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La Georgia ha proclamato l’indipendenza dall’Unione Sovietica nell’aprile del 1991, avviando un difficile percorso di costruzione statale e nazionale caratterizzato dal tentativo di affrancarsi dalla tradizionale influenza di Mosca e, contemporaneamente, di contrastare le forze centrifughe interne che ne minacciavano l’integrità territoriale e la sovranità. Come altre repubbliche emerse dalla dissoluzione sovietica, la Georgia ha dovuto infatti contrastare istanze secessionistiche affiorate contestualmente alla fondazione dello stato nazionale in regioni abitate da minoranze etniche, linguistiche o confessionali. È questo il caso, in particolare, dell’Abkhazia e dell’Ossezia Meridionale, che nella Repubblica Socialista Sovietica di Georgia godevano rispettivamente dello status di repubblica e regione autonoma. Queste risposero ai primi segnali di disgregazione sovietica con richieste di maggior autonomia, sfociate dopo il 1991 in aperti conflitti etno-territoriali con le autorità di Tbilisi.
Agli accordi per il cessate il fuoco, siglati dal governo georgiano con i separatisti osseti (giugno 1992) e abkhazi (maggio 1994), non è tuttavia seguito un vero negoziato di pace. Si è così generato un precario scollamento tra il controllo de facto delle regioni da parte delle autorità separatiste e la sovranità de jure su di esse, riconosciuta a Tbilisi. Su questo sfondo, il tentativo georgiano di riguadagnare militarmente il controllo sull’Ossezia Meridionale ha portato, nell’agosto 2008, al conflitto con la Federazione Russa, arbitro della sorte delle regioni separatiste sin dalla fase immediatamente successiva alla svolta del 1991. I conflitti dei primi anni Novanta hanno infatti rappresentato delle ‘guerre per procura’ attraverso le quali Mosca – sostenendo i separatisti prima e mediando gli accordi per il cessate il fuoco poi – si è ritagliata uno spazio di influenza nei confronti del più filo-occidentale tra gli stati non europei emersi dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
L’adesione alla Comunità degli stati indipendenti (Cis), l’accettazione di truppe di peacekeeping russe e la concessione di quattro basi militari rappresentarono il prezzo pagato da Tbilisi a Mosca per la cessazione delle ostilità. Su questo sfondo, la débâcle militare dell’agosto 2008 ha avuto conseguenze profonde sul processo di state-building georgiano, reso oggi più difficile dal riconoscimento delle auto-proclamate repubbliche di Abkhazia e Ossezia Meridionale da parte di Federazione Russa, Nicaragua, Venezuela e Nauru.
A guidare il paese nella difficile fase post-indipendentista è stato Eduard Shevardnadze. L’ex ministro degli esteri sovietico ha monopolizzato la vita della repubblica tra il marzo 1992, quando ha assunto la carica di primo ministro, e il novembre 2003, quando la ‘rivoluzione delle rose’ ha posto prematuramente fine al suo secondo mandato presidenziale, aprendo la strada all’affermazione politica di Mikheil Saakashvili. Leader e fondatore del Movimento nazionale unito, partito liberal-conservatore che dalle elezioni del 2004 detiene una solida maggioranza parlamentare, nel gennaio 2008 Saakashvili ha ottenuto il secondo mandato quinquennale alla presidenza. Ciò gli ha concesso di rafforzare i poteri della presidenza e di accelerare il percorso d’avvicinamento alle strutture euro-atlantiche, avanzando domanda di ammissione alla Nato, aderendo al Partenariato orientale dell’Unione Europea e mettendo parallelamente fine, nell’agosto 2009, alla partecipazione della Georgia alla Cis.
La ‘guerra dei cinque giorni’ tra Georgia e Russia (7-12 agosto 2008) è stata provocata dal tentativo di Tbilisi di riacquistare militarmente il controllo della regione separatista dell’Ossezia Meridionale. Dopo il conflitto del 1991-92, le autorità ossete hanno infatti avviato un processo di costruzione statale e istituzionale nella regione, culminato con il referendum sull’indipendenza del novembre 2006. A rendere possibile tale processo è stato principalmente il sostegno politico ed economico della Federazione Russa, le cui truppe di peacekeeping erano state peraltro dispiegate sul territorio nel 1992 a seguito della fine delle ostilità. Come nel caso dell’Abkhazia, inoltre, la Russia ha concesso la propria cittadinanza alla quasi totalità della popolazione osseta. Rispetto al conflitto del 2008, tale circostanza rileva nella misura in cui l’intervento russo è stato giustificato dalla necessità di proteggere i propri cittadini e le proprie truppe dall’aggressione georgiana. Dopo cinque giorni di conflitto - durante i quali le forze abkhaze hanno appoggiato il contrattacco russo-osseto, che ha ricacciato le forze georgiane al di là delle linee inizialmente controllate - il 12 agosto le parti hanno sottoscritto un accordo per il cessate il fuoco mediato dall’Unione Europea. Benché le truppe russe si siano ritirate dai territori georgiani occupati, esse hanno mantenuto le posizioni acquisite in Ossezia Meridionale. Dopo aver riconosciuto ufficialmente la Repubblica di Ossezia, la Russia ha inoltre siglato con essa un accordo per il pattugliamento congiunto della frontiera osseto-georgiana e per la concessione di una base militare, opponendosi al contempo, a partire dal 1° gennaio 2009, al rinnovo della missione di monitoraggio Osce, attiva nella regione sin dal 1992. Dal settembre 2008 in Georgia è presente una missione civile europea di monitoraggio, la European Union Monitoring Mission, con compiti di stabilizzazione, normalizzazione e confidence building.
Un rapporto commissionato dal Consiglio dell’Eu e pubblicato nel settembre 2009 ha imputato alla Georgia la responsabilità del conflitto, condannando al contempo la ‘sproporzionata’ reazione russa.
La Georgia costituisce uno spaccato del crogiolo di etnie proprio della regione caucasica. Benché la maggioranza della popolazione – circa il 70% – sia etnicamente georgiana, sono presenti circa un’ottantina di nazionalità differenti, le maggiori delle quali sono quelle Armena (8%), Russa (6%), Azera (6%), Osseta (3%), Greca (2%) e Abkhaza (2%). Come nel caso di Abkhazia e Ossezia, la concentrazione delle minoranze armene e azere in regioni di confine, rispettivamente in Javakheti e ;Kvemo Kartli, ha generato tensioni interetniche e richieste di maggior autonomia dal governo centrale.
Ciò si è verificato anche nel caso dell’Agiara, regione etnicamente georgiana la cui popolazione, convertita all’Islam nel corso del dominio ottomano, ha lungamente beneficiato di un’autonomia basata sull’appartenenza religiosa. In un paese prevalentemente cristiano-ortodosso, i musulmani rappresentano la principale minoranza religiosa (circa il 10% della popolazione) e tuttavia sono presenti anche minoranze armeno-gregoriane e cattoliche. Una problematica che affligge la Georgia – e diretta conseguenza dei conflitti etno-territoriali che hanno interessato il paese – è quella legata ai rifugiati. Al gennaio 2011, circa 350.000 persone risultavano sfollate e in condizioni di vita particolarmente difficili.
La ‘rivoluzione delle rose’, la prima delle incruente ‘rivoluzioni colorate’ che hanno interessato lo spazio post-sovietico nel triennio 2003-05, aveva suscitato grandi speranze tra le cancellerie occidentali circa le possibilità di rinnovamento della corrotta e autoritaria classe dirigente dell’area. Definita dall’allora presidente statunitense George W. Bush un ‘faro di libertà per la regione e per il mondo’, la Georgia ha tuttavia disatteso le aspettative di democratizzazione. La piaga della corruzione non è stata sufficientemente combattuta, il potere giudiziario non è libero da pressioni politiche e i processi elettorali non raggiungono ancora gli standard di trasparenza, libertà e correttezza internazionalmente riconosciuti. Inoltre, gli emendamenti costituzionali approvati dopo il 2003 si sono tradotti in un netto rafforzamento delle prerogative dell’esecutivo a scapito del legislativo, rafforzando un potere non esente da derive autoritarie.
A seguito delle manifestazioni anti-governative della primavera del 2009, la necessità di riequilibrare le prerogative e l’indipendenza dei tre poteri dello stato è stata oggetto di un pacchetto di emendamenti costituzionali che, approvati nell’ottobre 2010, entreranno in vigore nel 2013, a seguito delle prossime elezioni legislative e presidenziali. Le principali innovazioni della riforma consistono nell’introduzione di un rapporto fiduciario tra parlamento ed esecutivo e nel rafforzamento dei poteri del primo ministro rispetto a quelli del presidente della repubblica.
Chiusa la fase di profonda instabilità interna dei primi anni Novanta, i governi georgiani hanno attuato un’efficace politica di transizione verso il libero mercato, attraverso la privatizzazione delle imprese pubbliche e successive riforme fiscali e finanziarie. A partire dal 2000, l’economia ha così registrato rilevanti tassi di crescita, salvo risentire degli effetti negativi della crisi internazionale. Questa ha colpito in particolar modo l’afflusso di rimesse e di investimenti dall’estero (ide), che costituiscono tradizionalmente una rilevante fonte di capitali per lo sviluppo economico georgiano. Nel 2009 gli ide – provenienti principalmente dagli Emirati Arabi e dall’Egitto – si sono attestati a 759 milioni di dollari, contro i due miliardi del 2007 e il miliardo e mezzo del 2008.
Paese ricco di risorse idroelettriche ma povero di idrocarburi, la Georgia importa la quasi totalità del petrolio e del gas di cui necessita. Tradizionalmente dipendente dagli approvvigionamenti energetici russi, la Georgia ha unito la necessità di diversificazione dei fornitori di idrocarburi alla possibilità di acquisire un ruolo chiave nel transito di risorse energetiche tra il Caspio e i mercati occidentali. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la Georgia è così assurta a snodo geografico della direttrice energetica tra Azerbaigian e Turchia, lungo la quale sono stati costruiti l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (2005) e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum (2006). Dal 1999 Azerbaigian e Georgia sono inoltre collegati dall’oleodotto che va da Baku al porto georgiano di Supsa, sul Mar Nero. Lungo la stessa direttrice è poi allo studio la possibilità di inaugurare una rotta d’esportazione di gas liquefatto verso la Romania (Azerbaigian-Georgia-Romania Interconnector, Agri). L’Azerbaigian rappresenta oggi il principale fornitore di gas e prodotti petroliferi alla Georgia.
A dimostrazione della crescente rilevanza dello snodo energetico georgiano, Tbilisi ospita l’ufficio di coordinamento per il Caucaso dell’Inogate, programma dell’Unione Europea finalizzato alla tutela della sicurezza energetica dello spazio comunitario e alla promozione della cooperazione con i paesi ex-sovietici e la Turchia.
Il contrasto delle forze secessionistiche e la presa di distanza dalla ridefinizione russocentrica dello spazio post-sovietico hanno costituito le priorità delle politiche di difesa georgiane sin dal conseguimento dell’indipendenza. Pietra angolare di questa politica è stato l’approfondimento della cooperazione alla sicurezza con gli Stati Uniti e il progressivo avvicinamento alla Nato, con l’obiettivo ultimo della piena integrazione nell’Alleanza. Membro della Partnership for Peace dal 1994, la Georgia ha aderito a tutti meccanismi di cooperazione tra la Nato e i partner esterni, prendendo inoltre parte alle missioni di peacekeeping in Kosovo, tra il 1999 e il 2008, e in Afghanistan. Con i circa 1000 soldati attualmente schierati nella missione International Security Assistance Force, la Georgia è il secondo paese contributore in relazione alla propria popolazione.
L’obiettivo ultimo dell’ingresso nella Nato, attraverso la sottoscrizione del Membership Action Plan (Map) con l’Alleanza, è tuttavia naufragato nel corso del summit di Bucarest del 2008. In quell’occasione, nonostante il fermo sostegno statunitense, i membri della Nato si sono mostrati recalcitranti nell’accordare il Map a Georgia e Ucraina, limitandosi a rilasciare una dichiarazione di principio sulla futura membership dei due paesi. A pesare in maniera decisiva sulla decisione di rimandare sine die l’ingresso di Georgia e Ucraina nella Nato è stata anzitutto la dura opposizione della Russia alla prospettiva di un ulteriore allargamento dell’Alleanza verso est. D’altra parte, a pochi mesi di distanza dal summit di Bucarest, il conflitto russo-georgiano sembra aver tracciato un’invalicabile linea rossa rispetto alle possibilità di ulteriore penetrazione della Nato nello spazio post-sovietico.
La battuta d’arresto nel percorso d’avvicinamento della Georgia alla Nato non ha tuttavia impedito il rafforzamento della cooperazione bilaterale alla sicurezza con gli Stati Uniti. Sin dal 2001 Washington e Tbilisi hanno attivamente collaborato nella lotta al terrorismo internazionale. Il Dipartimento della difesa, in particolare, ha contribuito all’addestramento delle truppe di frontiera georgiane schierate al confine con la Cecenia. La sicurezza delle frontiere georgiane, d’altra parte, era stata al centro di diversi incidenti diplomatici tra Tbilisi e Mosca che, accusando la Georgia di garantire ai terroristi ceceni zone franche oltre confine, aveva effettuato a più riprese operazioni aeree in territorio georgiano. La Georgia, dal canto suo, ha fermamente appoggiato le iniziative regionali della Casa Bianca, a partire dall’operazione Iraqi Freedom cui ha contribuito, nella fase tra il 2003 e il 2008, con un massimo di 2000 soldati. Nel gennaio 2009 Stati Uniti e Georgia hanno sottoscritto la Carta per il partenariato strategico, attraverso la quale sono stati istituiti quattro gruppi di lavoro stabili per la cooperazione nel campo della difesa e della sicurezza, della democratizzazione, del commercio e dell’energia.
Nel settembre 2010 il governo georgiano ha approvato il Documento di valutazione delle minacce per il triennio 2010-13. La Russia, che mantiene una presenza militare in Ossezia e Abkhazia, è ancora considerata come la maggior minaccia alla sovranità georgiana e come il più rilevante ‘fattore di destabilizzazione politica, economica e sociale’.
L’Abkhazia ha proclamato unilateralmente la propria indipendenza dalla Georgia nell’ottobre 1999. Già nel novembre 1994, a pochi mesi di distanza dall’accordo per il cessate il fuoco mediato dalla Russia sotto l’egida della Nazioni Unite, l’Abkhazia si era tuttavia dotata di una propria costituzione e di organi statali. Isolata dalla comunità internazionale, la Repubblica di Abkhazia è sopravvissuta grazie al sostegno economico della Russia, che dal 2002 ha inoltre concesso la cittadinanza russa alla quasi totalità dei circa 200.000 abitanti della regione.
Non riconoscendo le autorità secessionistiche di Sukhumi, la Georgia ha sostenuto la formazione di un governo in esilio con sede a Tbilisi. Nel 2006, nel tentativo di riacquistare il controllo sulla regione, Saakashvili ha favorito il rientro del governo legittimo in Abkhazia, da dove è stato tuttavia espulso a seguito della ‘guerra dei cinque giorni’. Il sostegno assicurato da Mosca all’Abkhazia dopo il 2008 si è concretizzato, nel luglio 2009, nella decisione di bloccare in sede del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il rinnovo della missione di monitoraggio e polizia Unomig, schierata nel paese sin dal 1993. La Russia mantiene invece proprie truppe nella regione, acquartierate nella base di Gaudata. Dopo il formale riconoscimento russo della Repubblica di Abkhazia, Mosca e Sukhumi hanno sottoscritto un Accordo di amicizia, cooperazione e mutua assistenza (settembre 2008) e un accordo cinquantennale per la concessione di una base militare (febbraio 2010). Entrambi gli atti sono stati fermamente condannati dalle maggiori cancellerie occidentali e dalla Nato come violazione della sovranità georgiana e degli accordi per il cessate il fuoco successivi al conflitto dell’agosto 2008.