DANTON, Georges-Jacques
Nato ad Arcis-sur-Aube, il 20 ottobre 1759; morto sulla ghigliottina, a Parigi, il 6 aprile 1794 (16 germinale a. II). Fu uno degl'individui più rappresentativi della rivoluzione; l'unico che, dopo la morte del Mirabeau, abbia rivelato, benché tra molte ombre e lacune, reali attitudini di uomo di governo. Uscito da famiglia borghese di provincia, dopo essere stato allevato in un collegio degli oratoriani di Troyes, era venuto a Parigi nel 1780 per cercarvi fortuna nella professione forense. Il 1789 lo aveva trovato da qualche anno accasato e in possesso di una carica di avvocato al Consiglio del re. Non tardò a essere travolto dal vortice della rivoluzione, trascinatovi, non tanto da preoccupazioni d'indole teorica o dogmatica, quanto dal suo istinto di uomo d'azione e dal suo intuito politico. Nulla in lui del fanatismo giacobino per le formule universalistiche e astratte, ma un senso preciso della realtà e una straordinaria attitudine a interpretare e dominare le passioni delle folle.
Sin dall'estate del 1789, era apparso in primissima linea, con Marat, Camille Desmoulins, Hébert, Chaumette, Brune, Legendre tra gli agitatori più popolari e ascoltati del distretto, poi club dei cordiglieri, ispirandone e dirigendone la lotta, ingaggiata nell'autunno, contro i cosiddetti moderati del Comune di Parigi, Bailly e La Fayette. Una procedura, intentatagli nei primi mesi del '90, per avere egli impedito nell'ottobre precedente l'esecuzione di un decreto di arresto lanciato contro Marat, lo aveva reso famoso in tutta Parigi. La sua crescente influenza sugli elementi più torbidi e inquieti del popolo parigino, influenza non scossa dalle voci, non del tutto infondate, di venalità e di corruzione messe in giro contro di lui dai moderati, e specialmente dal La Fayette, era dovuta, non meno alle sue qualità fisiche, alla massiccia vigoria della persona, alla bruttezza suggestiva del volto butterato dal vaiolo, alla voce stentorea, che alla suggestione morale esercitata dalla sua consueta audacia di parole e di gesti. Già sin da allora era evidente un'insuperabile antitesi di temperamento tra lui e Robespierre: mentre questi, all'Assemblea costituente o al club dei giacobini, predicava o dissertava, Danton agiva e trascinava le masse all'azione.
Lo si trovò, il 18 aprile 1791, a capo della folla che impedì tumultuando a Luigi XVI di recarsi per la Pasqua a Saint-Cloud. Poco dopo, in seguito alla fuga e all'arresto del re a Varennes, fu tra i primissimi ad avvertire irreparabile il crollo dell'autorità monarchica e a parlare, a voce alta, di repubblica. L'insuccesso del pronunciamento repubblicano, organizzato, il 17 luglio '91, al campo di Marte, lo costrinse per qualche tempo a cercar riparo, prima ad Arcis, poi in Inghilterra. Ma pochi mesi dopo, nell'inverno 1791-92, era di nuovo ad Parigi: ed era, con Pétion e Manuel, padrone del Comune, donde organizzava e garantiva alla sinistra dell'Assemblea legislativa (girondini e giacobini), nei momenti critici, l'appoggio decisivo delle forze rivoluzionarie della città. Nessuno ebbe più di lui, nei primi mesi del '92, la percezione esatta della fondamentale incoerenza della costituzione del'91, e della organica impotenza della monarchia a dominare gli eventi. D'accordo coi girondini, e contro il dottrinarismo astratto di Robespierre, aderì immediatamente al partito della guerra, avvertendone però, assai più di quelli, il valore dinamico e la funzione nazionale. La tragica crisi della primavera e dell'estate del '92 lo trovò impegnato a fondo, a fianco della Gironda, nella lotta contro la monarchia oscillante e ambigua e per la difesa a oltranza della rivoluzione insidiata e della Francia invasa. Ma, mentre i girondini tendevano a esaurire l'audacia in parole, D. affilava le armi per l'azione risolutiva. Fallita la giornata girondina del 20 giugno, egli accentrò in sé, facendo soprattutto leva dei suoi cordiglieri, l'iniziativa insurrezionale. Il 10 agosto, cioè la caduta della monarchia, fu in massima parte opera sua, e gli diede in mano il potere.
Per due mesi, dall'11 agosto al 12 ottobre, egli, ministro della Giustizia, personificò il governo della Francia in uno dei momenti più tragici della sua storia, imponendo la sua volontà in tutti gli altri dicasteri, specialmente in quelli della Guerra e degli Esteri, e gettando le basi della politica della Francia rivoluzionaria di fronte all'Europa monarchica. A presupposto della sua azione di governo, pose il riconoscimento esplicito che il partito della repubblica, pure essendo un partito di estrema minoranza nel paese, era l'unico su cui la Francia potesse contare per tener testa all'invasore, e che Parigi, centro vitale della Francia, cuore della rivoluzione, era l'unico punto, da cui la Francia e la rivoluzione potessero vittoriosamente difendersi. Di qui, i due corollari della sua politica: respingere, con la leva in massa e l'accorrere di volontarî, l'invasione del nemico esterno, alla frontiera: paralizzare, con la minaccia del terrore, i conati del nemico interno, nella capitale. Mentre perciò avviava a decine di migliaia i giovani al fronte, fece approvare, il 26 agosto, dall'Assemblea, il decreto sulle visite domiciliari per la requisizione delle armi e sull'arresto dei sospetti. Sennonché, egli aveva appena forgiato lo strumento per minacciare il terrore, che già esso, per sventura sua e della repubblica, gli sfuggiva di mano. Del decreto del 26 agosto s'impadronirono, approfittando del panico universalmente diffuso, i marattisti sanguinarî e fanatici, insediatisi, durante il 10 agosto, al comune di Parigi, per organizzare con fredda ferocia, tra il 2 e il 6 settembre, l'efferato massacro degli arrestati.
Delle stragi settembrine, svoltesi sotto gli occhi del potere esecutivo impotente ad agire, D. non era, in realtà, molto più corresponsabile di quanto lo fossero gli altri membri del governo, e specialmente il ministro per gl'Interni, il dottrinario Roland. Ma egli ebbe il torto - per impedire che si facesse il processo alla rivoluzione, e nell'illusione che ciò gli servisse a conservare il proprio prestigio sugli elementi estremisti di questa - di rivendicarne poi, a cose fatte, con apparentemente cinica iattanza, una solidarietà che gli era estranea. Ciò non gli servì - non appena, come deputato di Parigi alla Convenzione, uscì dal governo, - che ad isolarlo, tanto di fronte alla pruderie dei girondini, quanto di fronte all'intransigenza settaria dei montagnardi, impedendogli di assumere, come avrebbe voluto, nella Convenzione, il compito di arbitro e capo d'una maggioranza moderatrice, che concludesse con la clemenza di un forte governo unitario, la rivoluzione e perseguisse a fondo la guerra e le trattative diplomatiche per la pace e la potenza della Francia. Era una specie di ripresa, su nuove basi, del programma già tentato da Mirabeau nella prima fase della rivoluzione. Ma esso presupponeva il raccogliersi, intorno a D., di un blocco nazionale, di cui fosse centro la Gironda, e che sapesse attrarre e piegare a sé la massa paurosa e oscillante della Pianura. Il partito della Gironda, cedendo all'irriducibile antipatia femminile di Madame Roland per la spregiudicata e popolaresca violenza del demagogo di Parigi, si assunse la responsabilità di respingere le ripetute e cordiali offerte di pace di D., costringendolo, contro voglia, a gravitare di nuovo verso gli uomini della Montagna e del Comune. Tornato suo malgrado estremista, cooperò, soffrendone come d'irreparabile sventura, alla rovina dei girondini e, riapparsi minacciosi, con la primavera del '93, ai confini della repubblica, gli eserciti della coalizione, determinò, con l'efficacia della sua parola, oltre la leva di 300.000 uomini nell'aprile, l'adozione delle misure più audaci, che egli aveva dirette a irrigidire il paese nella resistenza a qualunque costo al nemico esterno, ed erano invece destinate a trasformarsi, nelle mani di Robespierre e dei suoi, in strumenti di terrore fazioso, quali l'istituzione del Tribunale rivoluzionario e la dittatura del Comitato di salute pubblica.
Ma la politica del Terrore era subita, non voluta da D., né egli, ordinariamente pigro e volubile, e soprattutto amante della tranquilla vita di famiglia (vedovo, nel febbraio del '93, dell'amatissima Gabrielle Charpentier, si era risposato per amore nel luglio, in pieno Terrore, con la sedicenne Louise Gely), aveva l'ambizione di dominare le assemblee e tener testa alle gelosie e alle vendette delle fazioni scatenate. La politica lo stancava e nauseava, più spesso di quanto non lo attirasse. Di qui, le disuguaglianze, le incertezze, le assenze, che dovevano fatalmente esporlo inerme all'agguato degli avversarî. A partire dal novembre del '93, egli si sentì circuito da una coalizione di hébertisti e di robespierristi, cospiranti a eliminarlo dalla scena politica. Sdegnò di parare il colpo o di apprestare le difese. Robespierre lo fece arrestare il 31 marzo 1794 e lo trascinò al patibolo sotto l'accusa di cospirazione.
Bibl.: Due interpretazioni opposte si son date della personalità di D. Secondo la prima, D. sarebbe stato un ardente democratico, un sincero patriota, un grande uomo di stato (Robinet, D., Mémoires sur sa vie privée, Parigi 1865, 3ª ed., 1884; id., Procés des Dantonistes, Parigi 1879; id., D. émigré, Parigi 1887; id., D. homme d'État, Parigi 1889; A. Aulard, Les orateurs de la Législative et de la Convention, Parigi 1885, 2ª ed., 1906, II, pp. 165-225; id., Études et leçons sur l'hist. de la Rév. française, Parigi, I, 1893; II, 1889; IV, 1904; V, 1907; IX, 1924). Secondo l'altra interpretazione, D. sarebbe stato un politico senza scrupoli, senza ideali, corrotto (Mathiez, Études robespierristes, I, Parigi 1917, pp. 31-134; id., Danton et la paix, Parigi 1919; id., Autour de D., Parigi 1926; id., D. L'histoire et la légende, in Annales historique de la Rev. franç., IV, pagine 417-61). Un tentativo di conciliazione tra le due tesi rappresenta L. Madelin, Danton, Parigi 1914. In italiano non v'è di notevole che Gen. Filareti, (pseud. di A.C. Alemagna), D. e Robespierre, Milano 1922.