Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Bizet è l’autore di uno dei principali capolavori del repertorio operistico, Carmen; nel corso dell’Ottocento l’opera contribuisce in modo determinante allo svecchiamento dei generi del teatro musicale francese e influisce sulle vicende del melodramma veristico di fine secolo. Nonostante la prodigiosa rapidità nell’invenzione, Bizet ci ha lasciato un numero limitato di lavori compiuti che solo a tratti raggiungono i vertici della sua opera maggiore.
Gli esordi di Georges Bizet ricalcano quelli di altri musicisti francesi ottocenteschi: studi regolari al conservatorio di Parigi, avviati in età precoce, a riconoscimento di capacità musicali eccezionali; segnalazione nei premi del conservatorio stesso per le varie discipline di insegnamento; vittoria nel 1857, all’età di 19 anni, del prestigioso Prix de Rome e conseguente soggiorno di studio a Roma fino al 1860. Le prime composizioni di Bizet rientrano per lo più tra i generi d’obbligo per i vincitori del Prix de Rome: un Te Deum, l’ode sinfonica Vasco de Gama, alcuni pezzi sinfonici (uno Scherzo, una Marche funèbre e La chasse d’Ossian). Nel frattempo Bizet si limita a sondare il terreno dell’opera buffa italiana con Don Procopio (prossima al Don Pasquale di Gaetano Donizetti) e quello dell’opera in un atto con La guzla de l’émir, rivelando una spontanea inclinazione verso il teatro musicale.
Di questo gruppo di lavori soltanto Vasco de Gama e i primi due pezzi sinfonici vengono eseguiti, gli altri vanno a inaugurare la cospicua serie delle composizioni mai nate, rimaste incompiute, sottratte alla circolazione o addirittura distrutte che occupa buona parte del catalogo del musicista.
Fin dal periodo giovanile il carattere di Bizet lascia trapelare indecisioni che ne compromettono le scelte e minano in lui la coscienza dei propri mezzi artistici. Significativo è il caso della Sinfonia in Do maggiore: Bizet la scrive di getto all’età di soli 17 anni e poi la tiene per sempre nascosta. Oggi, noi vi riconosciamo la mano di un compositore già maturo e attento a quanto accade attorno a lui (suo modello è l’allora recentissima Sinfonia in Re maggiore di Charles Gounod) e vi scorgiamo segni di freschezza nell’orchestrazione e originalità che è difficile trovare in composizioni sinfoniche successive, come la sinfonia Roma (nata tra il 1861 e il 1868) e l’ouverture Patrie (1871).
Compiuto il periodo del Prix de Rome, e stabilitosi a Parigi a partire dal 1860, Bizet rivela un’autentica vocazione per il teatro musicale. All’amico Camille Saint-Saëns confida di non essere fatto per la sinfonia e di avere bisogno del teatro per poter scrivere musica. Ciononostante Bizet mette insieme soprattutto lavori incompiuti, spesso vittima di libretti scadenti; tra questi figura Ivan IV del 1865, un grand-opéra di argomento storico, omaggio tardivo allo spettacolo monumentale alla Meyerbeer, rivissuto attraverso l’esempio di Gounod.
All’epoca del suo soggiorno a Parigi, Bizet affronta i più svariati tipi di teatro musicale: si va dall’operetta Malbrough s’en va-t-en guerre (alla quale partecipa nel 1867 per la realizzazione del solo primo atto), al tentativo di completamento nel 1868-1869 dell’opera Noè di Jacques Fromental Halévy, il maestro di conservatorio di Bizet, da poco scomparso. Nel 1869 sposa la figlia di Halévy, Geneviève. In questo periodo giungono alla rappresentazione soltanto due opere commissionate dal Théâtre Lyrique: I pescatori di perle (Les pêcheurs de perles; che va in scena nel 1863) e La jolie fille de Perth (allestita nel 1867).
I pescatori di perle, su libretto di Michel Carré e Eugène Cormon, rappresenta con mano leggera un serie di passioni in conflitto (amore contro sacralità del voto, amicizia contro gelosia) nell’ambientazione esotica dell’isola di Ceylon. Meno felice è invece la riuscita della Jolie fille de Perth, su un liberissimo adattamento di un romanzo di Walter Scott, malamente messo insieme da Jules Adenis e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges. Due lavori che comunque attestano l’inclinazione di Bizet per il “color locale” (per la quale, all’epoca, egli viene spesso accostato a Félicien David), associata al gusto per la leggerezza, per un’arte pura e spontanea che rifugge gli eccessi della passionalità.
In quegli anni Bizet dichiara ripetutamente di avere come ideali Mozart e Rossini e, per contro, di ammirare le conquiste tecniche di Wagner, rifiutandone però l’estetica. Con indole anticonformista, nell’epoca in cui l’opera moderna aspira alla continuità della struttura musicale, egli ribadisce la vitalità delle convenzioni, punta direttamente sul fascino del pezzo chiuso e si affida alla logica tutta musicale della melodia, per comporre una musica che si stende indifferente sulle vicende, astenendosi dal partecipare alla vita interiore dei personaggi.
Bizet contribuisce in modo determinante a realizzare la tendenza che nel teatro francese prende il nome di opéra-lyrique: un genere che si distacca tanto dalla spettacolarità fine a se stessa del grand-opéra, quanto dalla semplicità ingenua delle trame dell’opéra-comique, per concentrarsi sugli aspetti più intimamente sentimentali. Tale orientamento si avverte già in Les pêcheurs de perles, dove l’impianto scenografico con cori e danze di indiani, cieli stellati e notti tempestose, templi in rovina e villaggi in fiamme è continuamente contraddetto dall’intenso lirismo dei protagonisti. Tendenza che risulta ancor più evidente nell’atto unico Djamileh, scritto nel 1871 su libretto di Louis Gallet, tratto dal racconto Namouna di Alfred de Musset, e rappresentato l’anno successivo all’Opéra-Comique. La storia è quella della schiava licenziata dal pascià dopo un mese d’amore, la quale con l’intrigo riesce a conquistarlo per sempre. Ancora una volta alle prese con un libretto di scarsa efficacia drammatica, il musicista conferisce una certa vitalità alla figura della protagonista mediante la perfetta evocazione musicale dell’atmosfera in cui essa agisce. Una delle pagine migliori dell’opera per delicatezza di pathos è, ad esempio, il brano nel quale l’infelice Djamileh narra al sultano Haroun l’amore infelice di Nour-Eddin, re di Lahore.
Nello stesso anno di Djamileh, Bizet rivela originali doti di miniaturista nella suite di 12 pezzi per pianoforte a quattro mani intitolata Jeux d’enfants. Il mondo dell’infanzia vi è affrontato con arguzia e raffinatezza, con una levità e nello stesso tempo un’intensità che rivelano la grande simpatia del musicista per l’opera pianistica di Schumann.
Nel 1872 Bizet compone le musiche di scena per L’Arlésienne di Alphonse Daudet, lavoro che segna una tappa fondamentale nella ricerca della leggerezza e della vitalità trascinante del ritmo. Sfruttando al meglio le risorse di un insieme ridotto di strumenti, assortiti in modo bizzarro, per il dramma di Daudet Bizet compone alcuni cori e una serie di brani strumentali, tutti brevissimi e di aforistica intensità espressiva.
L’ambientazione della vicenda in Provenza gli suggerisce l’impiego di autentiche melodie tradizionali provenzali che si fondono perfettamente con quelle d’invenzione: brani originali come la Pastorale o il Carillon risultano tanto pittoreschi quanto il Prélude che utilizza un vero tema popolare. Una versione per grande orchestra del Prélude e del Carillon entra anche nella Suite realizzata nel 1872 dallo stesso Bizet per i Concert Pasdeloup (una seconda suite che include anche un brano da La jolie fille de Perth, è invece opera di Ernest Guiraud).
Djamileh e L’Arlésienne prefigurano nel mondo di Bizet alcuni tratti fondamentali della successiva Carmen: la prima per la sensazione d’implacabilità che aleggia attorno alla protagonista, un misto di dolcezza e di ostinazione irriducibile; la seconda per l’ambiente esotico fortemente caratterizzato e per la riduzione del destino dell’uomo alla scelta tragica tra l’amore della donna onesta e il fascino fatale della donna che si impone come forza primigenia della natura.
Bizet realizza quella che sarebbe rimasta la sua ultima opera nel periodo 1873-1874, lavorando sul libretto che Henri Meilhac e Ludovic Halévy (i librettisti delle operette di Offenbach) ricavano dal racconto Carmen di Prosper Merimée. Il 3 marzo 1875 Carmen va in scena all’Opéra-Comique, non senza difficoltà; la direzione del teatro, infatti, è contraria agli aspetti più innovativi del lavoro di Bizet e, in particolare, è preoccupata per la figura scandalosa della protagonista (l’Opéra-Comique è un teatro frequentato prevalentemente da famiglie di estrazione borghese) e per la mancanza di lieto fine (una condizione quest’ultima che si ritiene obbligatoria per il genere dell’opéra-comique, e che il musicista disattende fermamente). L’esito della prima rappresentazione è incerto: in teatro non mancano gli applausi (soprattutto per i brani di maggior spicco dei primi due atti), ma la critica si scaglia ostile contro il musicista e ciò basta per suscitare in Bizet, ancora alla ricerca dell’affermazione che ne confermi pubblicamente le qualità, la sconsolante certezza del fallimento.
Nella Carmen Bizet investe molte delle sue energie migliori, a partire dal contributo all’abile riduzione librettistica del racconto di Merimée. Al centro della vicenda rimangono la gitana Carmen, incarnazione di una visione elementare e incondizionata dell’esistenza, che essa difende fino alla morte, e l’esitante don José, che solo la seduzione funesta della protagonista trascina fuori dalla legge, fino al delitto. A questi personaggi gli autori ne affiancano altri che nel racconto non esistono oppure hanno scarso rilievo, come Micaela, la fidanzata di don José, innamorata di un amore puro e sincero, ma anche così normale e banale, o come l’espada Escamillo che in Merimée è solo una delle tante avventure secondarie di Carmen e che nell’opera favorisce la materializzazione scenica delle crisi di gelosia di don José.
Secondo un procedimento sperimentato, anche nella Carmen Bizet definisce personaggi e azione a partire dalle sollecitazioni “esotiche” del soggetto.
Ecco allora che la habanera concentra in pochi versi (dettati dallo stesso Bizet) e nell’ossessione persistente di un ritmo l’essenza della natura di Carmen. Ecco che la scena di seduzione di don José si snoda sulle movenze sinuose della seguidilla (un’antica danza popolare andalusa), fino al compiersi dell’epilogo tragico nel clima festoso e multicolore della corrida trionfante di Escamillo.
Una situazione quest’ultima che ha conseguenze dirette sull’opera cosiddetta verista, in Francia e soprattutto in Italia.
Con queste prerogative il personaggio di Carmen risulta totalmente risolto nella musica, nel puro dinamismo vitale, nella sfrenatezza del canto e della danza. E nonostante il ricorso occasionale a motivi folklorici, lo spagnolismo non è semplice esotismo, ma si carica di una precisa valenza drammatica.
Configurando un ambiente fortemente realistico, lo spagnolismo contribuisce infatti a ridefinire i rapporti tra finzione scenica e realtà, stendendo una patina persistente anche nel momento in cui il vortice del ritmo si placa e Carmen si ferma a contemplare il proprio destino di morte nella scena delle carte dell’atto terzo.
Al contrario don José e Micaela si esprimono nel linguaggio convenzionale dell’opera francese del tempo. E anche da ciò risalta la loro distanza dall’inafferrabile e demoniaca Carmen; non potendo possederla, don José non può far altro che sopprimerla.
Esattamente tre mesi dopo la “prima” della Carmen, in circostanze rimaste in parte misteriose, Bizet muore improvvisamente a Bougival presso Parigi, all’età di soli 37 anni, senza poter assistere alle fortune del suo capolavoro, iniziate con la ripresa a Vienna dell’autunno 1876. Di lì a poco la Carmen sarebbe diventata il pilastro del repertorio dell’Opéra-Comique e uno dei maggiori successi del teatro musicale di fine secolo, tanto che per la capacità di rappresentare una condizione mitica, ma senza pesantezze metafisiche, Nietzsche l’avrebbe scelta come contraltare “mediterraneo” dei drammi wagneriani.