Una parte della letteratura scientifica che ha trovato eco in molti articoli giornalistici che si sono susseguiti negli ultimi anni ha evocato il rischio di guerre per l’acqua. Si tratta di una rappresentazione molto parziale della realtà, poiché isola il conflitto sulle risorse idriche dall’insieme delle tensioni geopolitiche che investono territori e popolazioni. Un’analisi sui conflitti per il controllo delle fonti idriche richiede, inoltre, un’analisi multiscalare, in grado di considerare l’insieme delle tensioni che si registrano a livello locale e globale. I casi di tensione più forti si registrano nei bacini idrici internazionali e riguardano corsi d’acqua spesso di notevole lunghezza e portata che attraversano più paesi. In questi casi, la posizione geografica all’interno del bacino gioca un ruolo rilevante, poiché i paesi a monte sono in grado di condizionare la quantità e la qualità del flusso di acqua che raggiunge i paesi a valle.
Il fiume Colorado nasce negli Stati Uniti e il suo corso, dopo aver attraversato il Colorado, lo Utah, l’Arizona e la California, sfocia nel Golfo della California, in territorio messicano, dove il fiume giunge oramai trasformato in un torrente colmo di melma e detriti. Questa drammatica riduzione della portata del fiume è da imputare alla costruzione della diga Hoover, situata al confine tra Nevada e Arizona, che consente l’irrigazione di 80 mila ettari di terra e fornisce energia idroelettrica alle aree industriali e alle zone metropolitane della California e dell’Arizona. A questa disputa tra i due paesi, si aggiunge quella secolare che oppone Stati Uniti e Messico per lo sfruttamento del Rio Grande.
Anche l’Europa è stata segnata da forti contrasti per la gestione del suo fiume più importante, il Danubio, che attraversa ben 13 paesi: Germania, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia, Bulgaria, Romania, Ucraina e Moldavia. La competizione tra i paesi co-rivieraschi del bacino risale al Settecento e solo nel 1857 è stata varata una strategia di cooperazione, con la creazione della Commissione per il Danubio. Conflitti a lungo sopiti sono esplosi dopo la fine della Guerra fredda, acuiti anche dalla nascita di nuove entità statuali. L’opposizione esercitata dall’Ungheria contro la decisione della Cecoslovacchia di realizzare la diga Gabčíkovo-Nagymaros ha creato forti tensioni nei rapporti tra i due paesi. Nel 1993, con la nascita della Slovacchia, il contenzioso è passato da Praga a Bratislava che ha avviato un progetto di deviazione delle acque del Danubio nel proprio territorio. Un segnale positivo è però legato al varo di un programma di salvaguardia ambientale che vede coinvolti tutti i paesi del bacino (Environmental Programme for the Danube River Basin).
In Asia è soprattutto la realizzazione di grandi progetti idrici ad aumentare il livello di competizione tra paesi per lo sfruttamento dei corsi d’acqua internazionali. In alcuni bacini, il paese a monte associa al vantaggio posizionale una superiorità sul piano geo-economico e strategico che gli conferisce un ruolo idro-egemonico all’interno del bacino. È questo il caso della Cina sul fiume Mekong, che nasce in Tibet e attraversa Cina, Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam. La progettazione di una serie di dighe sul corso superiore del fiume da parte della Cina è all’origine del deterioramento dei rapporti con i paesi a valle. Stessi rapporti di forza ineguali si registrano nel bacino del Gange tra India, Bangladesh e Nepal. Il contenzioso risale al 1951 ed è legato alla realizzazione della maestosa diga Farakka, costruita dall’India per deviare una parte considerevole delle acque del Gange verso Calcutta. Il Bangladesh, che ospita la foce del fiume sacro, ha subito negli ultimi anni una riduzione della portata del corso d’acqua del 70%.
Lo sfruttamento intensivo e unilaterale di una risorsa condivisa può creare situazioni di conflitto latenti o provocare un deterioramento delle relazioni diplomatiche, ma può anche essere all’origine di un degrado irreversibile della fonte idrica oggetto di contesa. Un tempo quarto lago al mondo per estensione, il lago d’Aral, al confine tra Kazakistan e Uzbekistan, è uno dei disastri ambientali più gravi mai registrati. I progetti di diversione dei fiumi che lo alimentavano, realizzati dai due paesi, hanno permesso l’irrigazione di circa 2,5 milioni di ettari di terra in pieno deserto destinati alla coltivazione di colture da esportazione, principalmente cotone. Negli anni Novanta l’estensione del lago si è dimezzata e il suo volume d’acqua si è ridotto del 75%. A causa del mancato apporto di acqua dolce, il tasso di salinità del lago è quadruplicato, compromettendo la sopravvivenza della flora e della fauna lacustre. L’abbassamento del livello delle falde sotterranee ha provocato la scomparsa delle oasi che circondavano il lago e sono stati registrati fenomeni di contaminazione della terra e dell’acqua legati ai fertilizzanti e ai pesticidi utilizzati per le coltivazione del cotone. Inoltre, la scomparsa delle zone umide ha aperto la strada a fenomeni di desertificazione dell’area, con conseguente deterioramento delle condizioni di vita delle comunità locali. Un destino analogo sembra essere riservato al Mar Morto, un ecosistema unico al mondo che si trova a 427 metri al di sotto del livello del mare ed ha un tasso di salinità dieci volte più elevato della media marina. Il bacino, a causa del sempre minor apporto idrico da parte dei suoi immissari, primo tra tutti il Giordano, ha registrato negli ultimi anni un abbassamento di circa 27 metri, cui hanno contribuito le estrazioni di carbonato di potassio da parte di Israele e della Giordania per la produzione di fertilizzanti. Nel 2005 Israele, Giordania e Autorità palestinese hanno siglato un accordo per la realizzazione di uno studio di fattibilità di un canale Mar Rosso-Mar Morto, con il duplice scopo di aumentare il livello del bacino e di produrre acqua dissalata sfruttando il dislivello tra i due mari. Il canale non è mai stato realizzato a causa delle instabili relazioni politiche tra i paesi coinvolti nel progetto Mar Rosso-Mar Morto (Red-Dead) e per le sue possibili ricadute ambientali. Nel 2013, sotto l’egida della Banca Mondiale, è stato siglato un accordo che prevede la realizzazione di un impianto di dissalazione delle acque del Mar Rosso a beneficio di Israele e della Giordania, con relativa immissione di acqua marina e di residui salini nel Mar Morto. Ennesimo tentativo di rilancio di una cooperazione tra Israele e Giordania, suscettibile di coinvolgere anche i Territori palestinesi, sul progetto pesano ancora tanto i vincoli politici, quanto le incognite ambientali che ne hanno impedito sino a oggi la realizzazione.
I conflitti per l’acqua interessano anche regioni di uno stesso stato. Si tratta di conflitti che vedono territori e popolazioni opporsi ai grandi progetti idrici destinati a modificare il paesaggio e i sistemi di vita locali, a trasferire in massa popolazioni e a distruggere insediamenti umani per cedere il posto ai bacini di stoccaggio dell’acqua. A questo si aggiungono i processi di degrado del suolo legati all’agricoltura irrigua, come la salinizzazione e l’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi. In India gli sbarramenti praticati sui due grandi fiumi sacri, il Gange e il Narmada, sono stati all’origine di violenti scontri che hanno visto le comunità locali ribellarsi a scelte governative che non prevedono il coinvolgimento di queste ultime. Lungo il corso del Gange sono in costruzione decine di dighe, come il maestoso sbarramento di Theri, realizzato nel 2005, che ha provocato la scomparsa di 40 villaggi, causando l’evacuazione di circa 100.000 abitanti. Il clima di tensione che ne è scaturito non ha sino a oggi modificato sostanzialmente i progetti di sviluppo del governo indiano.
La Cina conta 22.000 sbarramenti, tra cui la diga delle Tre Gole, quella con la più grande capacità di generazione idroelettrica al mondo, edificata sul fiume Yangtze e costata 24 miliardi di dollari. Denunciata da geologi, biologi e ingegneri come una potenziale minaccia per il rischio di calamità idrogeologiche che potrebbe provocare, la sua costruzione ha causato il trasferimento forzato di un milione e 400.000 persone e la sommersione di 116 città. Il progetto prevede il trasporto di circa 10 miliardi di metri cubi d’acqua su una distanza di 1200 chilometri, verso Pechino e la pianura della Cina del Nord.
L’area del Nord Africa e del Medio Oriente (Middle East and North Africa, Mena) è forse quella dove più evidenti appaiono gli intrecci tra la storia dell’uomo e quella delle tecniche di valorizzazione e uso dell’acqua e dove maggiormente emerge il ruolo che l’acqua ha rivestito nel disegnare il territorio, nel determinare la localizzazione degli insediamenti umani e nell’influenzare i rapporti di dominio all’interno degli stati e tra gli stati. Culla di alcune delle grandi civiltà idrauliche della storia – quella egiziana e quella assiro-babilonese in primis – l’area Mena ha conosciuto una fase di intense trasformazioni demografiche, politiche ed economiche a partire dal secondo dopoguerra che hanno visto l’acqua al centro delle strategie di sviluppo condotte dai governi. La crescita della domanda idrica, associata all’aumento del fabbisogno alimentare, hanno fatto del binomio acqua-cibo un elemento destinato a condizionare le scale, le tecniche e le politiche del conflitto e della cooperazione all’interno dell’area.
Le possibilità di incrementare il volume complessivo di acqua disponibile attraverso la valorizzazione di nuove fonti appaiono ridotte, poiché la percentuale di prelievi si avvicina pericolosamente o supera il 100% della dotazione di risorse idriche rinnovabili, considerando sia le fonti superficiali, sia quelle sotterranee. Le situazioni più gravi di sfruttamento si registrano in Libia (più del 600%), Giordania (99%), Egitto (95%), Israele (80%) e Siria (86%). Il tasso di sfruttamento delle risorse idriche supera il 100% quando i prelievi sono maggiori del tasso di ricarica delle falde sotterranee rinnovabili o quando lo sfruttamento interessa fonti idriche non rinnovabili, come le falde fossili, cui si farà cenno nei prossimi paragrafi.
In una situazione di forte pressione umana sulle risorse, l’unica strategia possibile per fronteggiare la penuria idrica e contrastare i processi di degrado quantitativo e qualitativo delle fonti resta il contenimento della domanda, dunque il risparmio di acqua in tutti i settori produttivi. Il passaggio da politiche basate sulla crescita dell’offerta di acqua a politiche di gestione della domanda si scontra con ostacoli che sono interni ai paesi. L’aumento della domanda di acqua legato all’incremento demografico e al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, la crescita del fabbisogno idrico del settore industriale e il rafforzamento del settore turistico, i cui picchi di domanda durante i mesi estivi coincidono con quelli delle colture, crea una competizione crescente tra i settori produttivi. La moltiplicazione dei bisogni e l’esigenza di diversificazione dei sistemi produttivi mettono in discussione il primato del settore agricolo, da sempre il destinatario principale delle risorse idriche nazionali, grazie a politiche tariffarie che hanno reso quasi gratuito l’uso dell’acqua in agricoltura.
In alcuni paesi del Nord Africa e del Medio Oriente la difficoltà che i governi incontrano a ridurre la quota di acqua allocata all’agricoltura, che in alcuni casi supera l’80%, nasce da vincoli che sono essenzialmente politici. La forte opposizione degli agricoltori a un aumento delle tariffe rende difficile ai governi una razionalizzazione dell’uso dell’acqua in agricoltura. Gestire le tensioni interne si configura, dunque, come un delicato esercizio politico in cui l’obiettivo dei governi è di evitare la perdita di consenso derivante da misure impopolari. La strategia basata sull’aumento dell’offerta di acqua attraverso la realizzazione di grandi progetti idrici tende, dunque, a prevalere, spostando la contesa per l’acqua dalla scala nazionale a quella sovranazionale.
L’analisi delle dinamiche di competizione nei bacini idrici internazionali, conferma come l’acqua nella maggior parte dei casi giochi solo un ruolo di amplificatore di tensioni di più ampia portata. Tali tensioni investono il controllo del territorio e delle popolazioni, come nel caso del conflitto che oppone Israele agli altri paesi co-rivieraschi del Giordano, sono legate alla ricerca di un ruolo egemonico in ambito regionale, come nel caso della Turchia, paese a monte dei due più grandi fiumi mediorientali: il Tigri e l’Eufrate, sono espressione dei rapporti di forza strategico militari, come nel caso dell’Egitto nei confronti degli altri dieci paesi del bacino del Nilo.
Nel 1959 Israele inaugura il National Water Career, il grande progetto di deviazione del fiume Giordano che porta le acque del fiume al di fuori dal bacino verso il Negev, sottraendolo di fatto al controllo degli altri paesi co-rivieraschi. Il tentativo da parte della Siria e della Giordania di realizzare analoghi progetti di deviazione sugli affluenti del Giordano provoca l’immediata reazione da parte di Israele che considera qualsiasi intervento volto a ridurre la portata del Giordano un attentato agli interessi idrici nazionali.
Da quel momento controllo dell’acqua e controllo del territorio saranno indissolubilmente legati e influenzeranno le fasi successive del conflitto arabo-israeliano. La conquista nel 1967 della Cisgiordania, dove sono localizzate le ricche falde acquifere di montagna, e delle Alture del Golan, dove si formano gli affluenti del corso superiore del Giordano, pur rispondendo a obiettivi strategici e militari, mostra altresì l’esigenza da parte di Israele di integrare il proprio bilancio idrico attraverso lo sfruttamento delle principali risorse superficiali e sotterranee del bacino del Giordano.
Nel 1990 la Turchia inaugura la diga di Atatürk, tassello fondamentale del più ampio progetto del Sud-Est Anatolico (Gap), il sistema di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche sul Tigri e sull’Eufrate nella zona sud-orientale del paese che minaccia di ridurre in maniera sostanziale la portata dei due fiumi in Siria e Iraq. Scambio di note diplomatiche e concentramento di truppe siriane al confine con la Turchia segnano l’inizio di un deterioramento dei rapporti tra i due paesi in cui entra in gioco anche la questione curda. L’area del progetto Gap è teatro di scontri tra il governo di Ankara e la minoranza curda presente nell’area, contraria alla realizzazione del progetto, considerato uno strumento di controllo del territorio e della popolazione e di pressione contro le rivendicazioni autonomiste curde. Le inondazioni provocate dalla costruzione delle dighe di Ataturk, Birecik e Karakaya distruggono interi villaggi curdi e hanno l’obiettivo geopolitico di creare un cordone di sicurezza tra la comunità curda della Turchia e le minoranze curde presenti in Siria e Iraq. La Siria, nel tentativo di osteggiare il progetto, offre negli anni Ottanta appoggio logistico e sostegno militare al Pkk, provocando una reazione da parte della Turchia. La minaccia di Ankara di ridurre il flusso dell’Eufrate in Siria porta, nel 1998, alla firma di un accordo di sicurezza in cui la Siria si impegna a interrompere il sostegno al Pkk. Di lì a poco segue l’espulsione di Ocalan dalla Siria e la sua cattura, indebolendo in maniera irrimediabile il Pkk che nel 1999 proclama un cessate il fuoco unilaterale.
Nel bacino del Nilo le relazioni tra i paesi co-rivieraschi sembrano contraddire l’assunto che vede i paesi a monte in posizione di vantaggio su quelli a valle. Il Nilo sfocia in Egitto dopo aver attraversato altri 9 paesi, cui si è aggiunto nel 2011 il Sud Sudan. Storicamente, l’Egitto ha esercitato un controllo quasi esclusivo su questo corso d’acqua internazionale, facendo leva su diritti storici considerati non negoziabili e precludendo agli altri paesi la realizzazione di progetti in grado di limitarne i prelievi. Unico accordo di ripartizione è quello siglato con il Sudan all’epoca del dominio britannico nel 1929 e rinegoziato nel 1959, che esclude tutti gli altri attori a monte del bacino. La contesa sul Nilo è rimasta per anni sopita a causa dell’arretratezza di molti paesi co-rivieraschi e della loro instabilità politica, ma negli ultimi decenni alcuni fattori hanno aumentato la pressione umana sulle fonti idriche, alterando gli equilibri all’interno del bacino. La crescita demografica che interessa paesi come l’Etiopia e il Sudan, l’esigenza di alcuni paesi della fascia equatoriale di incrementare la produzione di energia idroelettrica per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e avviare processi di sviluppo, il deterioramento del quadro climatico che espone l’area a sempre più frequenti periodi di siccità e aumenta l’insicurezza alimentare, sono tutti fattori che elevano il potenziale di destabilizzazione legato al controllo delle acque del Nilo. Il progetto della Nuova Valle in Egitto e la realizzazione da parte dell’Etiopia della Millennium Dam sul Nilo Azzurro sono indicative del mancato decollo di una strategia di cooperazione all’interno del bacino. I grandi progetti idrici nazionali alimentano un gioco a somma zero, in cui tutta l’acqua prelevata da un paese viene sottratta agli altri, con il risultato di aumentare la pressione sulle risorse e la conflittualità tra i paesi dell’area.
Negli ultimi anni si è aperto un nuovo fronte di conflitto che investe le falde sotterranee transfrontaliere. Nel mondo esistono 445 falde acquifere condivise e il contributo che queste danno al fabbisogno idrico mondiale diventa sempre più importante, a fronte del degrado quantitativo e qualitativo registrato dalle risorse idriche superficiali. Le acque sotterranee rappresentano il 50% dei prelievi destinati al settore domestico e il 20% di quelli agricoli. Nelle zone aride e semi-aride il 60% dei prelievi per l’irrigazione proviene dalle fonti sotterranee. In India il 65% della produzione agricola dipende dall’acqua estratta dalle falde acquifere che contribuiscono anche per l’85% all’approvvigionamento idrico dei grandi agglomerati urbani.
Nonostante il ruolo fondamentale delle falde sotterranee, poco si conosce della loro estensione e della loro portata, dei tassi di ricarica e dei prelievi cui sono sottoposte. La necessità di acquisire maggiori conoscenze ha portato al varo di 3 programmi internazionali: l’International Groundwater Resources Assessment Centre (Igrac) varato nel 1999, l’International Shared Aquifer Resources Management (Isarm) lanciato nel 2000 dall’Unesco nell’ambito del Programma idrologico internazionale e il World-wide Hydrogeological Mapping and Assessment Programme (Whymap) inaugurato nel 1999.
Nel 2009 è stato pubblicato dall’Isarm il primo atlante delle risorse idriche transfrontaliere. L’atlante ha individuato più di 200 falde acquifere transfrontaliere suddivise per continenti e ne ha tracciato i confini, raccogliendo dati sui prelievi e sullo stato di salute delle falde. L’obiettivo è di creare una rete di esperti coinvolti nello studio delle falde sotterranee condivise, di accrescere la consapevolezza da parte della comunità internazionale dell’importanza di una gestione sostenibile di queste importanti fonti idriche, di sviluppare strumenti di monitoraggio e di varare strategie di cooperazione in grado di contrastare il progressivo deterioramento quantitativo e qualitativo delle falde.
Le falde sotterranee risentono del duplice piano di competizione – interno e internazionale – che caratterizza anche le risorse superficiali, con l’aggravante che si tratta di forme di sfruttamento ‘invisibili’ che sfuggono spesso a qualsiasi forma di regolazione. All’interno dei paesi, la diffusione e il basso costo delle motopompe per la captazione dell’acqua moltiplicano i prelievi sul territorio e rendono molto complesso il controllo da parte dello stato. Allo sfruttamento da parte dei privati si aggiunge quello condotto su ampia scala dai governi nell’ambito di progetti di sviluppo nazionali che determinano una vera e propria ‘gara di pompaggio’ tra paesi. La dimensione strategica della sicurezza idrica e alimentare impedisce la circolazione dei dati e lo scambio di informazioni tra paesi coinvolti nello sfruttamento delle risorse sotterranee transfrontaliere. Gli stessi cittadini ricevono informazioni parziali e spesso distorte che occultano i reali livelli di emungimento dalle falde e le ricadute ambientali che tali prelievi generano sull’ecosistema.
Il difficile decollo di strategie di cooperazione tra paesi che condividono falde sotterranee transfrontaliere è, inoltre, legato alla mancanza di una chiara regolazione della materia da parte del diritto internazionale. La Convenzione delle Nazioni Unite sui corsi d’acqua internazionali non navigabili (Un Convention on the Law of Non-Navigational Uses of International Watercourses), del 1997, include solo le falde sotterranee che hanno un collegamento con le acque superficiali tralasciando, dunque, tutte le falde sotterranee condivise da più paesi ma prive di uno sbocco in superficie. Forme embrionali di cooperazione sono state avviate nel 2002 tra Egitto, Libia, Sudan e Ciad per lo sfruttamento della falda nubiana (Nubian Sandstone Aquifer) e tra Algeria, Tunisia e Libia per lo sfruttamento della falda del Sahara occidentale (North Western Sahara Aquifer System). Si tratta di accordi che prevedono una base dati condivisa, la scelta di indicatori per il monitoraggio della falda, la realizzazione di studi congiunti e lo scambio di informazioni.
Le falde fossili sono localizzate a grande profondità, la loro origine risale a ere geologiche antiche – migliaia, milioni o addirittura miliardi di anni – e presentano un tasso di ricarica che non supera l’1% annuo. Si tratta, dunque, di veri e propri giacimenti di acqua, il cui sfruttamento può essere assimilabile a quello che interessa altre risorse non rinnovabili, come il petrolio e il gas. L’uso delle falde fossili nel mondo è concentrato per il 98,5% nell’area Mena, con Arabia Saudita, Libia e Algeria che contribuiscono da sole all’85% dei prelievi totali. L’acqua fossile è destinata principalmente all’agricoltura (86% in Arabia Saudita, il 71% in Libia e il 35% in Algeria).
Il conflitto per lo sfruttamento dell’acqua fossile nell’area Mena interessa le due principali falde non rinnovabili: la falda Disi e quella nubiana (Nubian Sandstone Aquifer). La falda Disi, localizzata nel nord dell’Arabia Saudita, al confine con la parte sud-orientale della Giordania, misura 250 chilometri di lunghezza e 50 chilometri di larghezza e si trova a oltre mille metri di profondità. Negli anni Ottanta l’Arabia Saudita intraprese un progetto di sfruttamento intensivo della falda destinato alla produzione di cereali e finalizzato a ridurre le importazioni. La dipendenza alimentare esponeva, infatti, l’Arabia Saudita alla pressione internazionale contro la politica dei prezzi del petrolio condotta dal paese all’interno dell’Opec. Il programma di irrigazione su ampia scala, associato a una politica di sussidi alla produzione agricola interna, ha permesso all’Arabia Saudita di diventare un esportatore di cereali sui mercati internazionali. Solo nel 2008, a causa dell’elevato costo dei sussidi sul grano, il paese ha posto fine alla politica di sostegno alla produzione cerealicola interna, il cui termine è fissato al 2016. La pressione sulla falda si è ulteriormente accentuata in seguito allo sfruttamento intrapreso dalla Giordania. Destinata in origine all’approvvigionamento idrico della città di Aqaba, dalla seconda metà degli anni Ottanta si è registrato un incremento dell’uso dell’acqua fossile a fini agricoli, cui ha fatto seguito l’inaugurazione da parte della Giordania nel 2013 dell’acquedotto Disi-Amman. L’acquedotto, che ha una lunghezza di 250 chilometri, trasferisce ogni anno 100 milioni di metri cubi di acqua captata dalla falda verso la capitale Amman. Le tensioni tra Giordania e Arabia Saudita legate allo sfruttamento congiunto dell’acquifero fossile transfrontaliero sono rimaste sempre sopite e non hanno portato a veti incrociati sui reciproci progetti né al varo di una politica di cooperazione, traducendosi in una gara di pompaggio silenziosa tra i due paesi.
Altro scenario ‘idroconflittuale’ che investe le risorse sotterranee non rinnovabili è la grande falda nubiana, una delle più grandi falde fossili del pianeta, con un’estensione superiore ai 2 milioni di chilometri quadrati e una capacità totale di stoccaggio di circa 540.000 chilometri cubi, condivisa da Libia, Egitto, Sudan e Ciad. L’esigenza da parte della Libia di rispondere ai bisogni crescenti del paese in un contesto di forte penuria idrica ha spinto il regime di Gheddafi a varare, nel 1983, il progetto del grande fiume artificiale (Great Man-Made River Project) che prevedeva la captazione dalla falda fossile nubiana localizzata nel sud del paese e la sua canalizzazione lungo la costa (Tripoli e Bengasi). L’acquedotto avrebbe dovuto assicurare il trasferimento di 6,6 milioni di metri cubi di acqua al giorno, con un costo previsto di 30 miliardi di dollari, ma gli obiettivi di sviluppo legati al progetto non sono stati completamente raggiunti. L’acquedotto non ha risolto i problemi di approvvigionamento idrico di Tripoli e Bengasi, poiché l’80% delle risorse idriche è stato destinato alla creazione di perimetri irrigui nella regione della Sirte (10.000 ettari), di Bengasi (30.000 ettari previsti) e nella pianura della Jeffara. Gran parte dei perimetri irrigui non sono mai diventati operativi, poiché l’embargo che ha colpito il paese nel 1992 ha provocato un aumento dei costi del progetto, rallentandone la realizzazione. Nel 2011 l’acquedotto è stato gravemente danneggiato in seguito all’intervento militare che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi. L’attuale fase di instabilità politica e gli scontri che si registrano all’interno del paese provocano frequenti interruzioni nell’erogazione di energia elettrica, impedendo il pompaggio e la distribuzione dell’acqua alla popolazione.
L’acquedotto libico, lungi dal risolvere i problemi di sicurezza idrica e alimentare che affliggevano il paese, ha contribuito ad alimentare i prelievi da una falda già sottoposta a forti emungimenti, la cui durata, secondo alcuni esperti, potrebbe non superare i 50 anni. I livelli di sfruttamento negli ultimi anni sono aumentati, grazie anche alle iniziative lanciate dagli altri paesi che condividono questa falda fossile. In Sudan, il lancio di un vasto piano di acquisizioni di terra data in concessione a operatori stranieri sta creando le condizioni per un maggiore sfruttamento della falda nubiana. Inoltre l’Egitto, nell’ambito del più ampio progetto della Nuova Valle, ha intrapreso da alcuni anni la valorizzazione dell’area di East Oweinat che si trova al confine con Libia, Sudan e Ciad utilizzando esclusivamente acqua proveniente dalla falda fossile nubiana.
In questo momento, nella zona di East Oweinat circa 14.000 ettari in pieno deserto sono coltivati a grano, orzo, patate e ortaggi e nel 2013 è stato annunciato lo scavo di nuovi pozzi. Aziende pubbliche e private egiziane e alcuni investitori provenienti dal Golfo sono già presenti all’interno dell’area e producono essenzialmente per l’esportazione.
Da questo quadro emerge un livello di competizione crescente che investe le risorse idriche non rinnovabili e che è da ricondurre al ruolo che i fattori ambientali giocano negli equilibri interni e internazionali. I cambiamenti climatici riducono le risorse di superficie e rendono sempre più importante il ricorso alle fonti idriche sotterranee per rispondere alla crescente aleatorietà climatica che mette a rischio la sicurezza idrica e alimentare della popolazione. Il ruolo giocato dall’aumento del prezzo del pane nel far crescere e diffondere il malessere sociale poi esploso con le Primavere arabe, rivela la dimensione strategica del nesso cibo-acqua. Gli effetti del riscaldamento climatico globale sull’agricoltura stanno provocando un rialzo tendenziale e una forte instabilità del prezzo delle derrate alimentari di base sui mercati internazionali, con relativo aumento delle acquisizioni di terreni agricoli all’estero. Gli investimenti in terra vedono coinvolti sia paesi che cercano di esternalizzare la produzione agricola per assicurarsi un flusso di prodotti agricoli stabile e non esposto alle congiunture del mercato, sia investitori privati che hanno individuato nelle derrate alimentari una nuova fonte di profitto. Interessi economici e strategie politiche mettono l’acqua e il cibo al centro dei problemi di sicurezza del nuovo millennio.
Il vincolo ambientale gioca un ruolo fondamentale nel limitare la disponibilità idrica. Caratterizzata da precipitazioni scarse e irregolari, molto intense e concentrate in brevi periodi dell’anno e da temperature elevate che provocano la perdita di acqua per evapotraspirazione, l’area Mena presenta una mancanza strutturale di acqua. Quasi tutti i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente – fatta eccezione per il Libano (1049 metri cubi annui) e per la Turchia (2840 metri cubi annui) – possiedono una dotazione idrica pro capite molto al di sotto della soglia di 1000 metri cubi annui per abitante, la quantità minima di acqua che consente di soddisfare il fabbisogno idrico di tutti i settori produttivi (domestico, agricolo e industriale). Situazioni di grave penuria idrica si registrano in Egitto (22 metri cubi), in Libia (108 metri cubi), in Giordania (108 metri cubi), nei Territori Palestinesi di Gaza e Cisgiordania (196 metri cubi) e in Israele (95 metri cubi). Tale dotazione, già inferiore a quella che assicura il pieno soddisfacimento del fabbisogno idrico, è in calo a causa della crescita demografica e degli effetti del riscaldamento climatico globale. Il cambiamento climatico riduce le precipitazioni e innalza il tasso di evapotraspirazione, aumentando inoltre la frequenza e l’intensità degli eventi climatici estremi, in particolare delle ondate di siccità.
La strategia di espansione dello Stato islamico (Is) punta al controllo del petrolio e dell’acqua. Quest’ultimo aspetto riveste un’importanza fondamentale in un’area in cui il cambiamento climatico ha aumentato la frequenza e l’intensità degli eventi climatici estremi. Tra il 2010 e il 2014 il livello delle precipitazioni è sceso in Siria a 170 millimetri cubi annui e in Iraq a 216. In Francia, nello stesso periodo, si è registrato un livello di precipitazioni di 816 millimetri annui. Le Nazioni Unite stimano che entro il 2025 il flusso dell’Eufrate potrebbe ridursi del 50% e quello del Tigri del 25%. La guerra si combatte, dunque, anche e soprattutto dove sono presenti le grandi dighe. Gli scontri più violenti si sono infatti registrati per il controllo della diga di Mosul che, il 17 agosto, è stata strappata all’Is grazie allo sforzo congiunto delle truppe irachene e del governo regionale curdo, con il sostegno dell’aviazione americana. La presenza dello Stato islamico ha alterato gli equilibri di forze all’interno del bacino a causa della comparsa di due nuovi attori: il Kurdish Regional Government (Krg) e l’Is. Il Krg mantiene una posizione forte lungo il corso del Tigri, grazie alla conquista della diga di Mosul, la più importante dell’Iraq, fondamentale per la produzione di energia elettrica. Lo Stato islamico ha, invece, una posizione egemone sull’Eufrate, grazie alla conquista della più importante diga della Siria, la diga di Tabqa, che sorge a pochi chilometri dal quartier generale dell’Is a Raqqa, della diga di Tashrin e della diga al Bath. Sempre sull’Eufrate, ma in Iraq, lo Stato islamico controlla la diga di Fallujah, oltre a essersi reso protagonista degli scontri che si sono concentrati intorno alla diga di Ramadi
T. Allan, M. Keulertz, S. Sojamo, J. Warner (2013) Handbook of Land and Water Grabs in Africa, Routledge, London.
S. Abis, P. Blanc (2012), Agriculture et géopolitique au XXI siècle. Rivalité, stratégie, pouvoirs, in S. Abis, P. Blanc (eds) «Les Cahier Déméter», 13, disponibile on line: http://www.clubdemeter.com/ pdf/cahier/13/agriculture_et_geopolitique_au_ xxie_siecle_rivalites_strategies_pouvoirs.pdf.
A. E. Cascão (2009) Changing Power Relation along the Nile River Basin: Unilateralism vs. Cooperation?, «Water Alternatives», 2, 2, pp. 245–268.
Centre International De Hautes Etudes Agronomiques Mediterraneennes (2012) MediTerra 2012: The Mediterranean Diet for sustainable regional development, Presses de Science Po, Paris, disponibile on line: http://www.ciheam.org/index.php/en/ publications/mediterra-2012.
C. Cocchieri(2010) Implicazioni economiche e sociali del Progetto della Nuova Valle, Istituto di studi sulle Società del Mediterraneo (Issm), Cnr, Napoli.
M. Elloumi, F. Molle, M. Gassab, B. Romagny (eds.) (2011) Pouvoir, société et nature au Sud de la Méditerranée, Karthala, Paris.
E. Ferragina (2007) Ambiente e sicurezza in Medio Oriente. Gli effetti del conflitto israelo-palestinese sulle risorse idriche del bacino del Giordano, Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi), Quaderni di Relazioni Internazionali, 5, Milano, disponibile on line: http://www.ispionline.it/it/ documents/QRI/QRI5.pdf.
E. Ferragina, F. Greco (2008) The Disi Project an Internal/External Analysis, «Water International», 33, 4, pp. 451-463.
E. Ferragina (2010) The Water Issue in the Mediterranean, «10 Papers for Barcelona 2010», 8, pp. 53-77.
E. Ferragina (2011) Water Sector Cooperation, «1st EUROMED Survey of Experts and Actors», Institut Europeu de la Mediterrània, Girona.
E. Ferragina (2011) L’exploitation d’une ressource fossile partagée: le cas du projet Disi en Jordanie, «Maghreb-Machrek», 210, pp. 99-117.
E. Ferragina, G. Canitano (2013) L’eau au Maghreb: contraintes, défis et perspectives, Institut Français des Relation Internationales (Ifri), Notes de l’IFRI, Paris, disponibile on line : https:// www.ifri.org/files/atoms/files/ ferraginaderniereversioncorrigee.pdf.
E. Ferragina, G. Canitano (2014) Water and Food Security in the Arab Countries: National and Regional Implications, «Global Environmental», 7.2, pp. 326-351.
A. Gana (2012) The Rural and Agricultural Roots of the Tunisian Revolution, «International Journal of Agriculture and Food», 19, 2, disponibile on line: http://ijsaf.org/archive/19/2/gana.pdf.
A. Hoekstra (2013) The Water Footprint of Modern Consumer Society, Routledge, London.
M. R. Llamas, P. Martínez-Santos (2005) Intensive Groundwater Use: Silent Revolution and Potential Source of Social Conflicts, «Journal of Water Resources Planning and Management», 131, pp. 337-341.
A. K. Martens (2011) Impacts of Global Change on the Nile Basin, International Food Policy Research Institute (IFPRI), Washington.
M. M. Mekonnen, A.Y. Hoekstra (2011) National Water Footprint Accounts, 2, Delft, Unesco-Ihe Institute for Water Education, Paris.
F. Molle (2012) Politiques agraires et surexploitation de l’eau au Maghreb et au Machrek, in D. Tarik(ed.), Land Acquisitions: How will they Impact Transboundary Waters?, Stockholm International Water Institute (Siwi), Stockholm.
Unesco (2009) Atlas of Transboundary Aquifers, Internationally Shared Aquifer Resources Management (Isarm) Programme, Paris.
C. E. Werrell, F. Femia (2013) The Arab Spring and Climatic Change, Centre for American Progress Stimson, Washington.
Approfondimento
Il contenzioso per la gestione delle acque del Giordano e dei suoi affluenti è uno dei principali ostacoli all’avvio di negoziati tra Israele e i paesi co-rivieraschi del bacino. Le diverse fasi del conflitto arabo-israeliano hanno coinciso con un crescente controllo israeliano delle fonti idriche superficiali e sotterranee, legando così il conflitto per la terra a quello per l’acqua. Attualmente, un terzo dei consumi idrici di Israele proviene dalle zone annesse durante la Guerra dei Sei giorni nel 1967. Al termine del conflitto, Israele assunse il controllo delle principali fonti idriche del bacino: le ricche falde acquifere di montagna nella Cisgiordania occidentale e le alture del Golan. Tali rilievi, oltre a essere un avamposto militare importante, rappresentavano un’area idrografica strategica, poiché assicuravano l’accesso alla riva est del lago Tiberiade. La contesa sull’acqua è poi uno dei nodi irrisolti delle relazioni tra Libano e Israele e un aspetto che condiziona la riapertura di un dialogo. In una regione caratterizzata da una strutturale mancanza di acqua, il Libano presenta una buona dotazione di risorse idriche. Dalla regione del Monte Libano e, in misura minore, dal monte Hermon, situato al confine siro-libanese, ha origine un sistema idrografico particolarmente ricco. Israele rivendica da anni il controllo delle risorse presenti nella parte meridionale del paese, occupata dal 1978 al 2000, dove scorrono i fiumi Litani, Hasbani e Wazzani. Il Litani, con un corso di 140 chilometri, è il fiume più lungo del Libano. Dalla sorgente, localizzata al centro del paese, attraversa la fertile pianura della Bekaa e orienta le sue acque verso la foce sul Mediterraneo, a nord di Tiro. Nonostante scorra esclusivamente in territorio libanese, Israele ha ripetutamente rivendicato la possibilità di sfruttarne le acque. La contesa sul Litani ha origine negli anni Cinquanta, quando Israele cercò di ostacolare l’utilizzo da parte del Libano del corso d’acqua a fini agricoli, traendo vantaggio dall’intervento degli Usa e della Banca mondiale per la ricostruzione e lo sviluppo. Infatti il piano di aiuti americani concessi tra il 1951 e il 1957 sotto il nome di Punto IV della dottrina Truman, non menzionava il Litani come risorsa per l’agricoltura, bensì per la produzione di energia elettrica, in contrasto con la posizione degli esperti libanesi che volevano valorizzare la vocazione agricola dell’area. L’opposizione israeliana al potenziamento del sistema irriguo ebbe successo: le pressioni americane portarono la presidenza libanese, allora molto vicina all’amministrazione statunitense, a destinare il fiume alla produzione di energia elettrica. Tra i diversi progetti libanesi di sfruttamento del Litani, soltanto uno venne realizzato, con la costruzione della diga di Qaraoun per l’utilizzo delle acque a scopo agricolo e la realizzazione di tre centrali idroelettriche negli anni Sessanta. Nel decennio successivo, lo scoppio della guerra civile e l’occupazione israeliana del sud del Libano interruppero ogni iniziativa. Dopo il ritiro israeliano dal sud del Libano nel 2000, il paese accusò Israele di aver convogliato le acque del Litani verso il suo territorio con una canalizzazione sotterranea che deviava le acque da Deir Mimas, villaggio libanese a ridosso del Litani, verso la valle Huleh. Durante gli anni di occupazione, fu registrata una sensibile diminuzione della portata del fiume proprio all’altezza della suddetta località libanese. Nel 2006, durante il conflitto tra i due paesi, l’esercito israeliano distrusse parte del ‘canale 900’, costruito dal Libano per incanalare le acque della diga Qaraoun verso la zona centrale della Bekaa a scopo irriguo. Oggi la zona a sud del Litani non registra un’intensa attività agricola, a causa del continuo scambio di missili tra i due paesi che colpisce le aree più fertili localizzate nei pressi del fiume. L’interesse di Israele per le acque libanesi continua tutt’oggi, con l’occupazione delle fattorie di Chebaa, presidio israeliano non abbandonato dalle truppe sioniste al momento del ritiro dal sud del Libano. Questa striscia di 40 km2 si trova nella zona di confine tra Israele, Siria e Libano, sui pendii sud-occidentali del monte Hermon, e rappresenta un’area strategica per motivi idropolitici e militari. La zona consente a Israele il controllo di una falda alimentata dalle nevi del Monte Hermon, le cui acque, seppur parzialmente, confluiscono nel fiume Hasbani, nel Dan e nel Banias (tre affluenti del Giordano) e permettono l’approvvigionamento idrico delle colonie sul Golan. Dal punto di vista militare, inoltre, l’insediamento permette di esercitare un controllo sulle attività del partito libanese sciita Hezbollah. A pochi chilometri dalle fattorie di Chebaa scorre il fiume Hasbani che, dopo aver ricevuto le acque del Wazzani, si dirige verso Israele per riversarsi nel lago di Tiberiade. Durante i ventidue anni di occupazione, Israele ha sfruttato le acque del fiume Hasbani. Soltanto dopo il ritiro dell’esercito israeliano il Libano ha realizzato un progetto che prevedeva l’utilizzo del fiume Wazzani, allo scopo di garantire la fornitura di acqua potabile a una cinquantina di villaggi libanesi, con un prelievo di circa un milione di metri cubi annui su una portata massima del fiume pari a centotrentacinque milioni. Il progetto libanese ha provocato l’immediata reazione di Israele, tanto che, nel 2002, Ariel Sharon lo ha definito un casus belli, vista l’importanza dei fiumi Hasbani e Wazzani per Israele. Le acque dei due fiumi rappresenterebbero un’importante fonte di integrazione di acqua dolce per il lago Tiberiade che, oltre a essere soggetto a una forte evaporazione, riceve acque sotterranee ad alta concentrazione di sale. Il lago Tiberiade riveste un’importanza fondamentale per Israele in quanto punto di stoccaggio delle acque che alimentano l’acquedotto nazionale che garantisce l’approvvigionamento idrico delle zone costiere e del sud del paese.
di Maria Chiara Rizzo
Approfondimento
Sin dagli anni Cinquanta la priorità dei governi egiziani è stata quella di rispondere alla domanda di cibo, occupazione e spazi abitativi di una popolazione in costante aumento, concentrata prevalentemente nella Valle del Nilo e nel Delta. Il progetto della Nuova Valle, nato con l’obiettivo di decongestionare la Valle del Nilo e di creare un polo di sviluppo nella zona sud-occidentale del paese, ha subito negli anni delle modifiche che rispecchiano le diverse fasi dell’economia egiziana e le strategie di sviluppo dei regimi al potere. La prima fase viene inaugurata nel 1959 da Nasser e ha lo scopo di rafforzare la presenza dello stato nel governatorato della Nuova Valle e nelle aree limitrofe, per aumentare gli investimenti governativi nel settore agricolo, assicurandosi così il consenso delle masse rurali. Nel 1978 il progetto viene ripreso da Sadat, che pone l’enfasi sull’aumento dell’autosufficienza alimentare per contrastare il deterioramento della bilancia alimentare provocato dalla crescita della popolazione. Allo stesso tempo, le strategie di sviluppo del paese cambiano: da paese con un’economia in gran parte diretta dallo stato, l’Egitto si apre agli investimenti esteri e rafforza il ruolo del settore privato. Il progetto punta, dunque, a incrementare la produzione agricola attraverso la nascita di aziende moderne, proiettate sui mercati internazionali.
Nel 1997 Mubarak vara un ambizioso piano di interventi, tra i quali un rilancio del progetto della Nuova Valle, noto anche come South Valley Development Project (Svdp). Questa nuova fase prevede la creazione di un polo di sviluppo integrato nel governatorato della Nuova Valle basato su agricoltura, industrie minerarie e turismo. Nella regione di Toshka l’obiettivo del governo è di convertire circa 230 mila ettari in terreni agricoli, grazie alle acque del Nilo trasportate dal canale Sheikh Zayed. Il ruolo del settore privato era considerato prioritario per la riuscita del progetto; tuttavia la risposta degli investitori si è rivelata inferiore alle aspettative del governo a causa dei vincoli ambientali e della distanza dell’area dai principali centri urbani e dai porti del paese. Gli sviluppi del progetto appaiono oggi incerti, anche a causa dei piani di sviluppo che i paesi co-rivieraschi a monte stanno realizzando e che rischiano di alterare la portata del Nilo.
Il Svdp è un esempio di come progetti di sviluppo che prevedono lo sfruttamento di corsi d’acqua transfrontalieri possano alterare gli equilibri geopolitici all’interno di un bacino. I paesi co-rivieraschi considerano il Svdp un ostacolo alla futura stipula di accordi multilaterali nell’ambito dell’iniziativa del bacino del Nilo (Nile Basin Initiative), nata nel 1999. Allo stesso tempo, l’accresciuto fabbisogno idrico legato alla realizzazione del Svdp tende a rafforzare l’opposizione dell’Egitto agli interventi condotti dai paesi a monte, suscettibili di ridurre la portata del fiume. L’Egitto, pur cooperando formalmente con i paesi nilotici nell’iniziativa del bacino del Nilo, ha finora rifiutato di sostituire l’accordo bilaterale siglato con il Sudan nel 1959 con un accordo per un’equa ripartizione delle acque del fiume approvato da tutti i paesi co-rivieraschi. Dopo l’interruzione dei negoziati per un accordo multilaterale da parte dell’Egitto, nel 2010 Etiopia, Kenya, Uganda, Ruanda, Tanzania, Burundi e, più tardi, Sud Sudan hanno firmato il Cooperation Framework Agreement.
I rapporti di forza tra i paesi co-rivieraschi sono tuttavia mutati negli ultimi anni. L’Etiopia, dopo la risoluzione della guerra civile nel 1991 e l’inaugurazione di una politica favorevole agli investimenti diretti esteri agli inizi del 2000, ha goduto della stabilità economica necessaria all’avvio di piani di sviluppo incentrati sulla crescita del settore agricolo. La disponibilità di terra e di acqua ha reso il paese uno dei principali destinatari degli investimenti in terra (land grabbing) da parte di operatori stranieri. La quantità di risorse idriche prelevate dal Nilo a seguito di questi investimenti è ancora incerta; tuttavia, permangono preoccupazioni riguardo ai possibili effetti sulla disponibilità idrica a valle.
Il 2011 è stato un anno di svolta per le relazioni tra i paesi co-rivieraschi del Nilo. La crisi politica interna all’Egitto ha coinciso con l’avvio dei lavori per la realizzazione della Grande diga del Millennio in Etiopia. L’Egitto, che fino a quell’anno aveva fortemente contrastato progetti che potessero alterare la portata del Nilo, inaugura, a seguito della deposizione dell’ex presidente Mubarak, un ciclo di consultazioni atte a rilanciare la cooperazione nel bacino. A luglio dello stesso anno la nascita del Sud Sudan aggiunge un nuovo attore al tavolo delle trattative, alterando l’equilibrio a seguito della firma da parte del neonato stato del Cooperation Framework Agreement. La diplomazia egiziana sembra ora seguire una duplice strategia che da una parte sembra favorire la cooperazione nel bacino del Nilo e dall’altra non esclude il rilancio del Svdp.
di Cristina Cocchieri
Approfondimento
L’esigenza di nutrire una popolazione mondiale in rapida crescita che nel 2050 vivrà per circa il 70% in insediamenti urbani, adottando stili alimentari tipici delle società a capitalismo maturo, farà dell’acqua e della terra le vere poste in gioco del nuovo millennio, aumentando la competizione tra i paesi per il controllo della terra e dell’acqua. Naturalmente leggere in parallelo crescita demografica ed esaurimento delle risorse naturali equivale a occultare una parte essenziale del problema, il fatto cioè che non sono gli esseri umani a minacciare gli equilibri ambientali, quanto piuttosto il loro modo di consumare. Le abitudini alimentari incidono sulla salute pubblica, la biodiversità e lo sfruttamento di acqua, terra ed energia. Ne consegue che cambiamenti fondamentali nel consumo e nella produzione dei prodotti alimentari appaiono indispensabili per ridurre la pressione sulle risorse naturali e per contribuire ad un’economia sostenibile. Due concetti che consentono di collegare l’uso delle risorse idriche alla produzione, al consumo e al commercio di beni sono l’impronta idrica (water footprint) e l’acqua virtuale. Il primo, elaborato da Arjen Y. Hoekstra, permette di misurare il volume di acqua dolce necessario per produrre un bene, comprensivo del quantitativo consumato e inquinato nelle diverse fasi della filiera; il secondo, coniato da Toni Allan, mette in evidenza come la globalizzazione degli scambi consenta a molti paesi di esternalizzare la loro impronta idrica, importando dall’estero quei beni che necessitano di molta acqua per essere prodotti, mettendo però in questo modo sotto pressione le risorse idriche dei paesi esportatori – spesso paesi emergenti o in via di sviluppo – e determinando un vero e proprio ‘scambio ecologico ineguale’.
Tutti i paesi importano ed esportano acqua virtualmente sotto forma di prodotti agricoli. Si calcola che il commercio di prodotti alimentari generi a livello mondiale un flusso virtuale d’acqua di quasi 1250 miliardi di m3 l’anno. Indicativo è il caso dell’Europa, dove l’impronta idrica del continente, intesa come il volume totale d’acqua usato per produrre le merci consumate dai suoi cittadini, viene in gran parte esternalizzata attraverso l’importazione di materie prime ad alta intensità idrica. Paesi in crescita come la Cina e l’India hanno sino a oggi manifestato una scarsa dipendenza da fonti idriche esterne ma l’incremento demografico, l’urbanizzazione e la rapida transizione verso i modelli alimentari tipici delle economie mature, stanno portando questi paesi ad aumentare sia le importazioni alimentari, sia la loro impronta idrica esterna. Pertanto l’Europa, che è un importatore netto di acqua virtuale, fa dipendere la propria sicurezza idrica da risorse esterne la cui disponibilità potrebbe non essere garantita nel futuro. Circa l’85% dell’impronta idrica umana è legata alla produzione agricola e solo il restante 15% alla produzione industriale e al consumo domestico; pertanto, è la scelta del tipo di dieta a incidere in maniera decisiva sul consumo d’acqua. L’adozione di modelli alimentari con elevato consumo di carne e di prodotti di origine animale richiede, in generale, maggiori quantità d’acqua. Il fabbisogno idrico necessario alla produzione di prodotti vegetali e animali è notevolmente diverso: se per ottenere 1000 kcal di cibo di origine vegetale vengono impiegati circa 0,5 m3 di acqua, per le stesse calorie di cibo di origine animale sono necessari circa 4 m3 di acqua. Alcuni numeri aiutano a capire quanto le abitudini alimentari influenzino il consumo di risorse naturali. In un lavoro del 2008 Hoekstra e Chapagain hanno calcolato l’impronta idrica media globale di molti prodotti. I valori ottenuti possono indirizzare il consumatore nella scelta di una dieta che gli consenta di ridurre la propria impronta idrica. Si va dai 15.500 litri/Kg della carne di manzo fino ai 130 litri/Kg della lattuga, passando per i 6100 litri/Kg della carne di pecora, i 3900 litri/Kg del pollo, i 1300 litri/Kg del grano, i 700 litri/Kg di mele e pere. Nei paesi industrializzati il consumo calorico medio è stimato in 3400 calorie al giorno; di queste, circa il 30% proviene da prodotti animali. Ipotizzando una ripartizione equilibrata di alimenti di origine animale, tale tipo di dieta richiederebbe circa 3600 litri d’acqua al giorno. È evidente che un consumatore può ridurre drasticamente la propria impronta idrica solo riducendo contemporaneamente la quantità di carne consumata o scegliendo tipi di carne differenti (i processi di produzione delle carni bianche richiedono un minor quantitativo di acqua rispetto a quelli delle carni rosse).
L’impronta idrica del consumo di prodotti agricoli è influenzata dai modelli di consumo, ma anche dallo spreco di cibo. Di tutti gli alimenti prodotti a livello globale, una quota che varia tra il 30 e il 50% non viene consumata. Secondo le stime di uno studio della Fao, la quantità di cibo perduto o sprecato ogni anno equivale a oltre la metà del raccolto annuale mondiale di cereali (2,3 miliardi di tonnellate nel 2009-10). Poiché i prodotti ad alta intensità idrica sono in genere più deperibili, il rischio di perdite e sprechi alimentari è anch’esso condizionato dalla dieta alimentare. Nella geografia degli sprechi è però interessante notare che, mentre nei paesi sviluppati la perdita di acqua incorporata in prodotti alimentari è concentrata alla fine della filiera alimentare ed è legata all’enorme quantità di cibo che viene acquistata e mai consumata, nei paesi in via di sviluppo la perdita si verifica sostanzialmente all’inizio della stessa filiera ed è causata dalla mancanza di infrastrutture di stoccaggio, imballaggio e trasporto dei prodotti agricoli.
di Giovanni Canitano