Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I dipinti di La Tour sono fra le cose assolute del Seicento: in area francese egli è senz’altro il pittore più grande, insieme a Poussin. Enigmatica però è la sua vicenda culturale e biografica, che non offre elementi concreti per ancorare la sua solitaria grandezza a esperienze vissute. Ricostruirne il percorso è difficile: di lui si conoscono non più di quaranta opere, due sole datate. Ma ancor più ardua è la lettura di La Tour interpretato ora come un grande realista, ora come un formalista supremo affascinato della spoglia bellezza delle forme geometriche.
La riscoperta di Georges de La Tour è tutta del Novecento, anche se letterati come Mérimée, Taine e Stendhal avevano colto in precedenza la straordinaria bellezza di alcuni dipinti (Il neonato, Il suonatore di ghironda, Giobbe deriso dalla moglie) non più collegati a una figura storica. Di La Tour si era perduto anche il nome.
È il grande storico dell’arte tedesco Hermann Voss, nel 1915 e poi nel 1928, a recuperare e confrontare documenti d’archivio e dipinti firmati, dando il via a nuove ricerche e preparando la “resurrezione” del pittore all’esposizione parigina del 1934 (Peintres de la realité) curata dallo storico dell’arte Charles Sterling.
Per capire l’immenso successo dei tredici quadri di Georges de La Tour presentati alla mostra da Sterling, basta leggere gli appassionati interventi degli specialisti, da Roberto Longhi al collezionista olandese Vitale Bloch.
Ma la rivelazione La Tour, che allora finisce per eclissare anche la poesia appartata e profonda di un pittore come Louis Le Nain, risulta folgorante anche sul versante contemporaneo.
Sono anzi i formalisti del Novecento, gli ultimi cubisti e i pittori metafisici, a decretare la sua atemporale grandezza, ritrovando in La Tour l’origine illustre di alcune moderne tendenze arcaizzanti. Si tratta senza dubbio di una forzatura.
Ma ogni riscoperta (da Masaccio a Piero della Francesca, per riferirci alla storia di questo secolo) scaturisce da situazioni che la cultura e gli artisti vivono come, in qualche modo, simpatetiche. Nel caso specifico, l’appropriazione di Georges de La Tour appariva legittima e appetibile per la scarsità di notizie, di dipinti datati, e per la difficoltà a ricostruirne il percorso. Un’interpretazione attualizzata e arbitraria, da parte degli artisti del Novecento, è infatti resa possibile dai “buchi neri” della sua misteriosa vicenda.
Nonostante gli studi approfonditi e recenti, si pensi alle grandi mostre dedicate a La Tour dalle città di Parigi (1972) e Nancy (1993), sono molti gli interrogativi che ancora resistono. A cominciare dall’entità della sua produzione, che non arriva oggi a quaranta dipinti, pochi davvero per un pittore che ebbe fortuna e successo fino a diventare “pittore del re” (il titolo gli è attribuito da Luigi XIII nel 1639), e che vive per sessant’anni.
Opere difficili, ermetiche, che si recuperano assai lentamente.
Due sole sono state ritrovate in vent’anni: I mangiatori di piselli del Museo di Berlino (identificato a Lugano nel 1975) e Il suonatore di ghironda del Museo del Prado, acquistato sul mercato londinese nel 1991.
Opere difficili da decifrare (l’interpretazione dei soggetti è spesso controversa) e difficili da collocare nella cultura francese del XVII secolo.
La Tour resta infatti un genio solitario, enigmatico, anche se oggi si conosce molto meglio “il contesto”, cioè la storia della Lorena, dove il pittore ha sempre vissuto con l’unico stacco di un viaggio a Parigi (1639-1640).
Terra di confine fra Fiandre e Germania, devastata da guerre e saccheggi, insanguinata dall’occupazione francese e poi dalla rivolta dei legittimisti ducali, la Lorena ha in quegli anni una storia drammatica. Che rimane esterna all’artista La Tour, segnando assai poco la sua pittura.
Essa nemmeno sembra riflettere quell’esistenza tormentata e crudele che si può intuire dai documenti: vi si registrano guerre, processi, pestilenze, questioni di soldi, dieci gravidanze di Diane de La Tour, la morte di sette figli.
Non è facile spiegare La Tour, ricostruire la sua formazione.
Nella critica ci sono stati violenti contrasti, ma su un punto erano tutti d’accordo: che La Tour avesse effettuato un viaggio iniziatico, decisivo per la sua educazione, per certi aspetti caravaggesca. Un viaggio a Roma nel primo Seicento (anteriormente al 1616, quando il pittore è documentato a Vic, in Lorena) o invece un viaggio nella vicinissima Olanda. Comunque un’esperienza personale e diretta alle sorgenti del naturalismo moderno, studiato sul Caravaggio in Italia o sui pittori olandesi della scuola di Utrecht.
Questi riferimenti sono ancora accettabili, ma il pittore, “vero gentiluomo mascherato del caravaggismo” (Longhi), non rivela citazioni precise.
I suoi neologismi sono anzi così provocanti, e così privi di pur lontane ascendenze, da non escludere che della pittura contemporanea egli avesse una conoscenza mediata, a distanza.
Del resto in Lorena l’esempio di Jacques Bellange, il più stralunato ed eccentrico fra i manieristi della generazione che precede La Tour, e la presenza di un’opera del Caravaggio (l’Annunciazione arrivata a Nancy già prima del 1616) erano testimonianze di eccezionale risalto, in grado di “aprire” sulle novità dell’Europa.
Le opere giovanili di Georges de La Tour rivelano la conoscenza del naturalismo caravaggesco, interpretato in una chiave nordica, fra Ter Brugghen e Gerrit van Honthorst: una luce fredda e impietosa, un realismo quasi brutale e in più una fortissima stilizzazione, dato personale di questo pittore.
Il primo dipinto che si conosca, secondo la cronologia fissata dall’esposizione del 1993, sarebbe Il denaro versato della pinacoteca di L’vov, in Ucraina.
Un “notturno” (non si sa se sacro o profano), segnato dall’influenza di Jacques Bellange e dai primi effetti del Caravaggio.
Ma la data, assolutamente illeggibile, posta accanto alla firma sulla sinistra del quadro, è stata a lungo interpretata come 1641 o 1642, facendo in tal modo scivolare la tela verso la maturità del pittore e provando quanto sia difficile ricostruire un percorso, che procede autonomo, con grande audacia e che può contare su due soli dipinti datati: le Lacrime di Pietro del 1645 e la Negazione di Pietro del 1650.
Uno splendido capolavoro, La buona ventura, oggi a New York, è stato addirittura attaccato come falso novecentesco per l’eccezionalità delle soluzioni: l’abbigliamento insolito della vecchia zingara, l’eccentricità delle stoffe a disegni zoomorfi.
Poi i documenti notarili hanno provato la presenza del quadro in collezioni antiche e sottolineato la creatività di La Tour, il quale punta a una definizione di forme impeccabili (l’ovale perfetto “come un uovo di struzzo” della giovane al centro), alla geometrizzazione dello spazio, alla rivelazione di arcane simmetrie che collocano il dipinto in una dimensione atemporale.
Anche in questo caso, l’interpretazione del soggetto non è univoca.
È il tema della “buona ventura”, rilanciato da due celebri tele del Caravaggio: una zingara legge la mano al giovane borghese, mentre altre complici lo derubano.
Ma c’è forse anche un’allusione alla parabola del figliol prodigo e al tema molto secentesco della vanitas.
In altre parole, c’è la volontà di trasporre la scena di genere e il suo pretesto aneddotico sul piano della riflessione morale, attribuendo all’immagine una valenza eterna, universale.
La serie di dipinti esaminata finora è in gran parte ambientata nella luce diurna, una luce cruda, spietata, che non lascia spazio al calore umano, a quel sentimento di solidarietà nei confronti delle classi più umili che traspare invece nelle scene di genere dei fratelli Le Nain. Ma c’è una sequenza di notturni stupendi cui è legata la fama del pittore La Tour.
Ne sono conquistati i contemporanei, a cominciare dal re Luigi XIII che, invaghitosi di un San Sebastiano agonizzante al lume delle torce, aveva allontanato ogni altro dipinto perché quella “notte” di Georges de La Tour colmasse il vuoto della sua stanza.
Questi notturni, che in gran parte si scalano nella fase matura dell’attività del pittore, sono costruiti sulla gamma incandescente dei rossi, con rarissimi tocchi di blu, di verde, di giallo.
Le forme sono semplificate, scultoree; i gesti lenti, primordiali, entro uno spazio atono, rarefatto.
Il neonato, che aveva ispirato una pagina di Hippolyte Taine (“... la fronte senza capelli, gli occhi privi di ciglia, il labbro inferiore inerte... e quello sprofondare primitivo nella vita vegetativa...”, 1863), è ancora un esempio di come una scena quotidiana e banale possa acquistare sacralità e tensione spirituale.
Esso si pone a una distanza incolmabile dai molti dipinti “a lume di notte”, prodotti dalla cerchia dei pittori olandesi, educatisi in Roma alla “manfrediana methodus”. C’è poi la serie delle Maddalene che meditano in solitudine sulla vanità e la fragilità delle cose: nella riduzione dei mezzi espressivi, la stilizzazione delle forme si fa più decisa fino ad imprimere alle cose di sempre (i libri, la candela, le ginocchia di Maddalena, nella Maddalena penitente), una semplificazione provocatoriamente definita “cubista”.
Seguono altri capolavori, fra i suoi straordinari notturni: San Giuseppe falegname, la Donna che si spulcia, Giobbe deriso dalla moglie e soprattutto Un angelo appare a San Giuseppe, dove, nella penombra e nel silenzio infinito, il ragazzo non ha più bisogno di ali per essere un angelo e introdurre al mistero del soprannaturale.
Di La Tour non esiste un ritratto, non c’è un aneddoto e nemmeno una lettera, come invece ha lasciato a più riprese Poussin, l’altro grande francese del secolo. Le firme sulle sue tele sono di rara bellezza. Sembrano esercizi di calligrafia usciti da uno scrittorio del gotico.
Si può immaginare che fosse colto, che avesse amicizie intellettuali, individuate da alcuni negli ambienti dello stoicismo, da altri fra i Francescani, cui si deve la ripresa del misticismo in Lorena.