GEOMORFOLOGIA
(v. morfologia terrestre, XXIII, p. 834)
La g., o morfologia terrestre, ha assunto un ruolo di primo piano fra le scienze contemporanee in ragione dell'interesse dell'uomo per l'ambiente in cui vive, di cui la superficie della Terra è l'elemento di base. È naturale, quindi, che essa abbia subito una profonda evoluzione passando attraverso ''rivoluzioni'' epistemologiche, che hanno messo in discussione non solo i mezzi e i metodi della ricerca ma gli stessi oggetti di studio della disciplina. Questi non sono più soltanto le forme del rilievo terrestre ma anche i processi geomorfici di modellamento del paesaggio, con ampio uso del metodo sperimentale e uno spostamento disciplinare verso le cosiddette scienze esatte. Tuttavia, la g. mantiene saldi legami con la geologia e pertanto ha fra i suoi obiettivi anche i rapporti fra le forme e la struttura del rilievo terrestre. Inoltre, il crescente ruolo dell'uomo come modellatore della superficie del nostro pianeta e generatore di processi geomorfici ha portato la g. a studiare anche quelle azioni e le loro conseguenze, inevitabilmente riprendendo le antiche relazioni con la geografia. La g., quindi, si trova nell'ambigua situazione generata da una parte dalla necessità di una parcellizzazione dei suoi ambiti culturali per poter indagare più a fondo gli oggetti di studio, e dall'altra dall'esigenza di non perdere di vista i quadri di riferimento generali e i rapporti con le discipline vicine, pena lo scadimento in pura tecnica di ricerca al servizio di altre scienze.
Per lungo tempo nella cultura contemporanea ha dominato la convinzione di avere nella teoria del ciclo geografico (o ciclo di erosione) di W. M. Davis (1899) la chiave paradigmatica per spiegare la genesi e l'evoluzione del rilievo terrestre. In tal modo l'influenza del pensiero dello scienziato americano fu enorme, come in pochi altri casi nella scienza. Favorirono questa situazione la complessiva coerenza della costruzione teorica del ''ciclo geografico'', la sua relativa semplicità e l'uso di una terminologia suggestiva divenuta familiare anche a livello scolastico. Le ragioni del suo successo risiedettero nel fatto che la teoria del ciclo di erosione, in sostanza lo studio del paesaggio generato dalle acque fluviali, poteva essere applicata con immediatezza ai territori delle medie latitudini, ove si trovavano i centri accademici più importanti, ma soprattutto nella sua fondamentale coerenza con il pensiero evoluzionista, nel quadro di un'evidente ispirazione alla filosofia positivista. La teoria davisiana incontrò un grande favore anche in Italia (salvo l'isolata opposizione di G. Rovereto) e in essa pose le sue radici anche una delle maggiori opere della letteratura geografica nazionale, l'Atlante dei Tipi geografici di O. Marinelli (1922).
Negli anni Cinquanta, dopo essere stata sostenuta in precedenza dai geografi tedeschi, prese corpo, quando a essi si unirono i geomorfologi francesi, una teoria antagonista del ciclo geografico, la g. climatica. Secondo questa teoria, forme e processi morfogenetici dipendono essenzialmente dagli elementi del clima, ed è dalla loro combinazione che prendono origine gli agenti geomorfici capaci di compiere le azioni elementari dell'erosione, trasporto e deposito. Ma, dal momento che i climi della terra si distribuiscono secondo zone latitudinali, ecco che si ha una distribuzione zonale dei paesaggi morfologici. Ogni fascia morfologica è sottoposta e derivata dall'azione di un agente dominante, il ghiacciaio, per es., il vento, il ruscellamento, il gelo discontinuo, le acque fluviali, ecc., ma anche dall'azione di agenti secondari. Non ha senso, quindi, ritenere che l'erosione ''normale'' sia quella delle acque correnti, come sostenuto dalla teoria davisiana: il paesaggio e le sue forme sono un prodotto in equilibrio con l'azione dell'agente geomorfico dominante e di quelli accessori e quindi con il clima regionale. Hanno portato a questa visione le argomentazioni teoriche di W. Köppen sui climi della Terra e le ricerche sul terreno dei geografi tedeschi e francesi nelle zone tropicali umide del Sudamerica e in quelle subaride dell'Africa, già a partire da A. von Humboldt e da E. de Martonne, e anche in quelle periglaciali, regioni nelle quali il modellamento principale non è operato dalle acque correnti fluviali. Poiché nel corso delle ere geologiche e anche in epoca storica vi sono state variazioni climatiche significative, dalla g. climatica prende corpo il concetto di paesaggio poligenetico, in quanto è logico che al mutamento climatico segua quello dell'agente dominante, che creerà forme nuove in sovrapposizione a quelle precedenti. Perciò, quando all'analisi sistematica delle forme della Terra si aggiunge l'analisi storica, si può arrivare al riconoscimento della coesistenza di forme in equilibrio con il clima attuale e di forme estranee, in quanto relitti di un ambiente morfoclimatico distinto e precedente. Questo risultato è particolarmente prezioso perché proprio durante il Quaternario vi sono stati mutamenti climatici tali da far oscillare più volte in latitudine (e in altitudine) le fasce climatiche e morfogenetiche, in modo da provocare successive sovrapposizioni di modellamento della superficie terrestre. Oggi, per es., stiamo attraversando una fase di generale riadattamento del paesaggio terrestre alle nuove condizioni createsi dopo l'ultimo mutamento climatico quaternario culminato nell'acme glaciale di 18.000 anni fa.
Sebbene i teorici della g. climatica non siano ancora riusciti a elaborare un quadro soddisfacente di corrispondenza fra regioni morfologiche e morfogenetiche e fasce climatiche, molti ritengono che questa teoria sia l'autentica via all'interpretazione del rilievo terrestre e la sola in grado di affrancare la g. dai condizionamenti delle altre discipline, soprattutto della geologia. Al di là di questo, è indubbio che la teoria della g. climatica ha aperto nuovi orizzonti alla ricerca e mantiene tuttora amplissimi margini di arricchimento sia con la geografia regionalista e tassonomista, sia con il quantitativismo sistemico, sia con il funzionalismo. A riprova di ciò, si può citare il tentativo di L. Peltier (1975, 1981) di esprimere mediante l'equazione generale:
LF = f(m, dm/dl, de/dt, du/dt, t)
ove LF = la forma; m = materiale geologico (resistenza alla degradazione); dm/dl = fattore strutturale (deformazione con la distanza); de/dt = (tasso di) erosione; du/dt = (tasso di) sollevamento tettonico; t = durata del processo (ognuno di questi fattori è ricavato da altre equazioni)
la genesi delle forme e dei processi e anche dei loro legami con le strutture geologiche. Sebbene sia facile constatare che al raggiungimento di un valore generale di questa equazione manchi un riferimento all'entropia dei sistemi geomorfici, essa è emblematica dell'atteggiamento nomotetico dei geomorfologi climatici. Alla g. climatica si deve poi un altro merito, quello dell'introduzione sistematica del rilevamento e cartografia geomorfologici, che deriva dalla necessità di visione spaziale e di classificazione delle forme per l'interpretazione sintetica di esse e dei processi geomorfici a scala regionale. Questo filone di studi, che si avvale proficuamente dell'ausilio delle tecniche fotointerpretative e di esami di laboratorio, è divenuto molto fiorente anche in Italia e trova applicazioni nel campo della pianificazione territoriale.
Insensibile al richiamo esercitato dalla g. climatica, il mondo anglosassone, di fronte all'isterilimento della ricerca secondo il metodo storico-deduttivo proprio della teoria del ciclo geografico, cui esso è sempre rimasto fedele, dopo alcuni ricorrenti tentativi di quantificare gli studi geomorfologici, proprio negli anni Cinquanta operò un radicale cambiamento di rotta approdando al funzionalismo. In quello che può essere considerato un vero ''manifesto'' delle nuove vie della ricerca, nel 1952 A. N. Strahler indicò nello studio delle funzioni prodotte dagli elementi di una struttura e delle loro interdipendenze, ancorato alle conoscenze fisiche e chimiche e alla quantificazione, lo scopo della g. moderna. Spesso si è indicato con il nome di ''rivoluzione quantitativa'' questo passaggio di capacità introspettiva della ricerca geografico-geomorfologica, tanto più che in poco tempo si è passati dall'uso di semplici tecniche statistiche a modulazioni matematiche e informatiche di ampio respiro, ma ciò è errato, poiché non è la quantificazione in sé a separare paradigmi e teorie. Come si è visto, la quantificazione è presente nelle più recenti evoluzioni della g. climatica. Anche gli studi sul glacialismo hanno sempre goduto di coerenti quantificazioni e pure la g. litorale si è giovata da tempo delle teorizzazioni quantitative, soprattutto nelle analisi di tendenza spaziale e temporale dei fenomeni. È stato invece proprio il paradigma funzionalista di stampo neopositivista fondato sullo studio delle funzioni degli elementi e quindi dei processi geomorfici a scandire il distacco dal passato. Infatti questa filosofia di ricerca (esemplare a questo proposito la memoria di Leopold, Wolman e Miller, Fluvial processes in geomorphology, 1964), avendo la presunzione di ottenere risultati ''obiettivi'' e razionali, empiricamente misurati, ha comportato uno stravolgente cambiamento di scala, che necessariamente si è ridotta sia nello spazio che nel tempo. Infatti una mancata verificabilità dei risultati non solo vanifica il contenuto ma mina le stesse basi teoretiche del paradigma, che prevedono, nella regolarità dei fenomeni naturali, che processi e forme siano funzionalmente legati da relazioni che possono essere stabilite. Si è passati quindi da una ricerca, sì, descrittiva, ma capace d'investire metafisicamente aspetti generali, a una ricerca analitica, strumentale, spazialmente e temporalmente dimensionata a piccola scala. Non solo, ma gli ultimi sviluppi di una concezione che va al fondo della capacità di entrare nei meccanismi fisico-chimici dei processi e quindi d'introspezione della realtà particellare delle forme della terra portano in sé il germe di un vero cambiamento epistemologico e quindi degli obiettivi stessi della geomorfologia. Diversi studiosi paventano da tempo i pericoli di una scienza di stampo puramente meccanicista. Da qui i richiami alla necessità delle ricerche sul terreno e della cartografia geomorfologica, che nel fissare nello spazio e, con l'aiuto della geocronologia, nel tempo le forme della terra sarebbe, secondo molti, più efficace nel conoscere la superficie terrestre dello studio dei processi geomorfici correnti.
Può darsi che sia anche per questi motivi che ha ripreso campo lo studio dei rapporti fra le forme della terra e le caratteristiche geologiche, con riferimento preciso non tanto alla litologia e al suo ruolo nel favorire l'erosione selettiva, quanto alle strutture. Dalla visione immanentista di una parte dei geologi dell'Ottocento, che considerava le forme legate alla natura delle rocce, erano derivate interessanti soluzioni di problemi geomorfologici, soprattutto nei riguardi delle forme di media grandezza (una valle può corrispondere a una sinclinale, per es.), ma una teoria che sostenga le fondamenta di una g. strutturale non è mai stata elaborata. Tuttavia per molti non vi sono dubbi che talune forme sono generate direttamente dalle deformazioni della crosta terrestre. Queste si rifletterebbero nella sua epidermide (la superficie della terra) e quindi la struttura risulterebbe avere un ruolo attivo nella morfogenesi. A seconda della scala si può passare da uno studio analitico della morfologia dovuta alle deformazioni tettoniche elementari (le forme concavo-convesse e le pieghe, le forme dei versanti e le faglie, ecc.) allo studio sintetico della morfologia realizzata dagli insiemi strutturali (catene montuose a pieghe, aree di frattura, ecc.), ma secondo i seguaci di questo filone di studi non vi sarebbero soltanto gli evidenti, stretti rapporti d'interdipendenza fra morfologia e tettonica bensì si avrebbe un controllo della seconda sulla prima, elevando così al rango di paradigma questa concezione. Sulla terra vi sarebbero soprattutto delle morfostrutture, relegando al rango di accessori le morfosculture dovute esclusivamente agli agenti esogeni. Gli studi di g. strutturale sono risultati particolarmente felici in quelle regioni, come l'Italia, di dinamica crostale recente, e proprio dalla ricerca dei rapporti fra la morfogenesi recente e attuale e la tettonica manifestatasi dal Miocene a oggi (neotettonica) è derivato il filone della morfotettonica. Questa anche nell'accezione esprime la sua tendenza paradigmatica, che la fa di fatto contrapporre alla g. climatica, alla g. dinamica di marca funzionalista e anche alla g. evoluzionista di Davis, dato che tutte queste privilegiano il dominio delle forze esogene.
Attualmente, in g. siamo di fronte alla coesistenza di più paradigmi, tanto più che è stata anche messa in dubbio la continuità e la regolarità dei fenomeni geomorfici e della natura in genere. Difatti, in conseguenza della manifestazione dei cosiddetti ''eventi estremi'', noti spesso come disastri e catastrofi, che possono interessare l'idrosfera, l'atmosfera e la terra, è sorta una corrente di pensiero che si può definire ''neocatastrofismo''. Indipendentemente dai risvolti filosofici, l'attenzione agli eventi estremi ha permesso alla g. di allargare la sua sfera di interessi e di proliferare anche in questo campo in una g. applicata. Ma, verosimilmente, la grande novità del mondo d'oggi è la constatazione che l'uomo è divenuto un agente geomorfico in quanto erode, trasporta e deposita. Anzi, sebbene l'intervento antropico sulla superficie terrestre dati da tempi recenti, se confrontati con quelli di taluni processi geomorfici naturali, l'ampiezza delle modificazioni apportate dall'uomo è tale da far sorgere anche legittime preoccupazioni su di esse e sulle conseguenze della capacità umana d'interagire con i processi geomorfici e di crearne autonomamente. Fra gli innumerevoli esempi si può citare quello che forse è il più significativo, lo sbarramento delle acque fluviali mediante le dighe, con la conseguente creazione di nuovi livelli di base dell'erosione. Si è passati, così, dalla visione del paesaggio antropogeografico a quella del territorio come somma delle forme naturali e di quelle costruite e dei processi che vi si svolgono, indipendentemente dal fatto che siano naturali o prodotti dall'uomo, in un quadro controllato dai flussi di energia. Ma proprio la preoccupazione delle conseguenze dei processi innescati dall'azione antropica e delle retroazioni che possono manifestarsi ha suggerito di prendere in esame la possibilità dello studio della g. mediante l'ottica sistemica. In effetti, taluni oggetti di studio, come per es. i bacini fluviali, si prestano ottimamente all'applicazione della teoria dei sistemi, anche se in essi vi è stato intervento antropico. I migliori risultati dovrebbero venire dal concetto di equilibrio ambientale, mutuando quello di equilibrio morfoclimatico nel quadro di sistemi aperti che scambiano energia con l'esterno.
Pur rimanendo insoluto, come in tutte le scienze, il problema della conciliazione della necessità di acquisire velocemente nuovi dati e nuove nozioni e contemporaneamente di mantenere una coerente capacità di sintesi, la coesistenza della g. evoluzionista con la g. dinamica, della g. climatica con la g. strutturale e la morfotettonica e dei relativi paradigmi, non ha minimamente incrinato la convinzione della fondamentale unitarietà della g., che si presenta come una scienza capace d'interpretare le forme e i processi geomorfici che si svolgono sulla superficie terrestre e la sua evoluzione, compresi gli effetti dell'attività dell'uomo, al quale offre un fondamentale contributo alla conoscenza dell'ambiente in cui vive.
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