PHILIPE, Gerard
Philipe, Gérard (propr. Philip, Gérard)
Attore cinematografico e teatrale francese, nato a Cannes il 4 dicembre 1922 e morto a Parigi il 25 novembre 1959. Vero idolo del pubblico francese nel periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda guerra mondia-le e per tutti gli anni Cinquanta, venne definitivamente consacrato dalla morte prematura a simbolo della giovinezza intesa come stagione romantica ed esuberante, ricca di sogni e di ansia febbrile, ma anche venata di sofferenza e di malinconia, grazie al suo fascino disarmante, alla voce dalla sorprendente musicalità, alla simpatia scanzonata, nonché a certi tratti di tormentata fragilità e alla forza sobria e misurata della sua recitazione. Doti che gli consentirono di impersonare, al cinema come in teatro, anche ruoli più sottilmente ambigui, avvolti da inquietudine e da ombre, e furono sempre accompagnate da una profonda maturità professionale e umana che lo vide impegnato socialmente, come dimostrato in primo luogo dal suo coinvolgimento nel Théâtre national populaire di Jean Vilar.
La sua fu un'infanzia serena e dopo aver frequentato il Collége Stanislas nella sua città natale, poco attratto dall'attività del padre, che gestiva un famoso albergo, e dagli studi di diritto, scelse di dedicarsi alla recitazione entrando a far parte della filodrammatica di Grasse, frequentando il Centre des jeunes du cinéma di J. Huet a Nizza e seguendo a Cannes i corsi di J. Wall. Venne quindi scritturato dalla compagnia di C. Dauphin ed esordì nel 1942 al Casino di Cannes in Une grande fille toute simple di A. Roussin, facendosi immediatamente notare per il suo aspetto seducente e le sue istintive doti recitative. Recatosi a Parigi offrì una splendida interpretazione dell'Angelo in Sodome et Gomorrhe di J. Giraudoux nel 1943 e s'iscrisse al Conservatoire nelle classi di Denis d'Inès e di Georges Le Roy. Ben presto divenne un beniamino del pubblico, acclamato per la padronanza della scena, lo spessore conferito ai personaggi e la modernità della recitazione, nella quale si avvertiva comunque il peso della grande tradizione teatrale francese. Fu così che nel 1945 trionfò in Caligula di A. Camus, cui seppe conferire accenti di tormentata sensibilità. Frattanto nel 1943 aveva esordito nel cinema in La boîte aux rêves (Lo scrigno dei sogni) di Yves Allégret, uscito solo nel 1945, ma fu il fratello di Yves, Marc, a dargli la possibilità di recitare in un ruolo di un certo rilievo in Les petites du quai aux fleurs (1944; Rondini in volo), ormai accreditato con una 'e' aggiunta a Philip per ottenere un nome scaramanticamente composto di tredici lettere. Dopo aver partecipato alla liberazione di Parigi nell'agosto del 1944 (mentre il padre, accusato di collaborazionismo, era costretto a riparare in Spagna) e aver interpretato Le pays sans étoiles (1946) di Georges Lacombe, mentre intensa continuava l'attività teatrale gli vennero offerti due ruoli che lo imposero definitivamente sul grande schermo: quello del principe Myškin in L'idiot (1946; L'idiota) di Georges Lampin, da F.M. Dostoevskij, in cui seppe tratteggiare con convincente rigore espressivo ma anche con dolente umanità il lento viaggio verso la follia del suo personaggio, e quello del giovane, ribelle François in Le diable au corps (1947; Il diavolo in corpo) di Claude Autant-Lara, dal romanzo di R. Radiguet, accanto a Micheline Presle. La storia drammatica dei due innamorati (uno studente e una donna sposata il cui marito è al fronte), sullo sfondo della fine della Prima guerra mondiale, anche per il suo antimilitarismo suscitò lo scandalo dei benpensanti, ma fece di P. il simbolo della gioventù inquieta del dopoguerra. Lo stesso temperamento appassionato, la stessa intensità romantica gli consentirono di impersonare l'eroe di Stendhal Fabrizio Del Dongo in La Chartreuse de Parme (1948; La Certosa di Parma) di Christian-Jaque, film che ne ribadì la capacità di dare vita a personaggi letterari di grande fascino restituito dall'attore in tutta la sua complessità per un'adesione che rivelava a un tempo grande raffinatezza intellettuale e spontaneità espressiva, quelle stesse che lo guidavano nel suo importante lavoro in teatro. Per tali ragioni alcuni anni dopo (1954) sarebbe stato un convincente Julien Sorel in Le rouge et le noir (L'uomo e il diavolo), ancora di Autant-Lara e ancora da Stendhal, riuscendo a dosare in maniera perfetta opportunismo, cinica amoralità e sensualità, tratti che segnano altri suoi riusciti personaggi, spesso Don Giovanni privi di gioia e disperatamente innamorati di sé stessi come il conte di La ronde (1950; La ronde ‒ Il piacere e l'amore) di Max Ophuls, perfetto emblema della leggerezza desolata colta dal regista; o Monsieur Ripois, noto anche come Knave of heart (1953; Le amanti di Monsieur Ripois) di René Clément; o l'incorreggibile conquistatore di Pot-Bouille (1957; Le donne degli altri) di Julien Duvivier; o il seduttore per eccellenza, annoiato e poi preda dell'amore, ossia Valmont nel suo penultimo film, Les liaisons dangereuses (1959; Relazioni pericolose) di Roger Vadim, rilettura in chiave contemporanea del romanzo epistolare di P.Ch. de Laclos. Al tempo stesso seppe impersonare figure dotate di una leggerezza quasi impalpabile, perfettamente commisurata alla garbata ironia di René Clair, che al giovane P. fu legato da profonda amicizia e che riuscì a trovare nell'entusiasmo e nell'esuberante generosità dell'attore l'ideale personificazione del proprio immaginario: nel progetto ambizioso di La beauté du diable (1950; La bellezza del diavolo), con cui il regista volle realizzare il suo Faust, eccessivamente appesantito da un reticolo di rimandi filosofici, ma che proprio nell'interpretazione di P. ritrova il respiro delle sue prove più lievi e riuscite. O nel viaggiatore di sogni e del tempo di Les belles de nuit (1952; Le belle della notte), e soprattutto nell'ennesimo Don Giovanni, questa volta protagonista del mondo raggelato della belle époque di Les grandes manœuvres (1955; Grandi manovre), che per vincere la noia si gioca la propria effimera reputazione in una scommessa (far innamorare di sé la prima sconosciuta incontrata a una festa) per poi rimanere vittima della propria crudele leggerezza (nel momento in cui si scopre a sua volta innamorato della donna e finisce per perderla).
Se negli anni della guerra fredda P. si schierò con gli attori più impegnati politicamente firmando l'Appello di Stoccolma contro le armi nucleari, battendosi contro la guerra di Corea e divenendo nel 1957 presidente del Comité national des acteurs e l'anno successivo del Syndicat français des acteurs, fece una ben precisa scelta professionale lavorando con Vilar al Théâtre national populaire e contribuendo all'organizzazione e alla riu-scita del Festival d'Avignon (a partire dal 1951, dopo aver interpretato in quello stesso anno per il cinema Juliette ou la clé des songes, fuga nel mondo del sogno e dell'oblio di Marcel Carné). E perseguì in tal modo un progetto di teatro che lo vide ora impegnato in parti di grande rilievo (fu indimenticabile, tra l'altro, in Le Cid di P. Corneille, Il principe di Homburg di H. von Kleist, Lorenzaccio di A. de Musset, Riccardo II di W. Shakespeare), ora in piccoli ruoli o coinvolto dal pubblico in accese discussioni sui lavori presentati. Al cinema contemporaneamente rinnovò il grande successo popolare con il personaggio vitale, guascone e divertente di Fanfan la Tulipe (1952), travolgente film d'avventura diretto da Christian-Jaque e interpretato al fianco di Gina Lollobrigida (e non a caso Sacha Guitry gli avrebbe affidato due anni più tardi il ruolo di D'Artagnan nella sua carrellata storica Si Versailles m'était conté, Versailles). Più sfortunato fu il suo unico tentativo di affrontare la regia cinematografica (in collaborazione con Joris Ivens), narrando le mirabolanti vicende di un altro eroe in Les aventures de Till l'Espiègle (1956; Le diavolerie di Till), dal romanzo di C.-T.-H. de Coster, ambientato nelle Fiandre del 16° sec. e sorretto da un'impostazione vagamente socialista. D'altra parte controversi e meno amati furono anche i suoi personaggi più aspramente sofferti e amari, come il giovane sperduto nella luce invernale e disperata dei ricordi e dei rimorsi in Une si jolie petite plage (1949; La via del rimorso) o il medico alcolizzato di Les orgueilleux (1953; Gli orgogliosi), entrambi di Y. Allégret e quest'ultimo su soggetto di Jean-Paul Sartre, nonché A. Modigliani alla deriva di Montparnasse 19 (1958; Montparnasse) di Jacques Becker, l'irriducibile giocatore di Le joueur (1958; Il giocatore) di Autant-Lara, ancora da Dostoevskij, ma anche l'idealista di La fièvre monte à El Pao (L'isola che scotta) di Luis Buñuel, suo ultimo film, uscito postumo agli inizi del 1960. Proprio quando era al culmine del successo e progettava di portare in scena quello che si prospettava come un suggestivo Amleto giunse improvvisa la malattia a interrompere drammaticamente il suo cammino. A quegli ultimi, dolorosi giorni è dedicato il libro di ricordi scritto dalla moglie, Anne Philipe, Le temps d'un soupir (1963).
M. Chapelle, Gérard Philipe, notre éternelle jeunesse, Paris 1965.
M. Périsset, Gérard Philipe, ou la jeunesse du monde, Nice 1979.
G. Sadoul, Gérard Philipe, Paris 1979.
G. Bonal, Gérard Philipe, Paris 1994.
Gérard Philipe: un acteur dans son temps, Catalogue de l'exposition présentée à la Bibliothèque nationale de France, sous la direction de G. Bonal, Paris 2003.