HÄNDEL, Georg Friedrich
Musicista, nato a Halle sulla Saale il 23 febbraio 1685, quattro settimane avanti il suo grande emulo J. S. Bach. La famiglia apparteneva alla modesta borghesia slesiana, salda nei principî morali, tenace nel lavoro e curante della piccola proprietà. Il padre, Giorgio H., era riuscito a condurre la sua professione di barbiere chirurgo fino al grado di cameriere privato e chirurgo personale del duca Augusto di Sassonia e del principe elettore di Brandeburgo: a 63 anni, vedovo con sei figli e proprietario di una casa decorosa, passava a seconde nozze con la trentenne Dorothea Taust, figliuola d'un pastore protestante. Dei quattro nati dal nuovo letto, il secondo fu Giorgio Federico.
La vocazione musicale, manifestatasi precocemente nel fanciullo, incontrò dapprima l'opposizione del padre. Fu il duca di Sassonia- Weissenfels, dopo aver udito come il bambino d'otto anni suonava l'organo, a proteggere le sorti del futuro artista. Da allora H. ebbe nell'organista Friedrich Wilhelm Zachow un maestro eccellente. Lo Zachow, la cui opera di compositore è tornata di recente in onore, pose l'alunno a contatto con la migliore produzione organistica e vocale tedesca e italiana del tempo; e mentre così ne eccitava la fantasia, spingendolo gradatamente fino alla libera espressione drammatica, gli temprava la mano alla severa tecnica del contrappunto. La personalità artistica dello Zachow, d'immaginazione vivace, espansiva, incline alle concezioni ampie e luminose, e caratterizzata soprattutto da un armoniosti eclettismo decorativo, ha esercitato un influsso profondo e duraturo sul prodigioso allievo.
Undicenne, H. fu presentato alla corte dell'elettore di Brandeburgo, a Berlino. Corte, quanto al culto della musica, devota all'Italia: vi si onoravano specialmente maestri emiliani quali Giuseppe Torelli, Antonio Pistocchi, Attilio Ariosti, Giovanni Maria Bononcini Che l'adolescente H. abbia avuto occasione d'incontrarsi con gli ultimi due e di superarli in gara d'improvvisazione, come è stato detto, è cosa probabilmente inesatta; certo è che il giovinetto destò viva ammirazione e che l'elettore propose di mandarlo a proprie spese a compir gli studî in Italia. Ma il padre di H. rifiutò, sentendosi indebolito in salute: morì infatti (1697) avanti il ritorno del figlio a Halle. In ossequio alla volontà paterna, questi restò a Halle ancora sei anni, frequentando il ginnasio e quindi iscrivendosi nella facoltà di giurisprudenza dell'università. Nell'anno stesso in cui iniziava gli studî di diritto (1702-03) otteneva, nonostante la sua appartenenza al luteranesimo puro, la nomina d'organista nel duomo di culto riformato. Nella primavera del 1703 il diciottenne H., interrompendo gli studî universitarî e le funzioni d'organista, lasciava Halle per Amburgo.
Amburgo vantava da un quarto di secolo un florido teatro d'opera, il primo fondato in Germania (1678) come istituzione pubblica. Con alterna vicenda, secondo il prevalere dell'una o dell'altra tendenza, vi teneva il campo il dramma musicale religioso o quello di carattere profano, l'"opera diabolica" invisa ai pietisti. All'arrivo di H. quest'ultima imperava: il direttore-compositore Reinhard Keiser l'aveva innalzata a notevole fortuna seguendo con fresca vena melodica e buon intuito drammatico modelli italiani, sia imbevuti di galanteria e magnificenza francese, come G. B. Lulli, sia rappresentanti del caldo e canoro melodramma veneziano, come Agostino Steffani il quale dal 1689 lavorava, reputatissimo, a Hannover. L'entusiasmo per le opere di questi maestri giungeva nel Keiser a far infarcire i libretti tedeschi, che gli erano destinati, di arie in lingua italiana; siffatto esempio fu seguito anche dal Händel fino al momento in cui deliberò di musicare solo libretti italiani.
Amico e consigliere prezioso a Händel, nei primi tempi del soggiorno amburghese, fu un musicista e critico di giovine età ma di mente acuta e di grande cultura: Johann Mattheson, il cui gusto iece sì che la melodia händeliana, allora prolissa e monotona, acquistasse varietà e concisione.
Entrato come violinista nell'orchestra teatrale, H. componeva nel 1704 una Passione secondo S. Giovanni (non piaciuta a Mattheson: onde seguirono dissapori tra i due e un duello che per poco non costò la vita a H.) e dava nei primi mesi del 1705 due opere: Almira e Nerone, con clamoroso successo. Toccava ora al Keiser, che aveva fatto riconciliare H. col Mattheson, a ingelosirsi a sua volta del giovane artista. Per schiacciarlo, il Keiser musicò di nuovo ambedue i libretti e tolse le partiture di H. dal repertorio. Ma fu schiacciato egli stesso non tanto da uno scacco artistico, quanto dalla rovina finanziaria. Dovette fuggire per debiti, abbandonando in estremo disordine il teatro, di cui era anche impresario, nelle mani di un inetto successore. Lasciando allora a costui altre due opere: Dafne e Florindo, rappresentate soltanto nel 1708, H. verso la fine del 1706 si recò in Italia. Fu dapprima a Firenze, ove l'aveva invitato, dopo aver assistito a una rappresentazione d'Almira ad Amburgo, Gian Gastone de' Medici, fratello del granduca di Toscana. Poi, con commendatizie di questi che gli procurarono alte ospitalità, a Roma, ove studiò i maestri classici della musica sacra e compose sulle orme loro i Salmi latini (1707). Di ritorno a Firenze scrisse la prima opera italiana: Rodrigo, che gli procurò le simpatie del granduca e l'amore della prima donna Vittoria Tarquini: quindi recatosi per qualche mese a Venezia, allora conquistata dalle canore malie del Mitridate di Alessandro Scarlatti, non poté far eseguire musica propria, ma strinse due conoscenze importantissime per la carriera avvenire: col principe Ernesto Augusto di Hannouer e con l'ambasciatore d'Inghilterra. Artisticamente brillante riuscì un secondo soggiorno a Roma: ospite del marchese Ruspoli, nei cui giardini si tenevano i convegni d'Arcadia, H. v'incontrò Alessandro Scarlatti e il figlio Domenico che si sforzava d'eguagliarlo al cembalo, l'organista e compositore Bernardo Pasquini, Arcangelo Corelli, Benedetto Marcello. Questi ultimi dirigevano le serate musicali in casa Ottoboni: H. vi prese parte con due oratorî, La Resurrezione e Il trionfo del Tempo e del Disinganno.
Il suo talento di artista gli valse la massima tolleranza delle alte sfere ecclesiastiche verso la sua confessione luterana, che egli non volle abbandonare benché sollecitato.
Lasciata Roma per Napoli, ove Alessandro Scarlatti lo raggiunse sulla fine del 1708, godette anche qui un anno di cordiale ospitalità da parte dei compagni d'Arcadia, ai quali dedicò la serenata Aci, Galatea e Polifemo. Il viceré di Napoli cardinal Vincenzo Grimani scrisse per lui il libretto dell'Agrippina e procurò la rappresentazione dell'opera a Venezia (Teatro di S. Giovannni Crisostomo, carnevale 1709-10). L'esito entusiastico fruttò a H., da parte di nobili hannoveresi, insistente invito di recarsi a Hannover, ove Agostino Steffani, frattanto divenuto vescovo e diplomatico, gli cedeva il posto di direttore d'orchestra alla corte granducale.
Breve fu il soggiorno a Hannover. Nell'inverno 1710, ottenuto un congedo dal granduca Ernesto Augusto, H. già si trovava a Londra. Da quindici anni era morto, giovine ancora, il solo compositore inglese che promettesse di rivaleggiare coi maggiori maestri del continente: Henry Purcell. Dopo di lui il campo era tenuto da maestri italiani ma non di prim'ordine: il migliore era Marc'Antonio Bononcini, fratello di Giovanni Maria. Londra, assetata di musica, provveduta di esecutori eccellenti, mancava insomma di grandi compositori. Bene accolto dalla regina Anna, H. ebbe dal direttore dell'Opera, Hill, un libretto ricavato dalla Gerusalemme Liberata: in 14 giorni la partitura del Rinaldo fu pronta e sortì, al teatro Haymarket, un esito clamoroso. Tra il 1711 e la fine del 1712 H. va e viene indeciso dall'Inghilterra (ove faceva rappresentare Il Pastor fido e Teseo) a Hannover: a partire dal 1713 cerca di farsi una posizione come compositore ufficiale della corte inglese, trascurando sempre più gl'impegni assunti verso la casa di Hannover. Quantunque il granduca vantasse diritti alla successione del trono d'Inghilterra, era previsione generale che l'eredità dello scettro, per volontà della stessa regina Anna, sarebbe toccata agli Stuart: grande fu dunque il disappunto di H. e il timore che egli provò d'essere posto al bando, quando, morta Anna improvvisamente, il granduca di Hannover veniva, lo stesso giorno 1 maggio 1714, proclamato re d'Inghilterra e nell'ottobre successivo cingeva la corona a Westminster col nome di Giorgio I. Per rientrare in grazia del re, H. si attenne al partito migliore: scrisse una bella opera, Amadigi, e dedicò al sovrano una serenata, Water Music, eseguita, si crede, sul Tamigi, durante un passaggio del corteo reale.
La fiducia che egli poneva nella passione del monarca per l'arte musicale non si dimostrò errata. Giorgio I si riconciliò con l'artista, lo nominò maestro delle principesse e, tornando a Hannover per breve tempo nel 1716, lo condusse seco. Così H. poteva recarsi a Halle a rivedere la madre, e in Hannover scriveva l'ultima sua opera su testo tedesco: la Passione poetata da B. H. Brockes, composizione di valore disuguale ma non priva di pagine profonde e di tratti grandiosi.
Tornato a Londra col re, e non molto occupato a corte, H. fu per tre anni al servizio del ricchissimo duca di Chandos: sono di questo tempo (1717-20) i dodici bellissimi Salmi (Chandos Anthems) i quali, dice giustamente R. Rolland, stanno agli oratorî come le cantate italiane dello stesso H. stanno alle opere: sono cioè "schizzi magnifici, frammenti d'epopea".
Infatti, meglio del Te Deum detto di Utrecht (1713) essi possono considerarsi quali prodromi al dramma sacro, che H. intraprende attenendosi alla forma gradita agl'Inglesi sotto il nome di masque (forma cioè mista di rappresentazione scenica e di esecuzione oratoriale). Primo masque di H. è Hamman and Mordecai, rimaneggiato in seguito col titolo di Esther: accanto a questa tragedia piena d'afflato biblico si trova un idillio pastorale di squisita impronta classica: il masque Acis and Galatea, altra cosa dalla serenata d'ugual titolo composta a Roma.
Appassionatamente portato verso l'eloquente e calda espressione drammatica, H. si poneva, a partire dal 1720 - terminato, diceva, il suo periodo di tirocinio -, a capo d'un'impresa teatrale: l'Accademia d'Opera italiana, società col capitale di 50.000 sterline presieduta dal duca di Newcastle e protetta dal re, il quale pagava mille sterline all'anno il proprio palco. Avutane la direzione artistica, compiuto un viaggio in Germania per reclutare i migliori cantanti italiani che fossero a Hannover, a Düsseldorf, a Dresda, H. inaugurava la stagione al teatro Haymarket con la propria opera Radamisto, dedicata al re. Negli anni successivi, poiché il pubblico non si contentava di veder l'arte "italianizzante" rappresentata da uno straniero, H. dové dividere l'incarico del comporre col modenese Giovanni Bononcini (figlio di Giovanni Maria) uno dei beniamini del pubblico della penisola e già salito a fama europea, fatto venire espressamente da Roma. H. diede tuttavia, per parte propria, non meno di tredici opere (tra cui alcune delle più belle, come (Ottone, interpretato da Francesca Cuzzoni che l'artista amò nonostante il temperamento "selvaggio" di lei, e Tamerlano) dal 1721 al'28, anno in cui il Bononcini dovette lasciare Londra per aver fatto passare come proprio un madrigale d'Antonio Lotti. Mentre con tale clamoroso incidente aveva termine la lunga lotta fra i due rivali (H. protetto) dalla corte, il Bononcini dal duca di Marlborough) decadeva rapidamente anche il prestigio del teatro, già compromesso dalla fatuità e dalle gelosie dei cantanti (erano soprattutto avverse l'una all'altra la Cuzzoni e la Faustina Bordoni) e dalle perdite finanziarie. Qualche satirico pamphlet, come l'Oppera dei Pezzenti (Beggar's Opera) di John Gay musicata da John Christopher Pepusch dava il colpo di grazia all'impresa. H. ne usciva con intatto prestigio personale; nello stesso 1728 scriveva le quattro Coronation Anthems per l'avvento al trono di Giorgio II e, mentre le sue opere "italiane" correvano per tutta Europa conquistando anche il difficile favore della Francia, egli s'apprestava a ritentar la fortuna presso il pubblico inglese.
Tornato in Italia (visitò allora per l'ultima volta, a Halle, la madre divenuta cieca) riprese contatto con la fiorentissima scuola napoletana, ne studiò le tendenze ormai meno virtuosistiche e più drammatiche e riportò a Londra, dopo quasi un anno d'assenza, nuovi libretti e cantanti. Ecco tra il 1729 e il '33 altre sei opere - tra cui due gemme: Ezio e Orlando - quindi ancora rivalità, perdite e crollo dell'impresa. Neppure due oratorî händeliani dell'anno '33, Debora e Atalia, disseminati di mirabili cori, destarono interesse.
Un terzo tentativo, compiuto da H. per risollevare le sorti dell'opera sotto la sua direzione, doveva urtare contro un nuovo e difficile ostacolo. Ancora una volta egli si recava in Italia e ne tornava con una fresca schiera di cantanti: il partito contrario (che era poi il partito avverso alla casa regnante: la lotta artistica aveva un substrato politico) gli opponeva, come compositori e direttori due rivali formidabili: Niccolò Porpora e Johann Adolf Hasse. Dopo un anno di lotta, durante il quale H. faceva rappresentare l'Arianna e una nuova versione del Pastor fido, il proprietario del Haymarket abandonava H. cedendo il teatro alla compagnia concorrente, forte di cantanti quali il Senesino e il Farinelli. H. portò le tende al Covent Garden e con rinnovata attività, a tutto suo rischio, dava tra il 1734 e il '37 altre sette opere nuove, tra cui Ariodante e Alcina, ricche di cori e di danze. Al tempo stesso veniva preparando oratorî; nuove versioni di Galatea ed Aci, di Ester, di Italia, cui s'aggiungeva la Festa d'Alessandro. Nel colmo di un lavoro così intenso e tenace la costituzione robustissima dell'artista cedeva: nell'aprile del '37 H. fu colpito da paralisi al lato destro. Allontanato colui che ne era l'anima, il teatro dovette chiudersi, in fallimento; ma pochi giorni dopo anche il teatro rivale naufragava. Per qualehe mese H. restò in stato di depressione estrema, con la mente in parte offuscata, incapace di curarsi; nel settembre, costretto dagli amici a recarsi ai bagni d'Aquisgrana, vi recuperò in breve le forze del corpo e dello spirito. Tornato a Londra scrisse per la morte della regina Carolina il bellissimo Salmo funebre (Funeral Anthem), poi due opere; un concerto a suo beneficio lo liberava dai debiti più stringenti; nell'aprile 1738 lo si onorava ponendo la sua effigie, in marmo, scolpita da L. F. Roubillac, nei giardini di Vauxhall. L'estate dello stesso anno egli scrive gli oratorî Saul e Israele in Egitto, due capolavori imponenti, che fa eseguire fra il '39 e il '40, da compagnie raccogliticce, insieme con le ultime opere: Giove in Argo, Imeneo e Deidamia. Al tempo stesso lancia un fiotto di musica strumentale: Concerti per organo, Trii, Concerti grossi, Suites, Fantasie e Fughe per clavicembalo e organo. E di nuovo la fortuna lo abbandona, il pubblico diserta i suoi concerti, la miseria lo minaccia. Stanco di lotta, dopo trent'anni di sforzi titanici, H. risolve di lasciar Londra. Andato a diriger concerti a Dublino, vi resta alcuni mesi, facendo udire tra l'altro Il Messo composto appunto per i concerti irlandesi, su poema di Ch. Jennens. Le annate dei grandi oratorî, dal 1741 al '51, vedono sorgere successivamente Sansone, il Te Deum di Dettingen (a celebrazione della vittoria del duca di Cumberland sui Francesi), Giuseppe (poema di James Miller), Belishazzar (Jennens), Herakles, l'Occasional Oratorio con cui H. incitava il popolo inglese a debellare il pretendente Carlo Edoardo postosi a capo dei ribelli scozzesi e Giuda Meccabeo, dedicato allo sterminatore di quei ribelli, duca di Cumberland. Lo spirito nazionale che pulsa in queste due opere, l'ultima delle quali godette immensa popolarità, conquistò alfine a H., naturalizzato cittadino britannico dal 1726, la riconoscente ammirazione di tutta l'Inghilterra. Giosuè, Solomone, Susanna, Teodora e Iefte dànno termine, insieme con diverse opere minori, al gigantesco ciclo della sua produzione.
Scrittore di rapidità prodigiosa, rispetto al carattere monumentale del suo lavoro, egli terminò Iefte a fatica, con lunghe forzate interruzioni annotate sulla partitura: la vista non gli reggeva più. Operato tre volte di cateratta si trovò nel 1753 irreparabilmente cieco. Da allora non dettò che rare pagine, specialmente in aggiunta o per rimaneggiamento di opere anteriori. Si compiacque invece di tener l'organo nelle esecuzioni dei suoi oratorî, intercalando tra l'una e l'altra parte di questi, con la magnificenza e la chiarezza di stile di cui aveva il segreto, superbe improvvisazioni. E all'organo appunto, durante un'esecuzione del Messia, la morte gli diede l'ultimo assalto. Lottò pochi giorni, quasi intendesse impiegare tenacissima volontà a realizzare il desiderio, che aveva espresso nel testamento, di morire un venerdì santo - "nella speranza di raggiungere il buon Dio, il dolce signore e salvatore, nel giorno della sua resurrezione". La mattina infatti del sabato santo, 14 aprile 1759, il grande compositore dava l'ultimo respiro.
L'artista. - La comunanza di epoca, di nazionalità e quasi di provincia, di religione e, in un certo senso, di attività spirituale, fa sì che alla figura di H. si ponga a fianco e si paragoni, quasi istintivamente, quella di J. S. Bach. In realtà i due sommi artisti (che personalmente non s'incontrarono mai) son degni di stare a fronte l'uno dell'altro, e di servir l'uno all'altro come indice di grandezza - nel che è già un apprezzamento dei rispettivi valori -; ma a prescindere dal fatto che furono entrambi immaginatori potenti e formidabili costruttori di architetture musicali, e stupendi interpreti dello spirito luterano passato attraverso la cultura dell'Europa settentrionale della prima metà del Settecento, non può dirsi che sussistano altre concrete affinità nei due temperamenti. La moderna critica tedesca ama considerar l'uno e l'altro come esponenti conclusivi dello stile musicale barocco, ma sembra che siffatto criterio non possa riferisi senza riserve al compositore di Eisenach e comunque convenga meglio all'autore del Giuda Maccabeo e del Messia. Bach infatti è spirito più castamente contemplativo, più appartato e concentrato in sé stesso, più ripiegato a scrutare, insieme con le profondità dell'anima, arcane leggi di equilibrio e di plastica astratta: di conseguenza l'arte sua ha un rigore, un'ardenza intima, un'essenzialità di forma che non collimano in generale, e salvo alcune incidenze decorative, con le tendenze impressionistiche, gli espedienti prospettici e gli sviluppi prepotenti di linee e di masse proprî del barocco. In H. per contro spiccano i tratti di un gigantesco eclettismo, abbracciati da uno spirito ardente e autoritario, sospinti da una vena espressiva impetuosa e fastosa. Temperamento per eccellenza drammatico, creatore instancabile di figure plasmate a colpi di melodia, evocatore di popoli in un robusto giro d'accordi, egli mira al concreto e vario risalto della scena o, nei salmi e negli oratorî, alla immediata evidenza, al largo colore, alla lussuosa popolarità dell'affresco. Se in Bach il processo di assimilazione di elementi formali da artisti anteriori giunge a un assorbimento profondo e riappare quasi sempre filtrato attraverso un'esigenza stilistica estremamente personale, H. non si preoccupa di lasciare le proprie assimilazioni allo scoperto, pago di cementarle in sintesi sorprendenti e di travolgerle una dopo l'altra nel flusso della sua feconda vitalità. Così l'arte sua non sarebbe concepibile senza il diretto concorso della miglior produzione europea antecedente e contemporanea. Per la produzione teatrale, è soprattutto l'opera italiana che gli serve di guida e di modello. Subito dopo le opere giovanili amburghesi, appena sceso a Firenze e a Roma, il contatto coi maestri italiani, in particolare con Alessandro Scarlatti, lo avvince al melodramma classico d'Arcadia nelle due espressioni fondamentali, pastorale ed eroica, e materiato degli elementi caratteristici: recitativo-aria, parca "sinfonia" introduttiva, piccoli interludî strumentali, brevi e semplici cori. Il primo periodo di attività londinese sospinge a grado a grado H. ad arricchire la parte strumentale e corale, a dare all'aria un movimento psicologico e formale più vario, a irrobustire l'architettura col recitativo accompagnato. Ed ecco l'arrivo e l'influsso di Giov. Bononcini ricondurlo alle forme più amabili e chiare, agli schemi modesti; finché il secondo viaggio in Italia (1724) gli mostra, sull'esempio di Leonardo Vinci, la possibilità di raggiungere intensità di espressione drammatica mantenendo larghezza e semplicità di stile senza ricorrere a complicazioni contrappuntistiche o turbare la limpida rotondità della linea canora. Il nuovo indirizzo italiano lo accosta anche al Metastasio: dalla collaborazione con questo sorgono alcuni dei melodrammi migliori di H.: Siroe (1728), Poro (1731), Ezio (1732). Anche il poema cavalleresco italiano offre a H. materia d'ispirazione, eccellente là dove il temperamento drammatico del musicista può trar partito dal contrasto tra palpiti eroici e amorosi (Orlando, 1733, Alcina, 1735).
Ma nei quaranta melodrammi scritti in poco più che un trentennio, se l'opera del musicista è spesso eletta e la vena fluida, il fine ideale e pratico insieme che l'artista si proponeva non è raggiunto. Egli mirava ad accostare all'espressione drammatica musicale lo spirito popolare; a scolpire vicende, a effondere affetti, a porgere insomma immagini di vita eroica e poetica in un linguaggio accessibile a tutti, suadente e affascinante per tutti. Non comprendeva come la materia classica dei libretti e la melodia attinta alla più pura sorgente che vantasse il mondo potessero fallire allo scopo. Ma l'Inghilterra georgiana non era l'Arcadia di Roma e di Napoli: lingua, tradizione e carattere culturale del melodramma italiano non trovavano che un'eco ristrettissima nello spirito britannico. Per di più lo stile obbligato dell'opera, la sua semplicità formale, l'armatura leggiera della sua tecnica ponevano dei limiti all'arte di H., la quale chiedeva più libero sfogo. Lo slancio intenso, la vastità d'invenzione, la gagliardia costruttiva di cui era capace il genio händeliano si rivelano infatti negli oratorî; in questi egli profuse il poderoso respiro, le piene e fulgide sonorità strumentali e corali, la maestà d'accento e la maschia passione che lo rendono interprete sovrano dei testi sacri. Anche qui il suo modello è italiano: Gian Giacomo Carissimi (una citazione tematica se ne ritrova nel Sansone), e italiani sono i primi oratorî: la Resurrezione, che ebbe cara e amorosamente ritoccò fino agli ultimi giorni di vita, e il Trionfo del Tempo, su parole del cardinal Panfili. In seguito H. si valse di poeti inglesi: S. Humphrey, Pope, Arbuthsnot, Newburg Hamilton e sopra tutti di Thomas Morell; portò a tre parti la distribuzione tradizionale italiana in due momenti e predilesse una trattazione liberamente drammatica dei testi biblici, intramezzata da soste durante le quali poesia e musica assumono carattere lirico-contemplativo. A partire dal momento in cui rinuncia al melodramma, intorno al 1740, la produzione degli oratorî occupa pressoché sola l'attività di H.: ogni anno, per la Quaresima, fino ai giorni della cecità, compare una o due delle grandi opere nuove. Nelle quali veramente egli raggiunge quella magnifica popolarità, fatta di linee semplici, di prospettive profonde, di strutture monumentali, d'espressione obiettiva conferita a tutta la gamma sentimentale, dal dolore tragico all'entusiastica esultanza, che attesta la chiarezza del suo pensiero, la vastità del suo sguardo, l'universalità del suo spirito.
H. era essenzialmente un "visivo". La vita che rendeva in fiumi di melodia e d'armonia, egli assorbiva con lo sguardo. La cecità lo rese sterile. Era appassionato della pittura, frequentatore di musei e fervido collezionista. Tutta la sua grande musica è fatta di "quadri", d'un vigore evocativo spesso stupendo: soprattutto nei cori egli ha precisioni d'impasto, varietà e vigore di atteggiamenti, virtù di colore e segreti di chiaroscur0 che sembrano tolti al suo prediletto Rembrandt. Ciò spiega come nella musica strumentale originalità e forza espansiva gli facciano relativamente difetto. Nelle Sonate a tre e nei Concerti grossi è manifesta fino all'ultimo l'impronta di Arcangelo Corelli, nei concerti per organo e in quelli per oboe alita il ricordo di Antonio Vivaldi, mentre nella trattazione del clavicembalo egli ha presente Domenico Scarlatti e clavicembalisti contemporanei tedeschi. La sua musica più grande presuppone l'azione sintetizzata dalla parola; la sua lena titanica non è mai così piena come nell'epopea drammatica, classica o sacra.
Non alieno, anche nelle pagine più forti, da citazioni di motivi che gli piacessero, si valse talvolta, anticipando una simpatia che fu poi dei romantici, di canti popolari italiani e tedeschi. Ma ebbe egli stesso, allorché la sua fortuna postuma dopo qualche decennio d'oblio risorse per non più tramontare, l'onore di una citazione altamente significativa: da parte cioè d'uno che lo ammirò ardentemente e gli somigliò in alcuni tratti del genio. La frase centrale dell'Alleluia che corona la seconda parte del Messia händeliano (And He shall reign for ever and ever) serve di tema alla fuga finale (Dona nobis pacem) della Messa in re di Beethoven.
Opere: Almira, Amburgo 1705; Rodrigo, Firenze 1707; Agrippina, Venezia 1709-10; Rinaldo, Londra 1711; Pastor fido, la versione, Teseo, ivi 1712; Silla, ivi 1714; Amaiogi, ivi 1715; Radamisto, ivi 1720; Muzio Scevola, Floridante, ivi 1721; Ottone, Flavio, ivi 1723; Giulio Cesare, Tamerlano, ivi 1724; Rodelinda, ivi 1725; Scipione, Alessandro, ivi 1726; Admeto, Riccardo I, ivi 1727; Siroe, Tolomeo, ivi 1728; Lotario, ivi 1729; Partenope, ivi 1730; Poro, ivi 1731; Ezio, Sosarme, ivi 1732; Orlando, ivi 1733; Arianna, Pastor fido, 2a versione, ivi 1734; Ariodante, Alcina, ivi 1753; Atalanta, ivi 1736; Arminio, Giustino, Berenice, ivi 1737; Faramondo, Serse, ivi 1738; Imeneo, ivi 1740; Deidamia, ivi 1741.
Oratorî: Passione secondo San Giovanni, Amburgo 1704; Resurrezione, Trionfo del Tempo e del Disinganno, Roma 1708; Aci, Galatea e Polifemo, Napoli 1709; Passion nach Brockes, Hannover 1716; Esther, 1a versione, Acis and Galatea, Londra 1720; Esther, 2a versione, ivi 1732; Deborah, ivi 1733; Athalia, Oxford 1733; Alexander's Feast, Londra 1736; Saul, Israel in Egypt, ivi 1738-39; Ode per St Caecilia's Day, ivi 1739; L'Allegro, il pensieroso e il moderato, ivi 1740; Messiah, Dublino 1742; Samson, Semele, Joseph, Londra 1743; Belshazzar, Herakles, ivi 1744; Occasional Oratorio, Judas Macchabaeus, ivi 1746; Alexander Balus, Joshua, ivi 1747; Solomon, Susanna, ivi 1748; Theodora, Alcestes. ivi 1749; Choice of Hercules, ivi 1750; Jephtha, ivi 1751; Triumph of Time and Truth (riveduto), ivi 1757.
Musica religiosa: Musica sacra nei testi latini, Roma 1707; Birthday Ode for Queen Anne, Utrecht Te Deum and Juibilate, Londra 1713; Anthems, ivi 1717-49; Coronation Anthems, ivi 1727; Funeral Anthem, ivi 1737; Dettingen Te Deum, ivi 1743.
Musica vocale da camera: Cantate italiane, soli con basso, voll. 2; Cantate ital. con stromenti, Roma 1708-922. 22 Duetti italiani e Trii, 1711.
Musica strumentale: Comp. per clavicembalo; Concerti d'organo; 37 sonate e trii per violino, flauto, oboe con basso; 12 Concerti grossi (Londra 1739); Concerti per orch.; Comp. per grande orch.
Bibl.: J. Mattheson, G. F. H.s Lebenbeschreibung, Amburgo 1761; F. Chrysander, G. F. H., Lipsia 1858-67, 2a ed., ivi 1919; A. Reissmann, G. F. H., Berlino-Lipsia 1882; F. Chrysander, H.s Instrumentalkompositionen für grosses Orchester, in Vierteljahrsschrift für Musikwissenschaft, 1887; id., H.s biblische Oratorien in geschichtlicher Betrachtung. Vortrag, Amburgo 1897, 2a ed., Lipsia 1907; R. Rolland, H., Parigi 1910; id., Portrait de H., in Voyage musical aux pays du Passé, Parigi 1920; M. Brenet, H., Parigi 1913: Newman Flower, H., Londra 1923; H. Leichtentritt, H., Stoccarda 1924; H. Abert, H. als Dramatiker, Gottinga 1921.