GERARCHIA (dal gr. γέρανος "governo, comando nelle cose sacre")
La parola fu usata in origine dai canonisti per designare il complesso delle persone investite di comando nelle cose sacre e il loro stesso ordinamento, ossia il principio della subordinazione delle autorità inferiori alle superiori. (Per la gerarchia ecclesiastica, v. cattolica, chiesa; per quella militare v. organica).
Gerarchia amministrativa. - il rapporto di subordinazione e supremazia, che unisce tra loro gli uffici delle varie amministrazioni dello stato, riducendo le medesime ad altrettante unità giuridiche; e indica pure queste stesse unità, in quanto appunto dovute al vincolo gerarchico, e in tal senso la parola è adoperata con riferimento a un'amministrazione determinata: gerarchia militare, gerarchia civile, dell'amministrazione dell'Interno, ecc.
Le autorità centrali e locali dell'amministrazione dello stato dovendo provvedere ai bisogni sociali, che non sono identici nei varî luoghi e nei varî tempi, godono tutte di una somma di potestà deliberativa e discrezionale. Ma tali autorità, che sono parti di un'unica amministrazione e agiscono per il conseguimento dei medesimi fini, sono sottoposte all'azione direttiva e coordinatrice degli organi superiori e soprattutto dei rispettivi ministeri, la cui opera è a sua volta unificata e indirizzata dagli organi supremi del potere esecutivo: la corona e il capo del governo. Siccome, peraltro, il vincolo che passa fra queste autorità supreme e i singoli ministri non può essere considerato di natura gerarchica, così la gerarchia ha inizio dai ministri e si estende, traverso un numero di gradi che varia secondo le amministrazioni, fino alle ultime autorità dell'ordinamento. Si hanno quindi tante gerarchie quanti sono i ministeri e, di regola, le autorità subordinate sono tutte autorità locali, cioè con poteri territorialmente circoscritti. Eccezionalmente, si possono avere organi subordinati nell'amministrazione centrale, quando un dato servizio (es. quello ferroviario, postale, ecc.) sia costituito in una direzione generale autonoma nel ministero di cui fa parte.
La gerarchia nel senso ora detto riguarda in modo tipico gli organi individuali. Anche gli organi collettivi, però, siano essi complessi o collegiali, fanno parte della gerarchia: i primi, formati da una pluralità di persone titolari di distinti uffici riuniti in un'unica istituzione, partecipano alla gerarchia per mezzo del loro capo d'ufficio; i secondi, formati da più persone costituenti organi deliberativi unitarî, vi partecipano nel loro complesso, rappresentato dal rispettivo presidente. Solo possiamo dire che per questi ultimi il vincolo gerarchico è più tenue e meno rigoroso che per gli organi burocratici. Invece, i singoli componenti dei due tipi d'istituzioni non partecipano alla gerarchia, intesa nel senso accennato di gerarchia di organi esterni, ma sottostanno ai poteri interni dell'istituzione di cui fanno parte.
Dei poteri spettanti al superiore gerarchico sulle autorità dipendenti, il più generale e fondamentale è quello di regolare per mezzo di norme generali e di ordini particolari la loro attività. Le prime, dette circolari, istruzioni e norme di servizio, nonostante la detta generalità, non hanno mai valore di norme giuridiche per i cittadini, limitando i loro effetti alla disciplina interna dell'amministrazione. Il potere dei superiori di comandare sia con tali atti sia con quelli particolari, implica il dovere degli inferiori di obbedire. Molto discussi sono i limiti che incontra quest'obbligo di obbedienza. Mentre è pacifico che esso vien meno quando l'ordine riguardi materia estranea all'ufficio o non sia dato nella debita forma (es. una lettera confidenziale in luogo dell'atto d'ufficio, la forma orale in luogo della scrittura, quando questa è prescritta), è dubbio se invece permanga nel caso d'incompetenza dell'autorità o di violazione intrinseca di una norma giuridica. L'art. 51 del codice penale 1930, più preciso in ciò dell'art. 49 del codice 1889 abrogato, dichiara responsabile penalmente chi abbia commesso un fatto costituente reato per ordine superiore, ma esclude tale responsabilità nel caso in cui la legge non consenta all'inferiore alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine ricevuto: il che avviene quando si tratta di organi meramente esecutivi, la cui competenza, cioè, è determinata col semplice dovere di eseguire gli ordini dati in forma legittima dai superiori. Questa categoria di organi è particolarmente estesa nella gerarchia militare, compresi gli organismi della forza pubblica, e ciò spiega come l'obbligo dell'obbedienza appaia in essa molto più rigoroso che nella gerarchia civile.
Gli altri poteri compresi nella supremazia gerarchica sono principalmente: 1) quello di risolvere gli eventuali conflitti, positivi e negativ., fra gli uffici dipendenti; 2) quello di riformare, revocare, annullare gli atti delle autorità inferiori in seguito al ricorso degl'interessati, quando questo non sia escluso da una norma speciale che dichiari definitivo il provvedimento dell'inferiore; eccezionalmente lo stesso potere può essere esercitato anche d'ufficio, quando la legge lo consenta in modo espresso o si tratti di atti emanati dall'inferiore per delega del superiore; 3) sempre eccezionale e solo basato su disposizioni speciali è il potere di delegare le proprie attribuzioni all'inferiore e di avocare a sé quelle di quest'ultimo. L'avocazione è altrimenti ammessa quando consista nella revoca di una facoltà legittimamente delegata; oppure sia giustificata dall'omissione dell'inferiore; 4) è infine potere normale e caratteristico d'ogni supremazia gerarchica quello d'invigilare e controllare la condotta degli organi dipendenti, sottoponendoli, ove occorra, a ispezioni e inchieste, nonché di applicare le sanzioni disciplinari di propria competenza e di denunziare alle autorità competenti quei fatti che importano l'applicazione delle sanzioni disciplinari maggiori o delle sanzioni civili o penali.
Bibl.: M. Giriodi, I pubblici uffici e la gerarchia amministrativa, in V. E. Orlando, Trattato di dir. amm., I, Milano 1897, p. 295; H. Preuss, Das städtische Amtsrecht, Lipsia 1902; P. Molliet, Le pouvoir hiérarchique, Parigi 1909; P. Kahn, Das besondere Gewaltverhältniss im öffentl. Recht, Baden-Baden 1912; G. Meyer, Deutsches Staatsrecht, 17ª ed., Monaco 1919, p. 593 segg.; L. Duguit, Traité de droit constitutionnel, 2ª ed., III, Parigi 1923, p. 248 segg.; O. Mayer, Deutsches Verwaltungsrecht, 3ª ed., II, Monaco 1924, p. 181 segg.; F. Cammeo, Commentario alle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano s.a., p. 463 segg.; A. De Valles, Il concetto giuridico di gerarchia, in Riv. degli enti locali, XII; S. Romano, Corso di dir. amministrativo, I, Padova 1930, p. 119; O. Ranelletti, Istituzioni di dir. pubblico, Padova 1931, p. 423 segg.
Gerarchie celesti.
Il giudaismo e il cristianesimo nascente distinguevano gli spiriti buoni, fedeli a Dio, e i malvagi, capitanati da Satana (v. angelo; demoni e spiriti); ma tra i primi ponevano non solo gli angeli propriamente detti, con gli arcangeli, ma anche i cherubini e i serafini, e tra i secondi i demoni che identificati con gli dei del paganesimo, il quale adorava le forze della natura, vennero a identificarsi in qualche modo con gli spiriti creduti animatori degli astri e degli elementi. In S. Paolo, principati, potestà, virtù (I Corinzî, XV, 24 seg.) e troni (Colossesi, I, 16), sono titoli degli angeli in genere, buoni o cattivi; la teologia posteriore li restrinse ai buoni. Da S. Agostino infatti si distinsero soltanto gli angeli di Dio, in cielo, e i demoni di Satana, nell'inferno; per cui i nomi di principati, potestà, virtù e troni passarono a designare gli spiriti celesti. Ma sorse la questione della ragione di coteste distinzioni e denominazioni nella corte celeste. Era una diversità di natura, ovvero, supposto che la natura di spirito sia la medesima in tutti, di merito, di funzione o di dignità, come pensarono, p. es., Clemente Alessandrino e Origene? Per lungo tempo i Padri rimasero divisi e incerti; anche perché non si sapeva precisare in che consistesse questa diversità di natura, ovvero quante e quali fossero le diversità di ufficio.
Portò chiarezza ed ordine in questa questione il pseudo Dionigi Areopagita (v.) con il De caelesti hyerarchia, al quale fa riscontro il De ecclesiastica hyerarchia. Da questo stesso si comprende come egli non concepisse la gerarchia celeste fondata sopra una diversità di natura tra gli spiriti, ma semplicemente, alla stessa guisa della gerarchia ecclesiastica, sopra la differenza del posto che essi occupano a seconda dell'ordine sacro di cui sono rivestiti, della scienza che posseggono e dell'azione che esercitano. Come cioè nella Chiesa la grazia e i doni di Dio si dispensano attraverso una scala discendente di tre gradini - l'episcopato, il presbiterato, il diaconato - così la pienezza della vita e luce divina discende dal cielo in terra e si comunica alla Chiesa attraverso tre ordini, diviso ciascuno in tre gradi (nove in tutto), dei quali il più alto la riceve immediatamente da Dio, e ciascuno degli altri da quello che gli sta immediatamente sopra. Sono per ordine discendente: serafini, cherubini e troni; dominazioni, virtù e potestà; principati, arcangeli e angeli.
Questa teoria, i cui principî, come tutte le altre del pseudo Dionigi, si ricollegano a quelli neoplatonici, specie da Proclo, fu portata in Occidente da S. Gregorio Magno; poi, quando gli scritti dell'Areopagita furono tradotti in latino da Scoto Eriugena, fu universalmente ricevuta nella scolastica e passò nel linguaggio comune della Chiesa.
Bibl.: M. Dibelius, Die Geisteswelt im Glauben des Paulus, Gottinga 1909; J. Turmel, Histoire de l'Angéologie, in Revue d'histoire et de littérature religiruses, III (1898), pp. 426-434 e IV (1899); pp. 217-229; P. Rotta, La coscienza religiosa medioevale. Angelologia, Torino 1908; J. Durantel, S. Thomas et le Pséudo-Denis, Parigi 1919.