Steiner, George
Scrittore e saggista di origine austriaca, nato a Parigi il 23 aprile 1929, naturalizzato statunitense nel 1944. Di famiglia ebraica, allontanatasi dall'Austria a causa del clima di antisemitismo diffusosi alla fine degli anni Venti ed emigrata nel 1940 negli Stati Uniti, seguì gli studi universitari in Europa e negli Stati Uniti. È stato membro dello staff di The Economist a Londra (1952-56), dal 1966 ha sostituito E. Wilson come critico letterario per il New Yorker e ha collaborato al Times literary supplement. Ha ricoperto numerose cariche accademiche e dal 1974 al 1994 è stato professore di inglese e letteratura comparata all'università di Ginevra, dove poi è divenuto professore emerito. Nel 1994-95 è stato primo Lord Weidenfeld visiting professor of Comparative literature alla University of Oxford.
Cresciuto in una famiglia dove si parlavano correntemente inglese, francese e tedesco, educato dal padre a un profondo rispetto per i classici e per i grandi del pensiero, della musica, della letteratura e delle arti, secondo le migliori tradizioni di quell'ambiente ebraico mitteleuropeo, della cui rovina fu testimone durante l'infanzia, S. si è avvalso di un tale patrimonio per un'appassionata ricerca sulle origini della crisi della cultura europea occidentale. Pubblicò il suo primo libro, Tolstoy or Dostoevsky, nel 1959 (trad. it. 1965, 1995²). La crisi della cultura si identifica per S. con la crisi del linguaggio: in Language and silence (1967; trad. it. 1972) enuncia la lacerante divaricazione tra segni e significato e intuisce come la corruzione del linguaggio sia legata alla menzogna e alla ferocia del totalitarismo. Tale tesi diventerà centrale in Bluebeard's castle (1971; trad. it. 1990), in cui l'olocausto è indicato come la causa dello iato incolmabile apertosi tra cultura e politica (mondo di Weimar e mondo di Auschwitz), e dunque della fine del concetto stesso di progresso e della coincidenza di progresso e cultura. Nel successivo After Babel (1975, trad. it. 1984; nuova ed. riv. 1992, trad. it. 1994; adattato per la televisione con il titolo The tongues of men, 1977), S. si propone di tracciare le coordinate di un nuovo campo di discussione: far uscire la linguistica dalle strettoie delle specializzazioni e delle astrazioni sincroniche. In quest'opera, pesantemente osteggiata dalle correnti linguistiche dominanti nel mondo accademico statunitense, S. situa la traduzione nel cuore della comunicazione: tradurre è sinonimo di comunicazione e comunicare significa decifrare. Ogni comunicazione umana anche monolingue è una traduzione. Indicando in Babele un simbolo non di confusione ma di vitalità, S. vede nella proliferazione delle lingue la capacità umana di generare realtà alternative e quindi di proiettarsi durevolmente nel futuro. L'egemonia distruttrice delle cosiddette lingue maggiori, soprattutto dell'inglese, diventa così una componente del processo di massificazione e del livellamento della cultura occidentale. Altro filone seguito da S. è quello del perdurare dei miti della cultura classica nella cultura occidentale (The death of tragedy, 1961, trad. it. 1965; Antigones, 1979, trad. it. 1990). S. individua nell'avvento di una società ormai assuefatta all'orrore, e quindi incapace di stupirsi, la causa della morte della tragedia. Nell'autobiografia intellettuale Errata (1997; trad. it. 1998) S. afferma di aver troppo tardi riconosciuto le origini del tramonto della cultura occidentale in una trasformazione radicale di categorie ontologico-storiche risalenti alla cultura greca classica. La cosiddetta nuova era si basa su una cultura dell'effimero opposta a quella della durata. Si dichiara infine, con autoironia, un anarchico platonico, incapace di aderire a uno schieramento politico, ma fermamente convinto della necessità di appoggiare qualsiasi ordine sociale capace di diminuire la sofferenza nel mondo e di dare spazio a un'élite culturale degli scienziati, degli artisti e dei filosofi.
S. ha scritto anche poesie (Poems, 1953), racconti (Anno Domini, 1964) e un romanzo The portage to San Cristobal of A. H. (1981; trad. it. 1982), che ebbe anche una versione teatrale, in cui affronta il tema di una sotterranea complicità tra vittime e carnefici. Tra le altre opere: Extraterritorial (1971); The sporting scene: white knights in Reykjavik (1973); Nostalgia for the absolute (1974); Martin Heidegger (1978; trad. it. 1980); On difficulty and other essays (1978), dove riprende il tema altre volte affrontato dei rapporti tra eros e linguaggio; Real presences (1986; trad. it. 1992); Proofs and three parables (1992; trad. it. Il correttore, 1992); What is comparative literature? (1995; trad. it. 1995); Homer in English (1996); No passion spent (1996; trad. it. 1997).
bibliografia
T.F. Van-Laan, The death of tragedy myth, in Journal of dramatic theory and criticism, Spring 1991, pp. 5-31.
M. Kinghorn, Figments of the imagination: George Steiner's real presences, in Theater, Winter 1992, pp. 50-53.
E. Wachtel, George Steiner interviewed by Eleanor Wachtel, in Queen's quarterly, Winter 1992, pp. 837-48.
Reading George Steiner, ed. N.A. Scott jr., R.A. Sharp, Baltimore 1994.
F. Buffoni, Dopo Babele, in Libri e riviste d'Italia, genn.-dic. 1995, pp. 19-23.
J. Barth, S.J. Robert, Coleridge and George Steiner: the transcendence of art, in Wordsworth-Circle, Winter 1997.