Pabst, Georg Wilhelm
Regista cinematografico tedesco, nato a Raudnitz il 27 agosto 1885 e morto a Vienna il 29 maggio 1967. Autore di vastissima cultura e di gusto raffinato, adattò opere letterarie di F. Wedekind, B. Brecht, I. Ehrenburg, M. de Cervantes e partecipò alla stagione del grande cinema sperimentale tedesco degli anni Venti, rappresentata dall'Espressionismo, dagli esiti del Kammerspielfilm, dalla Neue Sachlichkeit, condividendo l'idealismo umanitario e la lotta contro la speculazione della Germania socialista. Negli anni Trenta però la Storia lo trovò allineato alla Germania hitleriana (dopo che, all'avvento del nazismo, aveva cercato di stabilirsi negli Stati Uniti dove però, incapace di adattarsi allo studio system, non aveva ottenuto successo), e quindi lo vide riflettere sulle colpe e sulle responsabilità di quel periodo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Per questa sua profonda ambiguità è stato considerato da alcuni, come Siegfried Kracauer, uno dei rappresentanti del demonismo tedesco e del culto delle ombre, sia in positivo sia in negativo. Grande creatore di figure femminili, con Asta Nielsen, Greta Garbo, Brigitte Helm e, soprattutto, con Louise Brooks, seppe dar vita a immagini nelle quali, secondo alcuni suoi contemporanei, come Lotte H. Eisner, s'incarnavano i grandi sogni romantici e i grandi incubi weimariani, anche se molte di queste creazioni femminili continuano a conservare tutta la loro forza mitopoietica, superando i confini dell'epoca.
Nato in Boemia da una famiglia viennese, studiò recitazione a Vienna e ricoprì molti ruoli come attore teatrale, prima di debuttare nella regia nel 1912 presso il Deutsche Volkstheater di New York. Dopo la Prima guerra mondiale divenne assistente di Carl Froelich, che produsse il suo film d'esordio nella regia cinematografica, Der Schatz (1923; Il tesoro, noto anche come L'oro della morte). Da quel momento lavorò quasi sempre in Germania, dove seppe assorbire gli umori e le temperie delle varie situazioni sociali, politiche e culturali della prima metà del secolo, ma della cultura viennese conservò lo scintillio spregiudicato e l'incertezza fra desiderio di rinnovarsi e atteggiamento decadente.
Il suo primo film di grande interesse è Geheimnisse einer Seele (1926; I misteri di un'anima), un'opera per la quale P. voleva la consulenza di S. Freud e che, dopo il diniego del grande medico viennese, realizzò con la consulenza di due suoi allievi, H. Sachs e K. Abraham. Questo film, sottovalutato dalla critica, ma anche definito "l'intelligente fusione di un film a soggetto con un film documentario" (O. Kalbus cit. in Kracauer, 1947; trad. it., nuova ed. 2001, p. 229) è il primo a raccontare una storia di nevrosi e di terapia con scene intense e violente, grazie soprattutto all'interpretazione di un grande attore come Werner Krauss, e ricostruisce lo sconvolgimento del sogno con immagini di cui si sarebbero ricordati Alfred Hitchcock in Spellbound (1945) e in Vertigo (1958), e soprattutto, a breve distanza, Luis Buñuel, che avrebbe replicato, forse copiato, la scena del rasoio nel suo Un chien andalou (1929). Molti anni più tardi, nel sogno di Tristana (1970) Buñuel avrebbe ripreso ancora da P. l'immagine onirica della campana che oscilla come una testa tagliata.
Il nome di P. è tradizionalmente collegato al realismo della cosiddetta Neue Sachlichkeit, di cui fu il maggior rappresentante, per un film drammatico e sensuale: Die freudlose Gasse (1925; La via senza gioia). In una strada di Vienna ricostruita in forme palesemente teatrali, un turpe macellaio (interpretato sempre da Werner Krauss, con il volto truccato in modo da somigliare a una caricatura di G. Grosz) affama la povera gente, che passa le notti in coda davanti al suo negozio per avere un pezzetto di carne la mattina seguente. In quella fila notturna, di cui la cinepresa scruta crudelmente i volti nel buio, compaiono Maria (Asta Nielsen), una ragazza non più giovane i cui genitori sono abbrutiti dalla fame, e Grete (Greta Garbo) il cui padre è un impiegato ridotto in miseria dalla speculazione. Terribile la scena nella quale Maria cerca di procurarsi una bistecca facendo la graziosa con il sudicio negoziante che la spoglia con gli occhi e che, dopo averla fatta scappare a mani vuote, getta la bistecca al cane. I personaggi spesso si congelano in pose di terrore, di sconforto o di aggressività, quasi immobili, e i gesti, rari e lenti, acquistano una risonanza enorme. Nonostante la storia melodrammatica e convenzionale, certe scene, come l'orgia in casa dell'equivoca signora Greifer, sono veri e propri quadri (la fonte è ancora Grosz), e alcuni primi piani della Garbo hanno una sofferenza, un languore ma anche una sensualità che poche attrici e pochi registi hanno saputo amalgamare in tal modo. Già in questo film si rivela il contrasto nell'opera di P. fra impegno realistico ed estetismo raffinato; spesso infatti la cinepresa si sofferma sui volti e sui corpi delle donne e giustappone al degrado economico la bellezza dei corpi femminili, ma la sua capacità immaginifica si sviluppa nei successivi Die Büchse der Pandora (1929; Lulù ‒ Il vaso di Pandora) e Tagebuch einer Verlorenen (1929; Diario di una donna perduta) che, insieme con il precedente film, compongono una specie di trilogia della donna perduta. Tratto dalla famosa opera di Wedekind, il primo costruisce quella che è stata considerata da molti l'immagine femminile più affascinante nella storia del cinema. La capigliatura a caschetto nero brillante di Louise Brooks, i suoi occhi scintillanti di vita, il suo collo bianco e delicato, la sua innocenza criminale quasi infantile e l'assoluta indifferenza rispetto a ogni scrupolo morale sono stati assunti nell'immaginario collettivo per rappresentare la donna-terra (l'Erdgeist di Wedekind), incarnazione del desiderio di vita e della corsa verso la morte che si esprime in ogni ricerca del piacere. Per far lievitare il dubbio fin dall'inizio, P. ci mostra la ragazza seduta ingenuamente, ma anche consapevole del suo fascino, sulle ginocchia di un viscido e anziano protettore dal sorriso lubrico, Schilgoch. Quando s'insedia in una famiglia alto-borghese, Lulu non tarda a scatenare la violenza del desiderio fra l'uomo che l'ha sposata, Peter Schön, e Alwa, suo figlio. Peter la scopre in camera con uno dei suoi precedenti amanti, ma Lulu uccide il marito e fugge con Alwa, per finire dopo molte avventure in uno slum di Londra, dove si prostituisce per mantenere Alwa e viene assassinata da uno dei suoi clienti, Jack lo Squartatore. Evitando di mostrare l'intero corpo di Louise Brooks e riprendendola solo e sempre in piani ravvicinati, P. costruisce la prima creazione squisitamente cinematografica, frutto del primo piano, del montaggio e del rapporto, qui determinante, fra il corpo dell'attrice e la cinepresa: è questa infatti che sceglie ciò che le serve per alimentare l'immaginario maschile. Ma già prima P. aveva concentrato l'attenzione sulla donna in Abwege (1928; Crisi), interpretato da Brigitte Helm, reduce da Metropolis (1927) di Fritz Lang, nel ruolo di una ricca signora annoiata, che decide di aprire un locale notturno per signori altrettanto ricchi e annoiati.
Più tardi P. si spostò verso il filone realistico e socialmente impegnato con film che raccontano in modo agghiacciante l'orrore della guerra (Westfront 1918. Vier von der Infanterie, 1930, Westfront) o la durezza e il pericolo del lavoro nelle miniere (Kameradschaft, 1931, La tragedia della miniera), ma seguì anche il meno impegnato genere della cronaca-reportage (Die weisse Hölle vom Piz Palü, 1929, La tragedia di Pizzo Palù, codiretto con Arnold Fanck). Solo raramente in seguito raggiunse lo stile alto delle sue prime opere, come nel seducente Die 3-Groschen-Oper (1931; L'opera da tre soldi) tratto dall'opera teatrale di B. Brecht e K. Weill. La figura del cantastorie iniziale sembra collocare tutto quello che accadrà nel passato, e le vicende del bandito Mackie Messer appaiono vicine e lontane, cronaca e leggenda a un tempo. Anche per questa ragione il film fu rinnegato da Brecht, perché stemperava la tensione polemica e il sarcasmo in un estetismo lirico e malinconico, quasi fosse ormai consapevole del tramonto di ogni sogno rivoluzionario. Durante il soggiorno in Francia il lavoro di P. rivelò in seguito discontinuità ancora maggiori, con un erudito Don Quichotte (1933; Don Chisciotte) che dispiega una grande conoscenza della pittura seicentesca, o con film di genere come lo spionistico Mademoiselle Docteur (1936; Mademoiselle Docteur ‒ Salonicco, nido di spie), e melodrammi come Le drame de Shanghai (1937; Shangai ‒ Il dramma di Shangai), che presenta tuttavia uno splendido Louis Jouvet nella parte di un ufficiale corrotto e degradato, ucciso infine dalla sua stessa amante, tutte opere in cui P. mostra la capacità di utilizzare grandi attori anche solo in cammei indimenticabili.
Ritornato in Germania, il regista maturò uno stile dichiaratamente intellettuale con il difficile, freddo ma interessante Komödianten (1941; I commedianti), in cui racconta la vita di Karoline Neuber, riformatrice del teatro tedesco nel 17º sec., che cacciò dalle scene i comici della Commedia dell'Arte italiani, e attraverso questa figura celebra anche, indirettamente, i fasti nazionalistici del Terzo Reich. Il regista crea in questo caso figure strane e tenebrose come l'Arlecchino cattivo-Müller (interpretato da Ludwig Schmitz), che scorreggia continuamente rivolto verso il pubblico e trama contro la sua capocomica, profittando della corruzione dei governanti di Lipsia; mostra inoltre la corte di Mosca in preda a un delirio orgiastico senza fine, che sembra anticipare qualche scena della seconda parte di Ivan Groznyi (1946; La congiura dei boiardi) di Sergej M. Ejzenštejn. Girato tutto in studio, con esterni palesemente falsi, questo film è, come i primi, interamente teatrale: le campagne e le case, come quella del mugnaio e di Philine, sono più teatrali del palcoscenico della Neuber, con il risultato che il teatro appare decisamente più veridico del mondo reale, fatto di cartapesta.
Continuando a dirigere dopo la caduta del Reich, P. mostrò una grande vitalità con film ignorati dalla critica e tuttavia molto interessanti per il coraggio con cui affrontavano in modo problematico e senza pudori il recente passato tedesco e i problemi della connivenza con il regime, come a voler riflettere sul suo stesso passato. Sono di questi anni Der letzte Akt (1955; L'ultimo atto) che racconta gli ultimi giorni del dittatore, ed Es geschah am 20. Juli (1955; Accadde il 20 luglio) con un bravissimo Bernhard Wicki, dove P. rievoca l'attentato dell'ufficile C.S. von Stauffenberg contro Hitler, con la solita freddezza distaccata che gli conferisce un tono di grande modernità narrativa.
S. Kracauer, From Caligari to Hitler. A psycological history of the German film, Princeton (NJ) 1947 (trad. it. Cinema tedesco, Milano 1954.
Da Caligari a Hitler, nuova ed. a cura di L. Quaresima, Torino 2001, pp. 225-30, 232-37, 295-305).
L.H. Eisner, L'écran démoniaque, Paris 1952, 1965², passim (trad. it. Roma 1955, 1983² e 1991³).
B. Amengual, Georg Wilhelm Pabst, Paris 1966.
E. Groppali, Pabst, Firenze 1983.
F. Buache, Le cinéma allemand, 1918-1933, Paris 1984, passim.
Th. Elsaesser, Weimar cinema and after: Germany's historical imaginary, London-New York 2000, ad indicem.