue con un autentico tour de force tecnico. Un ulteriore raffinamento dell’aspetto geometrico, già suggerito dal lavoro di Drinfel´d e da successivi lavori di Gérard Laumon, è stato operato con successo, almeno nel caso non ramificato, per il gruppo GLn, da Edward Frenkel, Dennis Gaitsgory e Kari Vilonen nel 2002.
Un importante e difficilissimo problema, che ha un ruolo centrale nella teoria di Langlands, detto lemma fondamentale, fino a poco tempo fa noto solo in alcuni casi particolari, è stato risolto nel 2008 dal matematico vietnamita naturalizzato francese Ngô Bao Châu. Si tratta di un lavoro di grande profondità, che sfrutta magistralmente le tecniche più potenti della geometria algebrica moderna. La soluzione di Bao Châu passa per una riformulazione geometrica del lemma fondamentale, che lo riconduce allo studio dettagliato della geometria di una varietà algebrica, lo spazio dei moduli dei fibrati di Higgs e di un’applicazione di questa varietà in uno spazio lineare, la fibrazione di Hitchin, già oggetto di profonde ricerche nell’ambito della geometria differenziale e della fisica matematica; la fibrazione di Hitchin fu infatti introdotta e studiata da Nigel Hitchin nei primi anni Ottanta a partire dalle soluzioni invarianti per traslazione delle equazioni di Yang-Mills della fisica matematica. La rilevanza della geometria di questa fibrazione per il programma geometrico di Langlands, già evidente nei lavori di Beilinson e Drinfel´d e di Laumon, indica fortemente possibili punti di contatto tra il programma di Langlands e questioni profonde di fisica teorica, che iniziano a essere espliciti: una serie di tre recenti lavori del fisico Edward Witten, in collaborazione, rispettivamente, con Anton Kapustin, Sergej Gukov e Frenkel, colloca infatti il programma geometrico sul campo ℂ nel quadro delle teorie di Gauge supersimmetriche, in modo tale che alcune delle nozioni più misteriose del programma di Langlands, prima tra tutte l’apparizione del gruppo duale LG, trovano una spiegazione naturale come manifestazioni della dualità elettromagnetica proposta da Claus Montonen e David Olive negli anni Settanta. È prevedibile che, analogamente a quanto è accaduto negli anni passati con le questioni proposte dalla teoria delle stringhe e dalla simmetria speculare, l’irruzione dei metodi euristici della fisica aprirà presto importanti nuovi orizzonti.
Bibliografia
J. Arthur, The principle of functoriality, «Bulletin of the American mathematical society», 2002, 40, 1, pp. 39-53.
S.S. Gelbart, S.D. Miller, Riemann’s zeta function and beyond, «Bulletin of the American mathematical society», 2003, 41, 1, pp. 59-112.
J.W. Morgan, Recent progress on the Poincaré conjecture and the classification of 3-manifolds, «Bulletin of the American mathematical society», 2005, 42, 1, pp. 57-78.
E. Frenkel, Lectures on the Langlands program and conformal field theory, in Frontiers in number theory, physics, and geometry, 2° vol., On conformal field theories, discrete groups and renormalization, ed. P. Cartier, Berlin 2007, pp. 387-533.
Si veda inoltre:
E. Frenkel, R. Langlands, N. Bao Chau, Formule des traces et fonctorialité. Le debut d’un programme, 2010, http://arxiv.org/abs/1003.4578 (22 luglio 2010).