Amboise, Georges d’
Ecclesiastico e politico francese (Chaumont-sur-Loire 1460 - Lione 1510).
La famiglia nella quale A. nacque in un giorno imprecisato del 1460 poteva dirsi già allora di antica nobiltà e di consolidato prestigio politico. Avevano ricoperto importanti incarichi militari, diplomatici e amministrativi tanto l’avo Hugues, morto nella battaglia di Azincourt (1415), quanto il padre Pierre (1408-1473): quest’ultimo in particolare era stato assai vicino a Carlo VII e quindi a Luigi XI, sebbene poi, aderendo alla cosiddetta lega del Bene pubblico (1465) – una delle rivolte a carattere feudale contro la politica di accentramento della monarchia da cui fu scossa la Francia nel 15° sec. – si vide confiscare i beni e distruggere il castello di Chaumont. Ma la disgrazia politica per la casa d’Amboise fu breve, poiché essa seppe ben presto ritrovare la prossimità alla corona. Cosicché il primogenito di Pierre e fratello maggiore del futuro cardinale Georges, Charles 1er (1430-1481), fu tra i maggiori comandanti impegnati da Luigi XI nella guerra contro il duca di Borgogna, nonché responsabile di delicate missioni diplomatiche e quindi ciambellano di San Michele, il massimo ordine cavalleresco francese.
A. si giovò sempre con profitto della vasta rete familiare nella costruzione della propria carriera ecclesiastica e politica. Destinato al chiericato, ne percorse il cursus honorum con la rapidità dovuta al suo rango: nel 1475 fu investito dei benefici di Saint-Paul di Narbona, due anni dopo di quelli dell’abbazia di Grandselve, mentre nel 1482 venne eletto arcivescovo di Narbona, anche se l’elezione gli fu contestata da Roma durante il papato di Innocenzo VIII e poté renderla effettiva solo nel 1492, con la successione al soglio pontificio di Alessandro VI; nel 1484 venne designato vescovo di Montauban, e fu quindi ordinato sacerdote nel 1485. Ai primi anni Ottanta risale la circostanza cruciale per la sua ascesa politica: l’amicizia che strinse con il duca Luigi d’Orléans, il futuro Luigi XII. A. ne condivise la disgrazia all’epoca della Guerra folle (1485-88), la nuova rivolta della grande feudalità contro la corona, nella persona di Anna di Beaujeu, reggente per il fratello minore Carlo VIII. Questa ennesima crisi si chiuse favorevolmente per la corona con la battaglia di Saint-Aubin-du-Cormier (1488), a seguito della quale tanto il duca d’Orléans quanto A. vennero incarcerati. Liberato nel 1489, A. prestò giuramento di fedeltà a Carlo VIII, per il quale negoziò nel 1491 il decisivo matrimonio con Anna di Bretagna. Nel 1493 fu eletto arcivescovo di Rouen (donde l’appellativo «Roano», frequente in M. e in altri scrittori dell’epoca), diocesi tra le più ricche e ambite di Francia. Mentre il duca d’Orléans, riavvicinatosi alla corona, era impegnato nella campagna d’Italia (1495), A. ne fu il luogotenente negli aviti possedimenti di Normandia. Quando infine il duca successe al cugino (maggio 1498), A. ne divenne il principale consigliere politico, senza che tuttavia tale ruolo fosse mai formalizzato in una carica specifica: rimase fino alla morte il cappellano del re. A distanza di pochi mesi dall’incoronazione del nuovo re, uno dei primi risultati politici rilevanti di A. fu l’ottenimento da Alessandro VI della dissoluzione del matrimonio tra il sovrano e Giovanna, la deforme sorella di Carlo VIII (cfr. Principe vii 14): ciò che aprì la strada al nuovo matrimonio di Luigi con la vedova dello stesso Carlo e, conseguentemente, a un ulteriore consolidamento della compagine statale grazie al definitivo assorbimento del ducato di Bretagna nella corona di Francia. I complessi negoziati condotti con Roma prevedevano anche la concessione per A. della porpora cardinalizia (cfr. Principe iii 46). Creato cardinale del titolo di S. Sisto nel concistoro del 17 settembre 1498, A. poté ancora ottenere da Alessandro VI la legazione apostolica per la Francia (1501), che, confermatagli da Giulio II, conservò sino alla morte (di qui la frequente antonomasia – il «Legato» – con cui è spesso indicato).
Impegnato nella riforma della Chiesa gallicana, ebbe come vera aspirazione personale il papato, obiettivo che però fallì nei due conclavi ai quali poté partecipare: quello per la successione di Alessandro VI e l’altro, di poche settimane posteriore, per la successione di Pio III. In entrambi i casi non gli riuscì di aggiungere ai voti dei cardinali francesi, di cui disponeva, anche quelli degli italiani, benché avesse fatto liberare e portato con sé dalla Francia il sempre autorevole Ascanio Sforza, né degli spagnoli, sebbene avesse accordato protezione a Cesare Borgia.
Sostenitore convinto delle pretese dinastiche di Luigi XII sul ducato di Milano, fu tra i tessitori, con Venezia e il papato, della trama diplomatica che negli anni a cavallo del secolo condusse a scalzarne gli Sforza, da lui fatti inviare prigionieri in Francia, e alla successiva spartizione del territorio lombardo.
Dopo essere stato luogotenente generale di Milano, nel rientrare in Francia ottenne che il nipote Charles de Chaumont, figlio del fratello Charles, fosse nominato governatore di Milano. Fu quindi tra i promotori della lega di Cambrai (1508), volta a riacquisire i territori del ducato di Milano che la Repubblica di Venezia si era accaparrata, e non seppe evitare il successivo rivolgimento diplomatico antifrancese che Giulio II operò con la lega Santa. Rimase comunque fino alla morte tra i massimi ispiratori della politica di Luigi XII, di quella estera in particolare, ma forse in maniera meno incontrastata di quanto generalmente poté parere dalla specola fiorentina e di come egli stesso aveva interesse a far parere, essendo peraltro destinatario di un imponente flusso di donativi, per sé e i suoi familiari, da parte della Repubblica del Giglio.
Nei suoi soggiorni nella penisola rimase affascinato dalla fioritura artistica di quegli anni, divenendo uno dei principali introduttori del nuovo gusto italiano in Francia. Splendido il suo mecenatismo: tra le realizzazioni più celebri di quanto ebbe a finanziare vi furono il castello di Gaillon, residenza estiva degli arcivescovi di Rouen, il palazzo dell’arcivescovato di Rouen, il castello di Vigny. Fu anche un avveduto collezionista di preziosi codici manoscritti, ora conservati, spesso con le sue armi, presso gli Archivi di Francia.
La morte lo colse a Lione il 25 maggio 1510, quando ancora sperava di potersi presentare a un presumibilmente prossimo conclave con buone possibilità di elezione. Lasciò disposizioni per un monumento funebre nella cattedrale di Rouen, che è tra i capolavori della scultura francese di quel periodo.
Fin dalla lettera di istruzioni per la sua prima missione in Francia M. si era visto indicare A. e i suoi come i maggiori referenti per i fiorentini in seno alla corte: «Le persone di chi aviamo fede appresso la Cristianissima Maestà è: primum, Monsignore di Roano e Monsignore d’Albì [nipote di A., poi anch’egli cardinale], e puossi dire tutta la Casa d’Ambuosa» (17 luglio 1500, LCSG, 1° t., p. 396). Indicazione che da Firenze si sarebbe ripetuta per tutti gli inviati presso la corte francese lungo il decennio successivo.
Per esempio, per Francesco Soderini e Lucantonio degli Albizzi, impegnati in una lunga legazione (inedita) tra l’agosto del 1501 e la primavera successiva: «la Maestà del Re per quello che si è visto sempre si rimette in tutte le cose al Reverendissimo Cardinale di Roano» (31 ag. 1501, ASF: Sigg. Miss. Leg. e Comm. 23, c. 56r); e i due ambasciatori confermeranno: «indubitatamente è un altro Re et fa ogni cosa et sanza lui non si fa nulla» (30 dic. 1501, ASF: Sigg. Resp. 21, c. 232r). Lo stesso M. nelle sue corrispondenze spesso presenta congiuntamente la volontà politica di A. e di Luigi XII: «la mente del Re e di Roano» (26 giugno 1502, LCSG, 2° t., p. 244); «a Roano e ad el Re è sommamente piaciuta la elezione di Piero Soderini» (3 ott. 1502, LCSG, 2° t., p. 326); «il Re e Roano erano ben volti a fargli [a Cesare Borgia] piacere» (9 ott. 1502, LCSG, 2° t., p. 345). Dopo la lunga e importante legazione della seconda metà del 1500, nella quale M. ebbe modo di rivolgere ad A. un’incisiva e precoce critica della politica francese in Italia (cfr. M. ai Dieci, 21 nov. 1500, LCSG, 1° t., p. 525), nuova occasione di incontri diretti fu la legazione a Roma nell’autunno del 1503, nei giorni che precedettero e poi seguirono il conclave per la successione di Pio III. Con lui doveva trattare una questione di diretto interesse per Firenze (una condotta per Giampaolo Baglioni), ma ovviamente ne seguì con attenzione le trame in vista del conclave. In esse, riferiva M., «Roano si è travagliato forte» (30 ott. 1503, LCSG, 3° t., p. 308), sebbene ne registrasse poi la sostanziale resa: A. cedeva in effetti alla più abile tessitura diplomatica del cardinale Della Rovere, accorgendosi peraltro della slealtà di Ascanio Sforza: «Roano vi si è gittato [al sostegno del Della Rovere] perché gli è stato messo sospetto di Ascanio» (1° nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 311). Incontrandolo più volte in quei giorni M. poté assistere anche a come A. giocasse poco abilmente la carta dell’uscita di scena di Cesare Borgia, che protesse bensì, ma senza riuscire a ottener nulla dai cardinali spagnoli da lui controllati (cfr. Principe vii 47).
Un’altra occasione d’incontro personale fu nel gennaio successivo, a Lione, dove M. raggiungeva l’ambasciatore Niccolò Valori: quest’ultimo ha lasciato un vivace resoconto dello scambio tra M. e A. (cfr. la lett. del 29 genn. 1504 in N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, 1964, pp. 759-61). Come già nell’autunno precedente a Roma, anche in questa breve missione M. poté constatare il rafforzarsi in A. di una notevole animosità antiveneziana.
Giungendo in Francia per la terza volta a poche settimane dalla morte di A., a M. accadde di pronunciare un elogio postumo della sua grande applicazione al lavoro politico: E Dio voglia che il tempo non scopra a danno del Re e d’altri quello importi essere morto el Legato; perché, vivente lui, Ferrara non pativa mai tanto. Perché il Re, non sendo, vivente Roano, uso a governare minutamente queste cose, le stracura; e questi che lo governono ora non pigliono per loro medesimi autorità veruna non che fare, ma di ricordare che si facci. E così mentre che ’l medico non vi pensa ed il servigiale lo stracura, lo ’nfermo si muore (2 sett. 1510, in LCSG, 6° t. p. 534).
Aggiungeva quindi, nella medesima lettera, il parere di uno dei membri più influenti della corte, Florimond Robertet, anch’egli del partito filofiorentino:
E parlando io oggi con Rubertet, venne uno dipintore che li portò la immagine del Legato morto, in su la quale dopo un sospiro disse: “Se tu fussi vivo, noi saremo con il nostro esercito a Roma”, le quali parole mi confermono più in quello che sopra è detto.
Nel Principe A. spicca come il silente destinatario di una risentita e sferzante replica che M. stesso narra di avergli rivolta in un colloquio che ebbe luogo durante la sua prima legazione in Francia, presumibilmente ai primi di novembre del 1500: dicendomi el cardinale di Roano che gli italiani non si intendevano della guerra, io gli risposi che ’ franzesi non si intendevano dello stato: perché, s’e’ se ne ’ntendessino, non lascerebbono venire in tanta grandezza la Chiesa. E per esperienza si è visto che la grandezza in Italia di quella e di Spagna è stata causata da Francia, e la ruina sua è suta causata da loro (Principe iii 48-49).
È ben probabile che qui l’«esperienza» di cui poi si era fatta prova prema sul ricordo di M. e alteri in qualche misura i termini effettivi di quello che dovette essere il reale colloquio, poiché nell’autunno del 1500 difficilmente M. avrebbe già potuto parlare della «tanta grandezza» della Chiesa. Tale «grandezza» era piuttosto il risultato – dopo l’avventura borgesca e dopo il papato di Giulio II – della poco avveduta politica francese in Italia, di cui tratta nel suo insieme quel capitolo del Principe; «grandezza» messa a fuoco poco oltre, nel cap. xi, dove in effetti si dice che della Chiesa, «venuta a tanta grandezza» (si noterà la ripresa letterale dei termini del cap. iii), «ora uno re di Francia ne trema» (Principe xi 5). Ma la lieve alterazione si giustifica bene passionalmente, poiché per M. – dopo che gli esiti della lega di Cambrai, voluta da Giulio II e assecondata da A., avevano condotto all’annientamento della presenza veneziana in terraferma, e quindi, con la successiva lega Santa, alla catastrofe per la Francia della battaglia di Ravenna – era stata anche questione della rovina della Firenze soderiniana e sua personale. Insomma, gli ‘errori’ della politica italiana di Luigi XII erano stati piuttosto gli ‘errori’ di A., e quanto mai suo il sesto e fatale, quello «di tòrre lo stato a’ viniziani» (cfr. Principe iii 43). Pertanto il capitolo che quegli errori discute con ampiezza, facendone un caso esemplarmente negativo, può ben chiudersi con il ricordo della ‘lezione’ impartita all’arrogante prelato francese; ricordo che erroneamente anticipa, includendola nella ‘lezione’, la conferma che il corso delle cose avrebbe offerta.
Bibliografia: Lettres du Roy Louis XII et du Cardinal George d’Amboise, avec plusieurs autres lettres, mémoires et instructions écrites depuis 1504 jusques et compris 1514, 4 voll., Brusselle 1712; L. Le Gendre, Vie du Cardinal d’Amboise, premier ministre de Louis XII, Rouen 1724; L. de Bellesrives, Le Cardinal Georges d’Amboise
ministre de Louis XII, Limoges 1853; A. Renaudet, Pré-réforme et humanisme à Paris pendant les premières guerres d’Italie (1494-1517), Paris 1916; F. Chabod, Amboise, Georges d’, in Enciclopedia italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1929, ad vocem; B. Quilliet, Louis XII, père du peuple, Paris 1986; Y. Bottineau-Fuchs, Georges 1er d’Amboise (1460-1510). Un prélat normand de la Renaissance, Rouen 2005.