Per discutere di sicurezza alimentare mondiale e dei suoi riflessi in termini geopolitici è utile richiamare il contesto macroeconomico in cui essa si inquadra, e la forte incertezza che lo caratterizza a partire dal 2007-08. La crisi economica e finanziaria di quegli anni ha avuto un impatto profondo sull’economia reale delle grandi potenze economiche e politiche, molte delle quali sono entrate in una lunga fase di recessione, mentre la crescita si è mantenuta vivace nelle grandi economie emergenti quali Cina, India, Brasile, Sudafrica e Russia, nonché, in certa misura, anche in alcuni paesi delle regioni più povere, come l’Africa subsahariana. Ma non si può escludere che la recessione di molti paesi sviluppati si trasmetta al resto del mondo, almeno in termini di minore domanda per le esportazioni.
Nonostante l’incertezza sulla tenuta del ritmo di crescita delle economie emergenti, ci si attende che nei prossimi decenni esse vedranno comunque aumentare la propria quota del mercato mondiale, sia dal lato del consumo che da quello della produzione. A sua volta, questo determinerà un aumento delle loro esportazioni e dei loro investimenti esteri nelle aree più povere dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, dove la domanda di prodotti manufatti presenta ampi margini di espansione, almeno in termini quantitativi. Tutto ciò comporterà cambiamenti notevoli sul fronte commerciale e geopolitico, con una redistribuzione del potere fra paesi e continenti, e renderà la comunità internazionale sempre più complessa e variegata rispetto al passato: sia in termini di aumento del numero di attori, sia di nuove opportunità di integrazione fra culture e sistemi produttivi diversi.
L’aumento della complessità delle relazioni economiche e geopolitiche globali porta con sé la necessità di regolazione internazionale e di coordinamento delle politiche dei diversi paesi, destinate a essere sempre più interdipendenti. Oltre all’ovvio esempio delle politiche commerciali, è questo il caso dei regolamenti anti-trust e della gestione dell’informazione nel funzionamento dei mercati, delle politiche per la regolazione dei flussi migratori e degli standard di lavoro, delle politiche ambientali, della gestione delle risorse naturali globali, delle azioni di contrasto e mitigazione degli effetti del cambiamento climatico. Il settore privato acquista importanza a livello nazionale, nei paesi ad alto reddito come nei paesi emergenti, e i governi di tutto il mondo incontrano crescenti difficoltà a conciliare la disciplina di bilancio con i cicli elettorali e a finanziare politiche pubbliche. Tuttavia, la crescente integrazione fra le economie fa aumentare la domanda di beni pubblici globali e la necessità di politiche che vi facciano fronte.
Nei paesi emergenti, al contrario di quanto avviene nelle economie avanzate, la popolazione in età lavorativa è in aumento. È un’opportunità, sia dal lato dell’offerta che della domanda, ma accentua il rischio di vedere aumentare la disoccupazione strutturale, che negli anni della crisi è cresciuta sia nell’area Ocse che in molti paesi emergenti e a basso reddito, specie nelle aree urbane. Secondo l’ILO (International Labour Organization), un terzo dei lavoratori dei paesi a basso reddito è disoccupato o in condizioni di povertà, anche se la capacità di ripresa dell’occupazione in queste economie è maggiore rispetto ai paesi avanzati.
Sul fronte della dinamica demografica, l’evoluzione a lungo termine indica l’emergere, in molti paesi in via di sviluppo, di una classe media globale: questa, al 2050, potrebbe superare i 2 miliardi di persone, corrispondenti a quasi il 30% della popolazione mondiale, mentre se ne stimava una consistenza di appena 450 milioni al 2005 (van der Mensbrugghe et al, 2011). La crescita di questo gruppo sociale potrebbe avere conseguenze epocali, facendo emergere una serie di bisogni complessi, favoriti anche dallo sviluppo tecnologico, oggi propri di una quota di popolazione assai più ristretta: scolarizzazione, salute, aspettative di reddito e di consumo, informazione, partecipazione alla vita sociale e politica, con una domanda crescente di democrazia. Una conseguenza importante di questo cambiamento è l’accelerazione del già presente fenomeno di omogeneizzazione dei consumi, cui si accompagna una crescente segmentazione basata su differenze ‘fini’ dei beni, in termini di una spinta differenziazione qualitativa.
In questo quadro, i consumi alimentari potrebbero mantenere, più di altri, una specificità locale e regionale, sebbene l’evoluzione delle diete mostri una tendenza a convergere verso caratteri comuni, con effetti non sempre positivi sulla salute. Su questo fronte, l’evoluzione dei consumi alimentari restituisce un’immagine di grandi contraddizioni. Da un lato cresce il consumo eccessivo, in termini sia calorici che proteici, che produce obesità; dall’altro, aumenta la carenza di alcuni micronutrienti, come il ferro o la vitamina A, che può accompagnarsi essa stessa a condizioni di eccesso calorico e obesità. E a dispetto di tanta abbondanza permane un problema di mancanza di cibo in alcune aree del mondo.
Nella Dichiarazione del Vertice mondiale del 2009 la sicurezza alimentare è definita come una condizione che sussiste quando «tutti i componenti di una popolazione, in qualunque momento, hanno la possibilità fisica, sociale ed economica di accedere a una quantità sufficiente di cibo salubre, sicuro e nutriente, che consenta loro di soddisfare le preferenze e le esigenze nutritive necessarie a condurre una vita sana e attiva» (Committee on World Food Security, 2012). Questa definizione ingloba quattro diverse dimensioni della sicurezza alimentare (Fao, Ifad e Wfp, 2014).
La disponibilità. Il cibo deve essere disponibile in quantità sufficiente a soddisfare le necessità della popolazione di riferimento. La disponibilità dipende dalla produzione, dalle importazioni nette e dalla possibilità di de-cumulare scorte, ossia dalle diverse componenti che determinano l’offerta di prodotti alimentari.
L’accesso. La popolazione di riferimento deve avere ‘titoli’ sufficienti ad accedere ad un consumo adeguato di cibo. Tali titoli possono essere un reddito disponibile e/o la possibilità di beneficiare di politiche sociali redistributive, che assicurino l’accesso al cibo anche in assenza di un reddito sufficiente. La dimensione dell’accesso riflette, in sostanza, le condizioni che consentono alla popolazione di riferimento di esprimere un’adeguata domanda di cibo.
L’utilizzazione. La popolazione di riferimento deve essere in grado di utilizzare efficacemente il cibo cui accede. Questo implica che i cibi devono essere integri, salubri e sicuri sotto il profilo igienico sanitario, combinabili in una dieta equilibrata e consumabili in condizioni igieniche accettabili e di accesso all’acqua potabile.
La stabilità. Le precedenti condizioni di disponibilità, accesso e utilizzazione del cibo devono essere assicurate in maniera stabile alla popolazione di riferimento.
Ciascuna di queste quattro dimensioni identifica un insieme di condizioni necessarie ma non sufficienti per affrancare una popolazione dall’insicurezza alimentare. Inoltre, esse sono strettamente collegate fra loro, in rapporti che riflettono l’evoluzione dei consumi e della produzione di beni alimentari e che cambiano con l’evolversi delle società e delle economie.
La disponibilità di cibo è cruciale nelle economie più povere e meno diversificate. Qui l’agricoltura, oltre a fornire prodotti alimentari, è uno dei principali settori dell’economia e, dunque, la principale fonte di reddito per un’ampia quota della popolazione. In queste condizioni, l’aumento della produttività e della produzione in agricoltura alimentano la crescita economica, che a sua volta si riflette in maggiori consumi e maggiore sicurezza alimentare. Anche in queste condizioni, tuttavia, la sola crescita della produttività può non essere sufficiente a garantire l’accesso a una quantità adeguata di alimenti per i gruppi più vulnerabili che sono frequentemente acquirenti netti di cibo, sia nelle aree urbane, sia in quelle rurali.
Negli ultimi cinquant’anni la disponibilità complessiva di beni alimentari a livello globale è aumentata considerevolmente, passando da circa 2200 Kcal/persona/giorno dei primi anni 1960 a circa 2850 Kcal/persona/giorno nel 2009-11, nonostante il concomitante aumento della popolazione. Questo aumento non è stato equilibrato sotto il profilo geografico, essendo dovuto, da un lato, ai paesi dell’Ocse e, dall’altro, ai rapidi progressi compiuti in Asia orientale, nel Sud-Est asiatico e in America Latina; mentre più lenta, sebbene comunque apprezzabile, è stata la crescita nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale.
L’Asia orientale e sud-orientale ha storicamente beneficiato della cosiddetta ‘rivoluzione verde’ degli anni ’60, con miglioramenti delle varietà coltivate, maggiore irrigazione, maggior uso di fertilizzanti e pesticidi, mentre queste innovazioni hanno avuto minore diffusione nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale, a causa di peggiori condizioni infrastrutturali e di una diffusa instabilità politica. La crescita delle disponibilità alimentari è stata rapida anche in Africa del Nord, ma soprattutto grazie a un aumento delle importazioni, mentre in America Latina la crescita economica e l’esistenza di un grande potenziale produttivo ha invece prodotto l’aumento delle disponibilità alimentari.
Man mano che le economie crescono e si diversificano, abbandonando l’agricoltura di sussistenza, la dimensione dell’accesso al cibo diviene più importante. La diversificazione fa crescere la produttività e il reddito disponibile, rendendo quest’ultimo meno dipendente dall’agricoltura, ma fa aumentare, per definizione, la quota della popolazione acquirente netta di alimenti. Il cibo è prodotto in catene produttive sempre più complesse, in cui il volume di beni e servizi incorporati nei beni finali aumenta. La crescita della produttività in agricoltura, tuttavia, continua a giocare un ruolo importante, generando l’aumento dei redditi nelle aree rurali e la riduzione dei prezzi dei relativi beni alimentari nelle aree urbane.
L’accesso ai beni alimentari, in queste condizioni, diviene meno dipendente dalle disponibilità e più legato ai benefici della crescita dei redditi e alla loro distribuzione, sia attraverso le attività produttive che attraverso gli interventi redistributivi e la protezione sociale. Questa, a sua volta, può creare i presupposti della crescita economica, promuovendo lo sviluppo del capitale umano e sociale, favorendo la coesione, gli investimenti nelle piccole attività produttive e la loro uscita dall’informalità.
L’evidenza empirica dimostra che la crescita economica è un fattore determinante per il raggiungimento della sicurezza alimentare, ma comunque non sufficiente. I progressi più rapidi si registrano, infatti, dove la crescita economica si accompagna ad azioni rivolte a diffonderne i benefici, sia con l’orientamento verso settori strategici per i gruppi più vulnerabili della popolazione, sia attraverso politiche redistributive. Viceversa, le condizioni di accesso al cibo sono più difficili nei paesi in cui una crescita economica debole si combina con istituzioni instabili che scoraggiano gli investimenti (Fao, Ifad e Wfp, 2010).
La possibilità di utilizzare il cibo correttamente dipende da numerosi fattori, che vanno dalle condizioni generali – come l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici – alla capacità della dieta seguita di fornire i diversi elementi nutritivi in quantità sufficiente; dalla qualità igienico-sanitaria del cibo consumato, alle condizioni di conservazione degli alimenti.
I problemi sul fronte dell’utilizzo hanno effetti a lungo termine che aumentano quando si combinano con un insufficiente accesso al cibo. Per esempio, l’assenza di condizioni igieniche adeguate può esporre la popolazione all’azione di agenti patogeni che riducono la capacità di assorbire i nutrienti. Sebbene si sia registrato un forte progresso nell’accesso all’acqua, alcuni paesi dell’Africa subsahariana e dell’Asia meridionale presentano ancora difficoltà su questo fronte.
Episodi prolungati di insufficienza alimentare in età infantile possono generare arresto della crescita (stunting), deperimento (wasting) e carenza ponderale (underweight). La carenza di microelementi come le vitamine – recentemente ribattezzata ‘fame nascosta’ (hidden hunger) – può portare a un’ampia gamma di disturbi, e manifestarsi anche insieme a un eccesso di consumo calorico e ad alte incidenze di obesità. Globalmente, si stima che circa il 45% di morti infantili – 6.9 milioni in valore assoluto – sono riconducibili alla malnutrizione. Circa 162 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni soffrono di arresto della crescita (stunting) a seguito di episodi acuti di insicurezza alimentare e 99 milioni sono sottopeso. La carenza di microelementi interessa circa 2 miliardi di persone in tutto il mondo, e circa mezzo miliardo di persone soffrono di obesità (Thompson e Amoroso, 2011).
Anche laddove le condizioni di disponibilità e accesso al cibo sono migliorate rapidamente negli ultimi due decenni, il progresso sul fronte dell’utilizzo degli alimenti è ancora insufficiente. In molti paesi dell’Asia meridionale, dell’Africa subsahariana e dell’America Latina in cui l’accesso al cibo è sufficiente, si registrano incidenze elevate di bambini sottopeso, con arresto di crescita e con gravi carenze di microelementi nutritivi. Il rapporto State of Food Insecurity in the World 2013 contiene un approfondimento su questo punto (Fao, Ifad e Wfp, 2013).
I recenti episodi di turbolenza dei mercati agricoli mondiali e i forti aumenti dei prezzi di alcuni prodotti come il mais, il grano e il riso verificatisi fra il 2007 e il 2010, hanno posto in particolare evidenza questa dimensione della sicurezza alimentare. Un ridotto livello degli stock nei principali paesi produttori, la concomitanza di eventi climatici avversi e la crescita della domanda di biocarburanti sono state le principali cause dell’instabilità dei mercati internazionali. Ovviamente, ai fattori comuni che generano instabilità a livello globale, si aggiungono cause specifiche su base locale, quali l’instabilità politica o la maggior frequenza di eventi climatici sfavorevoli.
Dove tale instabilità si è trasmessa ai mercati interni, essa ha generato inflazione, che a sua volta ha acuito la difficoltà di accesso al cibo dei gruppi di popolazione più vulnerabili. L’instabilità dell’offerta e dei prezzi genera insicurezza alimentare secondo diverse modalità che in qualche misura si autoalimentano. Dal lato dei consumi, l’inflazione ha notoriamente un impatto regressivo, a danno delle fasce più povere dei consumatori, e l’incertezza sulle disponibilità contribuisce ad alimentarla poiché incoraggia l’accaparramento e la speculazione. Da lato dell’offerta, l’incertezza dei prezzi e dei ricavi scoraggia l’investimento, specie nei piccoli produttori che hanno più difficoltà ad accedere a strumenti di stabilizzazione del reddito disponibile quali credito e assicurazioni.
L’instabilità ha avuto un impatto significativo sui flussi di scambio sia dei paesi importatori netti di alimenti che di quelli esportatori. La risposta si è spesso tradotta in politiche di riduzione dei dazi (o addirittura di sussidio) all’importazione e di tassazione delle esportazioni, le quali hanno finito con l’accentuare la stessa instabilità. In ogni caso, quello del periodo 2007-10 non è certo il primo episodio di turbolenza nei mercati agricoli; in particolare, l’instabilità della prima metà degli anni ‘70 – dovuta alla fine del sistema dei cambi fissi di Bretton Woods, ad eventi climatici sfavorevoli e all’ingresso dell’Urss nei mercati mondiali – fu più accentuata di quella negli ultimi anni.
La Fao è incaricata dalla comunità internazionale del monitoraggio della sicurezza alimentare globale. Negli ultimi due decenni, tale esercizio si è svolto in base a un indicatore di ‘Prevalenza della Sottoalimentazione’ (Prevalence of Undernourishment – PoU), che misura la probabilità che un individuo scelto a caso in una popolazione di riferimento abbia a disposizione una quantità di calorie insufficiente a condurre una vita sana e attiva. Da quanto visto finora a proposito delle quattro dimensioni della sicurezza alimentare, è evidente che la PoU coglie solo un particolare aspetto del problema della sicurezza alimentare. Per questa e altre ragioni, tale indicatore è stato oggetto di critiche, nell’ambito di un ampio dibattito che, tuttavia, non è ancora riuscito a indicare un’alternativa migliore. Per superare questo problema la Fao ha recentemente proposto una suite di indicatori, specificamente dedicati a ognuna delle quattro dimensioni della sicurezza alimentare (Fao, Ifad e Wfp, 2013; 2014).
Le ultime stime basate sulla PoU indicano che il numero di persone al mondo che soffre la fame continua a ridursi, attestandosi a poco più di 805 milioni di individui nel periodo 2012-14. Dunque un abitante del mondo ogni nove soffre di una cronica mancanza di cibo che non consente di condurre una vita sana e attiva. La maggioranza di essi vive nelle regioni in via di sviluppo, dove il numero di persone che soffre la fame ha raggiunto i 791 milioni nel 2012-14 e dove è sottoalimentato il 13,5% della popolazione, ma dove pure si è verificata la maggior parte del progresso nella lotta all’insicurezza alimentare. In particolare, tra il 1990-92 e il 2012-14, la quota della popolazione che soffre la fame si è ridotta nelle regioni in via di sviluppo dal 23,4% al 13,5%. Il numero di persone si è invece ridotto di poco più del 20% nello stesso periodo.
Nonostante i progressi registrati in molti paesi, il cammino verso gli obiettivi che la comunità internazionale si è data sul fronte della sicurezza alimentare presenta luci ed ombre. Il Vertice mondiale dell’alimentazione, che nel 1996 riunì a Roma poco meno di 200 capi di Stato e di Governo, fissò come obiettivo la riduzione del 50% del numero di persone sottoalimentate entro il 2015. Pochi anni dopo, meno ambiziosamente, il primo Obiettivo del Millennio adottò un target di riduzione entro il 2015 del 50% della quota delle persone che soffrono di sottoalimentazione.
Secondo le stime più recenti, l’obiettivo del Vertice mondiale del 1996 non è raggiungibile a livello globale, sebbene molti paesi lo abbiano ottenuto individualmente: per raggiungerlo, infatti, il numero di persone sottoalimentate dovrebbe ridursi di oltre 300 milioni in un anno per attestarsi ai circa 500 milioni che costituiscono il 50% delle persone sottoalimentate stimate al 1990-92. Assai più alla portata è, invece, il target relativo alla sottoalimentazione del primo Obiettivo del Millennio. Se il tasso di riduzione osservato fra il 1900-92 e il 2012-14 – pari a circa lo 0,5% – proseguisse al 2015, la proporzione di persone sottoalimentate nelle regioni in via di sviluppo scenderebbe al 12,8%, un livello di poco maggiore alla quota corrispondente al target. Questo è stato già raggiunto in 63 paesi, e in intere regioni come l’America Latina ed i Caraibi, l’Asia orientale e sud-orientale.
In ogni caso, la situazione è molto disomogenea, con l’Africa che presenta progressi ancora insufficienti. Nella regione a sud del Sahara, la prevalenza della sottoalimentazione della popolazione si è ridotta sensibilmente fra il 1900-92 e il 2012-14, passando dal 33,3 al 23,8%. In questa regione si trovano sette delle dieci economie che crescono più rapidamente al mondo, e in più di un paese gli standard di vita migliorano rapidamente, soprattutto dove le condizioni politiche riescono ad assicurare pace e stabilità. In complesso, tuttavia, l’Africa subsahariana è l’area dove l’incidenza della sottonutrizione è la più elevata al mondo, con una persona su quattro che non ha a disposizione una quantità sufficiente di calorie. Le condizioni sono radicalmente diverse in Nord Africa, dove l’insufficienza calorica interessa una quota della popolazione minore, tra il 5 e il 6%.
L’Asia nel suo complesso presenta condizioni allineate alla media delle regioni in via di sviluppo, con circa una persona su otto in condizioni di sottoalimentazione. Data l’ampia popolazione del continente, ciò corrisponde a poco più di mezzo miliardo di individui – 526 milioni nel 2012-14 – pari a circa due terzi del numero totale di persone che soffrono la fame. All’interno del continente, le condizioni sono molto variabili: sia la regione più orientale – dominata dalla Cina – che il Sud-Est asiatico, dominato da paesi emergenti come la Thailandia, il Vietnam, la Malesia e l’Indonesia, hanno raggiunto il target del primo Obiettivo del Millennio e su questo stesso sentiero è incamminata la maggior parte dei paesi della regione caucasica e dell’Asia Centrale. La situazione è più preoccupante in Asia meridionale – regione dominata dall’India, dove il progresso è lento – e in Asia occidentale (il cosiddetto Medio Oriente), dove si registra addirittura un regresso.
In Asia meridionale, le stime indicano che 276 milioni di persone sono cronicamente sottoalimentate nel 2012-14; la loro incidenza nella popolazione si è ridotta dal 24% nel 1990-92 al 15,8% nel 2012-14, un progresso insufficiente a centrare il target del primo Obiettivo del Millennio. Questo andamento riflette soprattutto le condizioni dell’India e del Pakistan, mentre un progresso più rapido si registra in Bangladesh. In Asia occidentale l’incidenza è assai più contenuta, a causa della presenza di molti paesi con larghe disponibilità di valuta derivanti dalle esportazioni di petrolio. Tuttavia, la sottoalimentazione è passata dal 6,9% nel 1990-92 all’8,7% nel 2012-14, soprattutto a seguito dell’instabilità politico-militare di paesi come l’Iraq e lo Yemen nonché, più recentemente, la Siria.
Infine, in America Latina e nella regione caraibica si registra il progresso più rapido, avendo la regione complessivamente già raggiunto il target relativo al primo Obiettivo del Millennio ed essendo prossima a raggiungere anche il più ambizioso obiettivo di dimezzamento del numero di persone sottoalimentate fissato nel 1996. Il successo di questa regione si deve, da un lato, alla crescita economica e all’aumento della produttività in agricoltura; dall’altro, a politiche redistributive che hanno aumentato la capacità di accesso al cibo delle fasce più povere di popolazione.
Negli ultimi anni, con l’aumento dei prezzi e la turbolenza dei mercati agricoli mondiali, le questioni agricole sono tornate alla ribalta. I prezzi alti hanno ridato voce alla mai sopita discussione sulla relazione tra consumo alimentare, disponibilità di risorse agricole e crescita della popolazione. Sono stati disegnati scenari di carestia globale e di minaccia alla sovranità alimentare di molti paesi, anche considerando le conseguenze del cambiamento climatico e la crescente interdipendenza fra i mercati agricoli e quelli dell’energia.
Sul fronte della popolazione, le ultime proiezioni delle Nazioni Unite indicano che il mondo potrebbe ospitare circa 9,5 miliardi di persone nel 2050, per poi procedere a tassi decrescenti fino circa al 2100, periodo in cui si prevede che il tasso di crescita si avvicini a zero. Ci si attende che quasi tutto l’aumento si verifichi nei paesi in via di sviluppo, mentre nei paesi sviluppati la popolazione dovrebbe cominciare a diminuire in termini assoluti verso l’inizio del decennio 2050. Nelle altre regioni del mondo, e in particolare in Africa subsahariana, ci si attende che la crescita continui a ritmi significativi fino alla fine del secolo. Circa il 67% della popolazione mondiale sarà concentrata nelle zone urbane nel 2050.
In termini di consumi alimentari, alcune regioni in via di sviluppo, come l’Asia orientale – e soprattutto la Cina – hanno già raggiunto un livello di consumo pro capite prossimo alle 3000 kcal/persona/giorno; altrettanto è vero in America Latina e nei Caraibi e in Medio Oriente e Nord Africa. Ci si attende pertanto una crescita limitata dei consumi in queste due regioni, perlomeno in termini quantitativi. Al contrario, l’Africa subsahariana – il cui basso livello di consumo pro capite si riduce ulteriormente se si esclude la Nigeria – e l’Asia meridionale potrebbero registrare un forte aumento dei consumi alimentari, considerando sia l’impatto della crescita del reddito che dell’aumento della popolazione. Tuttavia, in Asia meridionale, e in particolare in India – paese che domina l’aggregato regionale – il consumo alimentare sembra reagire alla crescita del reddito e alla riduzione della povertà in misura contenuta.
Nei prossimi decenni i cambiamenti saranno guidati soprattutto dall’evoluzione della domanda delle economie emergenti e dei paesi in via di sviluppo, in cui il consumo pro capite di energia potrebbe crescere dalle circa 2600 kcal del 2005-07 a poco più di 3000 kcal nel 2050 (Alexandratos e Bruinsma, 2012). Il maggior consumo di cibi ricchi di proteine, grassi saturi, zuccheri e sale, insieme con la riduzione del consumo di carboidrati grezzi, radici, tuberi e legumi, potrà generare un aumento delle patologie legate all’alimentazione, soprattutto se i cambiamenti nella dieta si accompagneranno a stili di vita più sedentari, legati alla riduzione dell’occupazione nelle attività primarie e secondarie, e all’urbanizzazione.
Quanto dovrebbe aumentare il volume complessivo della produzione in risposta a questa crescita dei consumi? Le proiezioni della Fao (Alexandratos e Bruinsma, 2012) indicano che la produzione agricola mondiale dovrebbe aumentare del 60% dal 2005-07 al 2050, con un incremento atteso per i prossimi quarant’anni notevolmente inferiore a quello che ha avuto luogo nei precedenti quattro decenni. Nonostante ciò, avendo in mente un problema di sostenibilità ambientale che in passato era meno presente, per il futuro diventa rilevante capire non solo quanto, ma anche come la produzione agricola possa aumentare. Con il linguaggio degli economisti, infatti, la produzione può crescere sia sul ‘margine intensivo’ che sul ‘margine estensivo’, a seconda che i fattori di produzione siano utilizzati più intensivamente o in maggior quantità, con conseguenze sull’ambiente che possono essere molto diverse.
Guardando, per esempio, alla terra, le rese per ettaro di superficie agricola sono una misura della quantità di prodotto che si ottiene su un’unità di fattore; mentre l’intensità colturale si calcola come rapporto fra terra effettivamente coltivata e superficie arabile e misura quante volte un’unità di terra è impiegata in un anno, attraverso le colture ripetute e consociate. Nelle proiezioni della Fao, in linea con quanto osservato nei decenni scorsi, ci si attende che globalmente circa l’80% della crescita della produzione agricola derivi da un aumento delle rese per unità di terra, circa il 10% da un aumento dell’intensità colturale, mentre solo un altro 10% da un aumento della superficie coltivata (Bruinsma, 2011). In altre parole, solo il 10% dell’aumento di produzione sarebbe da attribuire al margine estensivo, mentre il 90% si dovrebbe al margine intensivo, il cui impatto sull’ambiente è ben maggiore. La cosa non è sorprendente, giacché l’aumento delle superfici coltivate è difficile e costoso, e richiede elevati costi di transazione e opere infrastrutturali, mentre gli incrementi delle rese possono essere rapidi e relativamente semplici, grazie alla tecnologia e all’irrigazione.
Quello appena descritto è dunque uno scenario probabile, ma non necessariamente desiderabile né ottimistico, per due motivi principali. In primo luogo, guardando ai singoli paesi, è probabile che in alcuni di essi l’offerta di prodotti agro-alimentari potrebbe non essere comunque in grado di soddisfare la domanda crescente associata al rapido aumento della popolazione. Questo è il caso delle economie più povere dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e di alcune parti del Medio Oriente, fragili e poco diversificate, in cui l’agricoltura è un settore dominante nell’economia, la gran parte della produzione alimentare è di sussistenza e le opportunità economiche potrebbero continuare a essere molto limitate. In secondo luogo, l’aumento delle rese agricole per unità di superficie comporta una maggiore pressione sulle risorse e un aumento dei potenziali danni ambientali dell’agricoltura, comprese le emissioni di gas serra. Attualmente si stima che l’agricoltura conti per circa il 14% delle emissioni di gas serra globali. Pertanto un’elevata priorità va assegnata al miglioramento della gestione delle risorse naturali e alla promozione di uno sviluppo tecnologico che consenta di ridurre la pressione ambientale delle attività agricole. Conciliare questi due obiettivi è possibile in molti casi; il degrado ambientale è spesso innescato e rafforzato dalla mancanza di opportunità economiche, e da una scarsa capacità e/o volontà di investire nella produzione primaria. In ogni caso, in futuro sarà sempre più evidente che la sicurezza alimentare e la sostenibilità ambientale vadano considerate come due facce della stessa medaglia.
Le opinioni riportate in questo testo sono espresse da Piero Conforti a titolo strettamente personale e in nessun caso vanno riferite all’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle Nazioni Unite (Food and Agriculture Organization of the United Nations - Fao) o ai paesi membri di tale organizzazione.
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Approfondimento
La maggior parte degli economisti condivide l’idea che un commercio internazionale sufficientemente libero possa contribuire alla sicurezza alimentare globale. Molti governi, però, continuano a dubitare dei benefici della liberalizzazione commerciale, come mostra il ritardo con cui le regole del Gatt sono state applicate al settore agricolo e le difficoltà degli attuali negoziati nell’ambito della Wto.
Il contributo positivo alla sicurezza alimentare degli scambi internazionali è stato recentemente riconosciuto in varie dichiarazioni politiche: la Un High Level Task Force sulla Global Food Security Crisis notava nel 2010 che mercati internazionali più aperti contribuirebbero alla sicurezza alimentare ampliando i volumi scambiati e diversificando le fonti di approvvigionamento degli alimenti, mentre l’Inter-Agency Report on Price Volatility predisposto per il G20 riconosceva nel 2011 che il commercio è una componente essenziale di qualsiasi strategia di sicurezza alimentare e che le politiche distorsive della produzione e del commercio dei prodotti agricoli costituiscono dei potenziali ostacoli al raggiungimento di una sicurezza alimentare duratura.
La diffidenza dei governi è in parte giustificata dai rischi di improvvisi aumenti nei prezzi internazionali del cibo e dall’assenza di reti di sicurezza per i più poveri; e la crisi finanziaria del 2008 non ha certo contribuito ad aumentare la fiducia dell’opinione pubblica e delle organizzazioni non governative nei confronti dei mercati mondiali. Proprio le posizioni assunte da alcune organizzazioni permettono di caratterizzare i termini del dibattito. Mentre alcune organizzazioni come Oxfam riconoscono il potenziale ruolo del commercio per togliere dalla povertà milioni di agricoltori, altre, come Via Campesina, sposano il principio della ‘sovranità alimentare’ in base al quale ciascun paese avrebbe diritto a mantenere e sviluppare la capacità di autoprodurre il cibo di cui necessita. Un simile approccio non necessita, evidentemente, di ampi scambi in quanto tende a proteggere i produttori interni e a scoraggiare le esportazioni, non necessarie per il perseguimento dell’autosufficienza.
Anche senza condividere posizioni estreme, è innegabile che lo sviluppo degli scambi internazionali solleva molti timori. Le esportazioni (più o meno sussidiate) da parte dei paesi sviluppati possono rappresentare una minaccia per gli agricoltori dei Pvs, ma anche le esportazioni dei Pvs destano preoccupazione in quanto utilizzano fattori produttivi limitati, innanzi tutto la terra, che potrebbero essere destinati a sfamare la popolazione locale: una preoccupazione alimentata anche dal recente fenomeno del land grabbing. Più in generale, si sottolinea che le esportazioni possono generare una serie di esternalità negative, nella misura in cui la conversione produttiva di foreste e pascoli riduce la biodiversità e aumenta le emissioni di gas che contribuiscono all’effetto serra. Va però ricordato che effetti negativi non dissimili, se non più gravi, sugli ecosistemi naturali si potrebbero registrare anche qualora l’obiettivo fosse l’autosufficienza alimentare.
Non è certo sorprendente che il ruolo del commercio internazionale e della sua liberalizzazione rispetto alla sicurezza alimentare sia controverso, in quanto gli effetti positivi del libero scambio passano attraverso una modifica dei prezzi relativi che portano benefici per alcuni e perdite per altri. Il fatto che il saldo complessivo possa essere positivo in termini di efficienza non è di per sé rassicurante se i soggetti colpiti (produttori e/o consumatori) sono quelli maggiormente vulnerabili dal punto di vista della sicurezza alimentare.
Sebbene critiche e timori colgano degli elementi oggettivi, è bene ricordare che un sistema di scambi aperto migliora significativamente l’efficienza della produzione globale di cibo. Al contrario, le politiche di autosufficienza alimentare possono rivelarsi assai costose se non sfruttano i vantaggi comparati, e illusorie nella misura in cui si basano su input importati. D’altra parte, se è vero che il commercio internazionale espone ai rischi di fluttuazione dei prezzi mondiali, è altrettanto vero che svolge un ruolo insostituibile nel fronteggiare eventi imprevisti, per esempio di tipo climatico, che possono colpire le economie locali.
Le politiche di stabilizzazione dei prezzi interni rendono evidente la necessità di un coordinamento multilaterale per il perseguimento di obiettivi globali. Qualsiasi tentativo di stabilizzare il mercato interno, infatti, aumenta l’instabilità internazionale, e ciascun paese ha quindi l’incentivo ad adottare politiche che neutralizzino gli effetti negativi derivanti da quelle altrui. Negli ultimi anni molti governi hanno cercato di contrastare l’aumento dei prezzi mondiali aumentando la tassazione delle esportazioni o riducendo i dazi all’importazione, in entrambi i casi aggravando la crisi dei mercati internazionali: ciò dimostra che il commercio può svolgere un ruolo positivo solo nell’ambito di un sistema di regole multilaterali condivise.
di Luca Salvatici
Approfondimento
La maggior parte dei paesi della sponda meridionale e orientale del Mediterraneo presenta un livello relativamente contenuto di sottoalimentazione cronica. Questo fenomeno riguarda meno del 5% della popolazione in Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Libano, Giordania, Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. Fanno eccezione l’Iraq e lo Yemen, dove una parte larga e crescente della popolazione è cronicamente sottoalimentata, soprattutto a causa dell’instabilità politico-militare. Nonostante l’elevato livello delle calorie disponibili per la popolazione, la regione resta fortemente esposta alle fluttuazioni dei mercati internazionali e a problemi dal punto di vista dell’utilizzo del cibo (Fao, Ifad e Wfp, 2014). Gli indicatori antropometrici segnalano, infatti, incidenze elevate dello stunting nei bambini con meno di cinque anni, e di sovrappeso e obesità nella popolazione. Sebbene ricca in calorie, pertanto, la dieta di larga parte della popolazione sembra essere segnata da carenze di alcuni nutrienti, nonché da episodi passati di insufficienza alimentare (Fao, Ifad e Wfp, 2014).
La crescita della popolazione e del reddito pro capite nella regione ha comportato un aumento rapido della domanda di cibo, mentre la scarsa disponibilità di acqua e terra ne limita l’offerta. La popolazione è triplicata in meno di mezzo secolo, passando da 100 milioni nel 1960 a 300 milioni nel 2006 e continua a crescere a un tasso annuo dell’1,7%. Il potere di acquisto della popolazione aumenta, con un tasso di crescita del reddito maggiore della media mondiale. La regione è dunque globalmente più dipendente dalle importazioni di cibo, che rappresentano all’incirca il 50% del fabbisogno calorico complessivo.
L’aumento repentino dei prezzi internazionali dei prodotti agricoli, verificatosi alla fine degli anni 2000 in concomitanza con l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici, ha avuto un impatto negativo soprattutto sui paesi che non esportano petrolio. L’aumento dei prezzi di prodotti di base come il pane, nonostante il consumo sia fortemente sussidiato in molti dei paesi della regione, ha certamente contribuito all’instabilità politica generatasi durante la cosiddetta Primavera araba. In primo luogo si è generata inflazione, che ha raggiunto un tasso doppio rispetto alla media mondiale. In secondo luogo, in paesi quali Giordania, Marocco, Libano ed Egitto la bilancia dei pagamenti è stata posta sotto pressione dalla necessità di compensare il deficit della bilancia commerciale e di continuare a sussidiare il consumo. In terzo luogo si è avuto un incremento della povertà, che interessa circa un quarto della popolazione della regione e si concentra per circa due terzi nelle zone rurali, dove i più colpiti sono gli agricoltori senza terra, essendo acquirenti netti di cibo.
La risposta dei paesi della regione alla crescita repentina dei prezzi mondiali della fine degli anni 2010 ha puntato sulle politiche commerciali, sull’aumento dei salari e dei sussidi pubblici da un lato, e sull’aumento della produttività in agricoltura, dall’altro. Il Marocco ha ridotto i dazi sull’importazione di grano, trasformandoli in sussidi. L’Egitto ha vietato le esportazioni di riso per proteggere i consumatori locali. La Giordania, l’Oman e l’Arabia Saudita hanno aumentato i salari nel settore pubblico e sussidiato il consumo di beni alimentari, attraverso trasferimenti diretti. La sostenibilità di queste misure nel lungo periodo dipende dalla possibilità di generare concomitanti aumenti di entrate per il settore pubblico; l’aumento dell’indebitamento, che alcuni paesi hanno scelto come strategia di breve termine, potrebbe avere un impatto negativo nei decenni a venire.
L’Ifpri (International Food Policy Research Institute) e la Fao (Food and Agriculture Organization) prevedono che la domanda di cibo del Nord Africa e del Medio Oriente continuerà a crescere nei prossimi decenni, mentre l’offerta non potrà crescere allo stesso ritmo, con un incremento della necessità di importare cibo. Per esempio, si prevede che l’Egitto aumenterà la sua importazione di cereali del 138% fino al 2030; ma anche il consumo di prodotti caseari aumenterà dell’ 82% e quello di prodotti animali del 104%.
Per aumentare la produttività del settore agro-alimentare è fondamentale aumentare la disponibilità dell’irrigazione e migliorare la gestione delle (scarse) risorse idriche disponibili. Nonostante il clima secco, larga parte dell’agricoltura della regione non utilizza l’irrigazione: questo è il caso di oltre metà delle superfici a seminativo in Algeria, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Tunisia e Yemen. Altrettanto importante è migliorare l’efficienza delle catene produttive, agendo sulla distribuzione e sullo stoccaggio. Questo consentirebbe una più efficiente regolazione degli approvvigionamenti, che potrebbe contribuire a stabilizzare i prezzi interni.
di Giovanna D'Agostino
Approfondimento
Il termine land grabbing (letteralmente ‘accaparramento di terra’) è emerso nei media di tutto il mondo durante la crisi dei prezzi agricoli del 2008. Il fenomeno non è certo una novità, ma nuovi rispetto al passato sono alcuni aspetti con cui oggi esso si manifesta: 1) la sua rapida crescita degli ultimi anni; 2) la grande dimensione delle aree interessate dai singoli investimenti; 3) le modalità con cui essi avvengono, attraverso contratti di acquisizione o di leasing di lunghissima durata; 4) la diffusione geografica, che vede coinvolti numerosi paesi: dal lato degli investitori, i paesi occidentali sviluppati, ma soprattutto i cosiddetti emergenti e i rentier state; mentre i paesi oggetto dell’investimento sono soprattutto in Africa ma anche in Sudamerica e Asia.
Più in generale, ciò che caratterizza il land grabbing è che si tratta di un investimento legato non solo a logiche di mercato convenzionali ma anche e soprattutto a motivazioni strategiche di lungo periodo, alimentate da obiettivi di sicurezza alimentare ed energetica dei paesi investitori, e/o dall’azione di grandi compagnie che intendono sfruttare il controllo di risorse di base quali terra, acqua, foreste e risorse minerarie.
Il fenomeno è visto con preoccupazione, proprio per il rischio di perdita del controllo di tali risorse da parte dei paesi oggetto dell’investimento e per le possibili conseguenze negative in termini di marginalizzazione delle popolazioni rurali a favore di uno sviluppo di cui esse non beneficiano. Inoltre, in molti casi, la cattiva definizione dei diritti di proprietà e di uso della terra, o la mancanza di trasparenza e controlli dei contratti, può creare terreno fertile per la corruzione. Ancora, vi può essere il rischio di danno ambientale e di perdita di biodiversità, conseguente al fatto che spesso gli investimenti tendono a utilizzare un sistema di monocoltura.
Se tutto questo può essere vero, va comunque sottolineato che il land grabbing è pur sempre un investimento diretto estero (Ide) che può portare benefici ai paesi che lo ricevono: basti pensare alle tante politiche di attrazione degli Ide messe in piedi dai paesi di possibile destinazione. L’interesse principale dei governi ospitanti è l’impegno degli investitori a costruire le infrastrutture che sono necessarie allo sviluppo del settore agricolo, e che sono un’occasione per la crescita occupazionale. Inoltre, molti contratti prevedono come clausola la costruzione di infrastrutture sociali, quali scuole e ospedali.
In un studio della Fao del 2012, vengono confrontati due casi: quello della Solar Harvest Limited Company e quello della Integrated Tamale Fruit Company (Itfc), che si differenziano per il diverso grado di inclusività del modello adottato e per i diversi effetti sulle comunità locali.
La Solar Company, compagnia norvegese, ha preso in leasing circa 11.000 ettari di terreno nella regione settentrionale del Ghana per coltivare jatropha. Il contratto ha una durata di 25 anni e un canone di 1,20 dollari per acro. Dopo la stipula, molti contadini sono stati costretti a trasferirsi non potendo vantare nessun diritto di possesso sulla terra che coltivavano da sempre. Inizialmente l’iniziativa era stata comunque vista di buon occhio, poiché la compagnia assunse una persona per famiglia, ma una volta piantata la jatropha la domanda di lavoro si ridusse e furono mantenuti soltanto cinque lavoratori. Inoltre la compagnia ha disboscato un’area comune detta bush land per riconvertirla a monocoltura. In sintesi, quella che era considerata una leva di modernizzazione ha invece distrutto un sistema agricolo e la ricca biodiversità che lo caratterizzava.
L’Itfc è una compagnia ghanese-olandese, con sede nella stessa regione, la cui maggiore attività è la commercializzazione di manghi biologici. La compagnia gestisce quasi 1200 acri di terreno con un modello inclusivo basato sulla coltivazione di un acro di mango dato a contratto a ogni singolo contadino. Questo è un caso di successo giacché, anziché espropriare i contadini, la compagnia li ha coinvolti nella coltivazione, assicurandosi una capacità produttiva maggiore senza acquistare terreno. L’Itfc, insieme al ministero dell’agricoltura, ha infatti incoraggiato la creazione dell’Organic Mango Outgrowers Association, che conta ad oggi quasi 1200 membri, favorendo la creazione di capitale istituzionale. Oltre a ciò, durante la stagione della pioggia, l’Itfc sostiene la coltivazione di arachidi come fonte alternativa di reddito per ridurre la minaccia di insicurezza alimentare.
di Giovanna D'Agostino