BERKELEY, George
Filosofo, nato a Dysert, nella contea di Kilkenny (Irlanda), il 12 marzo 1685, da famiglia d'origine inglese. Nel 1700 entrò al Trinity College di Dublino, nel quale rimase poi come maestro (successivamente di greco, di teologia, d'ebraico); presi gli ordini nel 1709, fu nominato più tardi predicatore dell'università. In quel tempo fervevano le discussioni intorno a Descartes, Hobbes, Locke, Spinoza, Malebranche, e ai principî della fisica newtoniana. Un'eco viva di esse è nel Common-place book del B., scritto tra il 1705 e il 1709, pubblicato per la prima volta dal Fraser (1871). In esso sono in fermento le idee ispiratrici delle opere di questo periodo giovanile, le quali sono speculativamente più importanti di quelle posteriori, e come tali rimaste più famose nella storia della filosofia: An essay towards a new theory of vision (1709); A treatise concerning the principles of human knowledge: parte 1ª, ma rimasta unica (1710); Three dialogues between Hylas and Philonous (1713).
L'Essay fu un primo, sebbene non ancora esplicito, annuncio del nuovo principio che gli era balenato alla mente riempiendolo di entusiasmo. Movendo dall'esame dell'origine dell'idea di distanza, esso riprendeva una questione allora agitata sull'origine delle idee di estensione in generale, di figura e di movimento, le quali parevano comuni alla vista e al tatto, ed erano state considerate perciò dal Locke come qualità primarie, oggettive, non meri modi nostri di percepire le cose (come le qualità secondarie, soggettive). Il B. dimostrò l'eterogeneità delle idee riferite alla vista da quelle riferite al tatto, pur riconoscendo un'associazione tra esse per opera dell'abitudine, onde la coscienza visiva può costruirsi un sistema di segni, per sé arbitrarî, che tuttavia simboleggiano una serie di esperienze tattili. L'esame critico non è esteso al tatto in questo Essay. La dimostrazione positiva, piena, è data nel Treatise, ch'è l'opera maggiore di questo periodo. In questa il B. distrusse la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, adducendo, giustamente, che tutte sono nostre percezioni o idee, alla pari. Egli stesso espresse il suo principio con la celebre formula: esse est percipi. Per intenderne il significato e l'importanza occorre rifarsi, da un lato, al cogito cartesiano, per il quale l'esistenza dello spirito, come puro pensiero autocosciente, fu posto come principio primo di ogni realtà; dall'altro, al Locke, che quel principio trasportò nel mondo dell'esperienza sensibile per dimostrare che esso è dato dalla percezione e dall'attività dello spirito, il quale dalle idee semplici (fornite, appunto, dalla percezione) ricava per sintesi idee più o meno complesse, e dal rapporto tra le idee in generale deriva tutte le sue conoscenze intorno al mondo (corporeo o incorporeo). Ma Descartes, nonostante l'affermazione del nuovo principio, lasciava pur sussistere la realtà del mondo come "sostanza estesa" del tutto eterogenea a quella "pensante", spirituale. Così Locke: nonostante l'affermazione che il mondo per noi reale è quello di cui abbiamo idee, anch'egli lasciava esistere un mondo estrasoggettiv0, presupposto a quello di cui abbiamo esperienza e conoscenza. L'originalità del B. è tutta nella negazione di quel presupposto. Per lui esiste solo lo spirito: le cose esistono in quanto idee o collezioni di idee, e però interne allo spirito che le percepisce, sebbene pur sempre presenti a esso come oggetti. Esso, poi, non è idea (cosa, oggetto), ma attività percipiente, ch'è, infine, volontà, principio d'azione (si noti lo spunto pragmatistico). Il significato gnoseologico del principio berkeleyano (tendente a un rinnovamento del sensismo in quanto le idee ripresentano il contenuto medesimo delle impressioni dei sensi, nonostante che il corpo sia dichiarato anch'esso un'idea, e però non esistente fuori dello spirito che lo percepisce) deve essere integrato dal carattere attualistico con cui è pensato: poiché reali, propriamente, sono le idee particolari percepite nell'atto in cui s'impongono allo spirito, non quelle formate posteriormente con l'aiuto della memoria e dell'immaginazione, né, tanto meno, le idee generali o astratte, le quali non hanno nessuna esistenza (qui viene, così, combattuta la dottrina scolastica dell'astrazione e insieme il razionalismo della scuola cartesiana). Affermando che ciò ch'esiste è sempre qualcosa di particolare, il B. rinnova la tesi nominalista. La dimostrazione procede serrata specialmente contro l'idea di sostanza, e propriamente di sostanza materiale. Essa porta alla negazione della materia (immaterialismo) intesa come sostrato delle qualità sensibili, laddove queste, non essendo altro che idee, non possono esistere se non in una mente (mind). Ed esistono nella mente nostra (questo è un punto fondamentale) perché Dio le produce in noi (le cose, infatti, non esistendo, non possono produrle). Il B. si argomentava, in questo modo, di aver soppresso una volta per sempre ogni motivo al risorgere del materialismo, fondamento, secondo lui, dello scetticismo e soprattutto dell'ateismo e dell'irreligione che si veniva diffondendo in Inghilterra con l'illuminismo e col deismo (Collins, Toland, ecc.). Egli era lontano dal pensare che proprio dalle sue premesse avrebbe preso lo spunto D. Hume per negare non solo la sostanza materiale, ma anche quella spirituale e, con la critica dell'idea di causalità, il fondamento della dimostrazione berkeleyana dell'esistenza di Dio e di ogni realtà oggettiva fuori dell'impressione attuale sensibile (soggettiva), onde lo scetticismo fu introdotto alla base di ogni scienza e conoscenza del mondo, e fu posto il problema della critica kantiana. Tanto più, in compenso, divenne evidente l'importanza del principio gnoseologico del B., noto oggi come "idealismo soggettivo, o empirico". Non sfugga, tuttavia, il carattere realistico di questo idealismo, che, lungi dall'assorbire le idee nel processo mentale, delle cose fa idee, perché, insieme, delle idee fa, in certo modo, cose.
Non si dimentichi che il problema gnoseologico non era fine a sé medesimo per il B., come dalle opere e dalla sua vita stessa venne sempre più in chiaro, bensì era vòlto al rinnovamento morale e religioso dell'umanità. Riuscito vano il tentativo di conquistare seguaci alla sua dottrina tra gli studiosi, in Dublino e fuori, e credendo che ciò dipendesse dalla forma del Trattato, ne rielaborò il contenuto nei Dialoghi, i quali, per la forma più facile e brillante che ne fa anche letterariamente uno de' migliori scritti filosofici inglesi, furono letti e gustati da un più ampio pubblico. Ma la sua negazione dell'esistenza del mondo esterno parve, allora e anche in seguito, una pazzia, per quanto, come si disse, "inconfutabile".
Intanto egli aveva lasciato Dublino e s'era stabilito a Londra nel 1713. Pubblicò in quest'anno una serie di articoli su un giornale, The Guardian, in cui contro i "liberi pensatori" (the free-thinkers) rivendicava la libertà anche per gli spiriti religiosi cristiani. Introdotto a corte, fece amicizie e conoscenze con illustri scrittori, come Swift, Pope, Addison. Il conte di Peterborough lo condusse seco in Sicilia. Nel 1716 tornò in Italia, dove visitò Roma, Napoli, la Sicilia minutamente: una parte del suo interessante Giornale di viaggio (l'altra andò perduta) è stata pubblicata dal Fraser. Ritornando in Inghilterra, si fermò nel 1720 a Lione, dove scrisse il trattatello De motu, nel quale sostenne, contro le nuove teorie fisico-matematiche, essere incomprensibile il movimento senza un principio attivo di natura spirituale. A Londra, in occasione della crisi finanziaria che allora infieriva, pubblicò nel 1721 An essay towards preventing the ruin of Great Britain, in cui sosteneva l'unica via di salvezza essere nella riforma dei costumi. A un tratto s'impadronisce del suo animo l'idea di recarsi in America per diffondere il cristianesimo fra i selvaggi e fondare un collegio universitario nelle isole Bermude. Avuta in eredità una cospicua somma da una amante dello Swift, e ottenuta, dopo molte insistenze, promessa di sussidî dal governo, nel 1728, unitosi in matrimonio con Anna Forster, salpò, insieme con la moglie e alcuni compagni, portando seco 20.000 volumi. Fermatosi a Rhode Island per svernarvi, vi rimase in attesa de' sussidî promessi. Ivi visse una vita tranquilla, visitato da studiosi e missionarî, tra i quali quel Samuel Johnson che fu il primo divulgatore della sua filosofia in America e, insieme a Jonathan Edwards, de' maggiori filosofi americani nel sec. XVIII. Ivi, anche, si diede allo studio della filosofia greca, e scrisse i sette dialoghi dell'Alciphron; or, the minute philosopher (1732), l'opera sua più voluminosa, in cui riprende la polemica contro i liberi pensatori. Comincia di qui la trasformazione in senso razionalistico e neoplatonico (riallacciandosi alla scuola fiorita a Cambridge prima dell'empirismo lockiano) della sua filosofia precedente. Il mondo sensibile è fenomeno e simbolo di un mondo spirituale, divino, che si rivela nel creato come ordine e bellezza, in noi come libertà morale. La sfera del pensiero berkeleyano si allarga, ma perde di rigore, tendendo a un misticismo che popola l'universo di spiriti, la cui esistenza e relazione non viene chiarita e fondata criticamente. Sono di questo periodo anche il breve scritto The theory of vision, or visual language, shewing the immediate presence and providence of a deity (1733), in cui riprende l'argomento del trattato giovanile; The Analist; or, a discourse addressed to an infidel mathematician (1734), dove, criticata la teoria delle flussioni, conchiude che i principî delle dottrine fisico-matematiche non sono concepibili più distintamente e le loro verità non sono dedotte con evidenza maggiore di quel che avviene nei misteri e dogmi della religione; dello stesso anno sono le aggiunte e correzioni alla 2ª edizione dei Principî e alla 3ª edizione dei Dialoghi, dove accanto alle idee si introducono le nozioni, le une per la conoscenza sensibile, le altre per la conoscenza riflessa o razionale del mondo spirituale.
Ma già nel 1732, vista inutile l'attesa dei promessi sussidî del governo, era tornato a Londra con la famiglia. Nominato vescovo di Cloyne (nord-est d'Irlanda), vi si recò nel 1734. Comincia di qui il suo grande interesse alla questione irlandese e ai problemi collegati di economia sociale, come si vede nel questionario che pubblicò col titolo Querist tra il 1735 e il 1737. Della sua tolleranza e larghezza d'idee rispetto ai cattolici, che a Cloyne eran in grande maggioranza, sono documento alcuni scritti degli anni seguenti. Nel 1740 una violenta epidemia desolava l'Irlanda. In tale occasione il B. si ricordò di un rimedio sperimentato nella sua dimora a Rhode-Island, consistente nel far bere l'acqua di catrame, e si mise, col solito fervore, a farne propaganda: ne fece argomento addirittura d'un'opera filosofica dal titolo Siris: a chain of philosophical reflexions and inquiries concerning the virtues of tarwater (1744). Tradotta subito in varie lingue, sollevò grande clamore ed ebbe praticamente buon successo. L'opera bizzarra è sembrata a qualcuno come il canto del cigno per una certa grandiosità di disegno, che sincretizza senso e ragione, conoscenza scientifica e fede, empirismo e idealismo. Gli elementi naturalistici del precedente platonismo prendono in essa il sopravvento sino a far del fuoco o etere una specie di anima presente nell'organismo cosmico e per eccellenza nell'acqua di catrame. Lo sfoggio di erudizione e la mescolanza di scienza sperimentale con la teologia, anzi con la teosofia, la fanno più un'opera di curiosità che d'interesse vivo per la storia della filosofia. Altri scritti sullo stesso argomento pubblicò negli anni seguenti. E infine alcune Maxims concerning the patriotism (1750). Colpito da una paralisi, volle essere trasferito a Oxford, dove morì il 14 gennaio 1753.
Ottima l'ediz. di A. C. Fraser, The works of G. B., including his posthumous works with prefaces, annotations, appendices, and an account of his life, voll. 4, Oxford 1901; è un'ediz. rifatta di quella uscita nel 1871, a cura del Fraser stesso.
Delle opere del periodo giovanile esistono traduzioni italiane: dei Principî e dei Dialoghi, a cura di G. Papini, nella collezione dei Classici della filosofia moderna (Bari 1909 e 1923); del Saggio di una teoria della visione, a cura di G. Amendola (Lanciano 1920); del Libro di appunti, a cura di M. M. Rossi, con ampio commento (Bologna).
Bibl.: Un'ampia bibliografia è nella citata traduzione del Rossi, che la riprende dalla precedente del Papini (pubbl. in Rinnovamento, II, 1908, p. 250 segg.), il quale ha tratteggiata simpaticamente la vita di B. (riprodotta in 24 cervelli, nuova ediz., Firenze), ricavandola, come fanno anche gli altri biografi, da quella del Fraser. Tra gli studî stranieri più recenti vedi: E. Cassirer, Berkeleys System, Giessen 1914; R. Metz, G. B.s Leben und Lehre, Stoccarda 1925. Degli scritti italiani sul B. le pagine del Croce (in Critica, VII, p. 77 segg.) sono ancora le migliori; cfr. poi, ora, A. Levi, La filosofia di G. Berkeley, Torino 1922; F. Olgiati, L'idealismo di G. Berkeley, Milano 1926.