Vedi Germania dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Sorta nella seconda metà dell’Ottocento da un cumulo di piccoli stati, la Germania è stata protagonista di un’incredibile evoluzione storica che l’ha portata a conquistare nel continente europeo una straordinaria posizione di vantaggio geostrategico. Se per lungo tempo ha costituito per i suoi vicini una minaccia dalla quale tutelarsi, nell’Europa sempre più interdipendente del secondo decennio del 2000 si è eretta gradualmente a ruolo di guida, pur spesso riluttante, delle principali questioni economiche e politiche.
Uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, per tutto il corso della Guerra fredda la Germania è rimasta divisa in due entità statali separate, create nel primo periodo post-bellico in corrispondenza delle diverse zone di occupazione nelle quali fu suddiviso il suo territorio: a ovest la Repubblica federale tedesca (Bundesrepublik Deutschland, Brd), nata dall’unificazione dhelle zone britannica, francese e statunitense, e a est la Repubblica democratica tedesca (Deutsche Demokratische Republik, Ddr), sulla zona di occupazione sovietica. Mentre la Ddr ricadeva completamente nel raggio d’influenza sovietica, la Germania dell’Ovest aveva definito la propria politica estera su un doppio binario. Da un lato un forte europeismo, perseguito attraverso il rafforzamento di quell’asse franco-tedesco che è stato il principale motore del processo di integrazione europea; dall’altro, una chiara vocazione atlantista fondata su una solida relazione con gli Stati Uniti. Proprio l’alleanza con Washington aveva costituito un imprescindibile caposaldo sia per la ricostruzione e il rilancio dell’economia della Germania occidentale nel periodo postbellico, sia in chiave di deterrenza contro la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica.
Il 3 ottobre del 1990, data cruciale nella storia nazionale, le due Germanie si sono riunite, in virtù dell’annessione alla Repubblica federale tedesca dei cinque distretti orientali della Ddr più Berlino. Dalla riunificazione in poi, è possibile riscontrare alcuni cambiamenti nella politica estera tedesca. Fermo restando l’interesse a mantenere buoni rapporti all’interno dell’Alleanza atlantica e il tradizionale orientamento filo-europeista, il collasso dell’Unione Sovietica ha aperto per la Germania la possibilità di costruire un solido rapporto anche con la nuova Federazione Russa. La relazione è stata favorita dai comuni interessi, soprattutto dal punto di vista degli approvvigionamenti energetici, ma è stata anche temperata dalla naturale vicinanza politica, economica e geografica della Germania a quei paesi dell’Europa orientale che intrattengono rapporti più tesi con i russi. Per quanto riguarda invece gli Stati Uniti, la fase post-1989 ha fatto registrare un rapporto più controverso, soprattutto durante l’amministrazione di George W. Bush. I contrasti si sono manifestati apertamente nel biennio 2002-03 quando la Germania del socialdemocratico Gerhard Schröder ha guidato le fila degli oppositori alla guerra in Iraq. In tempi più recenti, le rivelazioni del 2014 relative ad attività di spionaggio statunitense in Germania a opera della Nsa hanno contribuito a un ulteriore irrigidimento delle relazioni tra i due stati.
Gli anni Novanta sono stati cruciali anche per quanto concerne il ruolo della Germania nel processo di integrazione comunitaria. Il paese ha sostenuto infatti in modo decisivo la nascita della moneta unica, rinunciando al marco, la valuta più forte d’Europa, anche con l’intento di stemperare le apprensioni delle principali cancellerie europee verso il processo di riunificazione tedesca. Una mossa, quella del passaggio all’euro, che non ha penalizzato Berlino, rendendo più competitivi i prodotti tedeschi all’interno del mercato unico europeo.
La Germania ha anche sostenuto l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Europa centrale e orientale, geograficamente vicini e con i quali intrattiene importanti rapporti economici. Nel maggio 2013, Berlino si è espressa favorevolmente circa l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (Eu), cambiando la tradizionale posizione di diffidenza sul progetto di adesione turca e prospettando uno sblocco dall’impasse che per decenni ha frenato l’avvicinamento di Ankara a Bruxelles.
Oggetto di controversie e, in alcuni casi, di forti tensioni con i partner europei e atlantici è l’atteggiamento tedesco seguito allo scoppio della crisi economica. La Germania ha puntato sull’adozione di stringenti misure di austerity che prevedono l’elargizione di aiuti finanziari ai paesi in difficoltà soltanto in cambio di chiari progressi sulla disciplina di bilancio e di radicali riforme strutturali. La conseguente adozione di misure impopolari da parte dei paesi più in crisi dell’eurozona ha anche determinato la crescita di virulenti movimenti antieuropeisti.
La Germania è uno dei maggiori fornitori mondiali di aiuti allo sviluppo, il terzo contributore al budget di base delle Nazioni Unite (con il 7,1%, dopo Stati Uniti 22% e Giappone 10,8%) e il quarto per quanto riguarda i finanziamenti alle operazioni Un di peacekeeping (7,13% per il triennio 2013-2015): posizioni e percentuali rilevanti, che legittimano le pretese di Berlino di partecipare attivamente alle arene diplomatiche internazionali e di ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
La Germania è una repubblica federale composta da 16 stati, i Länder. La sua Costituzione affida il potere esecutivo nelle mani del governo federale che è retto da un cancelliere, mentre il potere legislativo spetta a un parlamento composto da due camere con differenti prerogative: il Bundesrat, che è l’organo federale attraverso cui i Länder partecipano alla funzione legislativa e all’amministrazione dello stato centrale tramite un numero di delegati proporzionale al totale di abitanti (da tre a sei seggi su un totale di 69), e il Bundestag, la dieta federale composta da più di 600 deputati eletti ogni quattro anni a suffragio diretto, nelle cui mani è riposto il cuore del processo di formazione delle leggi oltre che la possibilità di sfiduciare il cancelliere.
I 16 stati federati, ciascuno dei quali possiede propri organi di governo, detengono sia un importante ruolo nel processo legislativo centrale, sia prerogative esclusive in diverse sfere d’attività, specie nel campo dell’istruzione, in quello di polizia e nell’amministrazione. Data la mancanza di sincronia tra le elezioni dei parlamenti statali e quelle del parlamento federale, può capitare che la composizione politica del Bundesrat non corrisponda a quella del governo. Nel 2006 è stata varata una riforma costituzionale che ha ridimensionato alcune prerogative di questo ramo del parlamento federale, ampliando il potere degli organi elettivi a livello statale.
Le ultime elezioni federali, per la formazione del 18° Bundestag, si sono tenute il 22 settembre 2013. Ottenendo quasi il 42% dei voti e il 40% dei seggi, l’incumbent Angela Merkel ha nuovamente ricevuto dagli elettori tedeschi un chiaro segnale di approvazione della linea politica seguita finora, sia sul fronte interno sia in merito alla strategia di gestione della crisi nell’eurozona. La coalizione formata dai cristiano-democratici (Christlich Demokratische Union Deutschlands, Cdu) della Merkel e dalla Christlich-Soziale Union in Bayern (Csu), il partito bavarese omologo della Cdu, ha conseguito così il suo miglior risultato elettorale dal 1990. Tuttavia per questo mandato dovrà fare a meno dell’altro partner usuale, il partito liberale tedesco, Freie Demokratische Partei (Fdp), il quale non è riuscito a superare il 5% dei voti e, per la prima volta nella sua storia, non detiene alcun seggio nel Bundestag. Per confidare su una maggioranza sicura, il partito della Merkel si è alleato, dopo due mesi di trattative, con il principale partito di opposizione dei socialdemocratici (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Spd). La coalizione Cdu/Spd mantiene al momento alti gradi di approvazione tra l’elettorato tedesco, rendendo probabile una ulteriore riconferma anche alle prossime elezioni parlamentari, previste per il 2017.
Composta da quasi 81 milioni di persone, la popolazione tedesca è la maggiore nell’Unione Europea. Negli ultimi anni si è registrata, tuttavia, una leggera diminuzione: il tasso di incremento demografico è stato dello 0,3%, il tasso di fecondità di 1,4 figli per donna, mentre il tasso di migrazione – molto diminuito rispetto agli anni Novanta – è di 6,8 su mille abitanti.
La popolazione straniera residente in Germania consiste principalmente di immigrati arrivati negli anni Cinquanta e Sessanta e dai loro discendenti, provenienti in larga parte dall’Europa meridionale e dalla Turchia. La popolazione turca rappresenta la principale minoranza del paese: nel 2014, secondo i dati dell’istituto nazionale di statistica tedesco, risiedevano in Germania circa 1,5 milioni di cittadini turchi. Un altro importante flusso di migranti si è avuto poi nel paese durante gli anni ‘90 quando, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, numerosi tedeschi sono tornati in patria dai paesi dell’Europa orientale, quali Polonia, Romania e Ungheria.
Il sistema educativo tedesco è caratterizzato dal principio del federalismo (formazione, scienza e cultura sono disciplinate e amministrate primariamente dai Länder) e dal principio del pluralismo ideologico e sociale. La spesa per l’istruzione ammontava nel 2011 al 4,8% del pil, di poco al di sotto della media degli stati Eu pari al 5,3%. Secondo i dati del 2012 del programma per la valutazione internazionale degli studenti avviato dall’Oecd, la Germania ha risultati superiori alla media dei paesi Oecd nei tre principali ambiti di competenza presi in esame (matematica, scienze, lettura).
La Germania ha uno dei sistemi sanitari universali più antichi in Europa: prevede che tutti i cittadini debbano registrarsi in un fondo malattia. La spesa sanitaria è pari all’8,7% del pil; nel novembre 2010, nell’ambito delle riforme del welfare volte ad affrontare il problema dell’invecchiamento della popolazione, il governo ha varato una riforma del sistema sanitario mirata a ridurre il deficit di bilancio, comportando però un aumento dei costi dei trattamenti per i cittadini.
In Germania la maggioranza della popolazione è cristiana – protestante (34%) e cattolica (34%) –, mentre il 3,7% è musulmano. Le tutele normative alla libertà di religione di cui la Germania è dotata discordano da alcuni recenti episodi criminali legati alle discriminazioni etniche e religiose. Alcuni studi hanno rilevato, in particolare, una crescita dei sentimenti di ostilità verso la religione islamica: il disagio nutrito per la consistente minoranza turca sarebbe in questi anni mutato fino a comprendere tutti i musulmani, tanto che in Germania s’inizia a parlare di ‘islamofobia’. Otto Länder hanno adottato negli anni passati leggi che vietano alle insegnanti musulmane di indossare l’hijab durante il lavoro. Tuttavia nel marzo 2015 la Corte costituzionale federale, valutando il ricorso di due insegnanti musulmane contro la legge della Renania settentrionale-Vestfalia, ha dichiarato incostituzionali queste norme.
La Germania è all’avanguardia in Europa sulla tutela dei diritti delle donne. Il governo ha attuato generose politiche sulla maternità e ha adottato leggi sulla non discriminazione. La Merkel è il primo cancelliere donna e il nuovo Bundestag detiene un numero record di donne, pari al 36,5% dell’intera camera. Tuttavia le donne sono sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali della pubblica amministrazione, delle aziende, delle università e dei tribunali, oltre che essere soggette talvolta a discriminazione salariale. Ad esempio, non vi è nessuna donna tra gli amministratori delegati delle trenta principali aziende tedesche e, secondo un recente sondaggio pubblicato sul principale quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt, il 59% delle aziende tedesche di media dimensione non ha donne in posizione di leadership, rispetto al 36% della media Eu. Per cercare di ovviare a questa situazione il Bundestag ha approvato – marzo 2015 – una legge che impone alle aziende delle quote fisse pari al 30% dedicate alle donne nei consigli aziendali di supervisione. Una norma che entrerà in vigore dal 2016 e riguarderà tra l’altro oltre 100 aziende quotate in borsa.
La Costituzione tedesca tutela la libertà di espressione e i media sono liberi e indipendenti; una sentenza della Corte costituzionale del 2003 ha stabilito che il controllo delle telefonate dei giornalisti può essere considerato legittimo solo in casi ‘gravi’. Nel 2014, l’86,8% della popolazione aveva accesso a Internet. Il web non è soggetto a limiti, a eccezione dei siti di pedofilia e propaganda nazista. Dal gennaio 2009 una legge anti-terrorismo garantisce alle autorità maggiori poteri nel condurre sorveglianza occulta, con la possibilità di svolgere ricerche remote e segrete su Internet.
Nei primi mesi del 2014, l’emergere di un sistema di spionaggio elettronico della Nsa americana nei confronti di numerose personalità della classe dirigente tedesca ha suscitato una forte indignazione nel paese provocando un generale raffreddamento delle relazioni con gli Stati Uniti, complice il ricordo degli anni di spionaggio sistematico praticato dalla Ddr ai danni dei propri cittadini.
La Germania è la quarta economia mondiale e la prima in Europa. L’industria manifatturiera e i servizi a essa collegati sono alla base dell’economia, pur non rappresentando la quota maggioritaria nella composizione del pil. Tra i principali prodotti vi sono macchinari industriali, autoveicoli, lavorazioni chimiche e acciaio, mentre la proporzione di beni ad alta tecnologia è meno rilevante rispetto ad altri paesi industrializzati, come Svizzera o Francia (le esportazioni di tali beni ammontano in Germania al 16% del totale).
L’agricoltura conta solo per lo 0,8% del pil, ma il settore ha un ruolo importante per il tessuto sociale tedesco. I servizi rappresentano la quota maggioritaria del pil (circa il 69%) e il settore bancario è tra quelli più rilevanti, insieme al commercio al dettaglio e al turismo. Dal 2003 al 2008 la Germania è stata il primo esportatore mondiale, poi superata dalla Cina nel 2009; il ridimensionamento della domanda estera, il rafforzamento delle economie dei paesi dell’Europa orientale e la crescita di domanda in Asia hanno contribuito a tale risultato. Al contempo, i mercati orientali sono rapidamente diventati terra di conquista per l’export tedesco: nel 2014 la Germania ha identificato la Cina, l’Indonesia e la Corea del Sud come i mercati strategicamente più rilevanti per il futuro dell’export tedesco, assieme a Regno Unito, Colombia e Ghana. Ad oggi, la forza delle esportazioni tedesche è testimoniata dall’ingente surplus nella bilancia commerciale, pari a 287.300 milioni di dollari nel 2014, ovvero circa l’8,4% del pil. I principali prodotti esportati sono autovetture, mezzi aereonautici, macchinari, prodotti chimici, alimentari e combustibili raffinati. La quota maggioritaria dei flussi è al momento ancora diretta verso i paesi dell’Eu (circa il 67%), in particolare verso Francia, Paesi Bassi, Regno Unito e Italia.
Il livello delle attività economiche complessive è comunque tuttora modesto e nel 2015 l’economia tedesca – che si dimostra comunque tra le più forti dell’eurozona – è cresciuta dell’1,6%. L’elevato grado di apertura e integrazione con il sistema mondiale, associato alla dimensione dell’economia tedesca, fa sì che le influenze reciproche siano forti: se le crisi statunitense ed europea hanno avuto un impatto negativo sulla crescita tedesca, d’altro canto la crisi tedesca ha avuto un impatto negativo sull’economia dei paesi dell’Europa orientale, che esportano molto verso la Germania. Per rispondere alla complessità della situazione, regolamentare il settore finanziario e assicurare una più equa distribuzione dei costi e dei rischi, nel novembre 2010 la Germania ha varato una legge per riorganizzare e ristrutturare le istituzioni creditizie, limitandone in alcuni casi le attività di investimento.
Nel 2015 il rapporto tra debito e pil è sceso al 69,5%, cinque punti percentuali in meno rispetto al 2014: le previsioni prefigurano una riduzione al 61,5% entro il 2019. Questo pone la Germania pienamente in linea con i parametri di Maastricht che prevedono un rapporto debito/pil pari al 60% entro il 2023. Nonostante l’efficienza dei conti pubblici, l’immagine complessiva del sistema produttivo tedesco è stata in parte intaccata nel settembre 2015 dal grave scandalo che ha coinvolto la casa automobilistica Volkswagen: un evento che potrebbe avere serie ripercussioni sul mercato automobilistico globale.
La Germania è uno dei maggiori mercati di energia in Europa e ha quindi un forte impatto sulla politica europea e globale in questo settore. Attualmente produce energia con carbone, gas, energie rinnovabili e nucleare. Importa però circa i due terzi dell’energia consumata, in particolare petrolio, che conta per il 33,2% del consumo totale, e gas (21,1% dei consumi totali). Nel 2011 è entrato in funzione il gasdotto Nord Stream che, attraverso il Mar Baltico, collega la Russia alla Germania e al sistema di distribuzione europeo, con una capacità di trasporto iniziale pari a 27,5 miliardi di metri cubi di gas. La dipendenza dalla Russia è diventata il tema centrale del dibattito energetico in Germania: lo scoppio della crisi ucraina e la rottura dei rapporti con la Russia di Putin – con le conseguenti sanzioni economiche imposte dall’Eu – fanno infatti temere ritorsioni di Mosca proprio in questo settore, dove Berlino è più esposta.
L’altro grande tema di discussione nell’ambito della politica energetica riguarda l’uso del nucleare. Attualmente la Germania produce con il nucleare l’8,3% dell’energia consumata, una percentuale più o meno dimezzata rispetto a un decennio fa poiché, nei primi anni Duemila, i governi di coalizione formati da Spd e Verdi, di concerto con l’industria dell’energia, promossero un programma per la graduale eliminazione del nucleare entro il 2020. In seguito al disastro di Fukushima in Giappone e del maggior peso ottenuto sulla scena politica dai Verdi, grazie al risultato delle elezioni amministrative del 2011, la cancelliera Merkel ha dato una spinta decisiva a tale programma, annunciando il totale abbandono del nucleare entro il 2022. La sfida del governo tedesco diventerebbe dunque quella di incrementare sensibilmente la produzione di energia rinnovabile e l’efficienza energetica. L’abbandono del nucleare si sta però traducendo, almeno nel breve-medio periodo, nella necessità di aumentare l’uso del carbone (il più inquinante tra i combustibili fossili).
Da quando si è dato avvio al piano di progressiva chiusura dei reattori atomici del paese, il consumo di carbone è aumentato notevolmente e la sua componente nel mix energetico totale si sta rapidamente avvicinando al 30%: un valore altissimo per un paese europeo (il Regno Unito, per esempio, usa il carbone per produrre circa il 16,8% del suo fabbisogno energetico), che comporta rilevanti conseguenze in termini di impatto ambientale, soprattutto considerando che la Germania costituisce il maggiore consumatore di energia in Europa (Russia esclusa). La scelta di ridurre il nucleare ha anche implicazioni sul futuro della politica e della dipendenza energetica tedesca, dal momento che potrebbe far aumentare la dipendenza della Germania dalle importazioni provenienti dalla Russia, ma anche dalla Francia, per quanto riguarda il nucleare. Detto ciò, l’ambizioso proposito che la Germania si propone di raggiungere nel lungo periodo risponde a una precisa scelta di politica ambientale: consiste nel fare delle rinnovabili un caposaldo della produzione energetica entro il 2050. Queste ultime hanno contato per il 12,6% della produzione di energia nel 2012 rispetto al 3,4% del 2000. Negli ultimi anni sono stati offerti sostanziosi finanziamenti al settore – sviluppando in particolare biomassa ed eolico – al fine di raggiungere l’obiettivo del 35% entro il 2020.
L’anno della riunificazione e quelli immediatamente successivi sono stati determinanti anche per quanto riguarda il comparto difensivo della Germania: se da una parte l’annessione della Ddr ha portato alla dissoluzione del suo esercito popolare e all’incorporazione di circa 50.000 dei suoi membri nel Bundeswehr, l’esercito della Repubblica federale tedesca, dall’altra la fine della Guerra fredda ha determinato un notevole ridimensionamento del numero di truppe: i circa 550.000 soldati dell’ottobre 1990 sono stati negli anni più che dimezzati, fino ad arrivare ai 181.550 attuali. Parallelamente alla riduzione del personale militare anche il budget destinato alla difesa ha subito progressivamente dei tagli rilevanti: una scelta, quella del ridimensionamento anche economico del settore militare tedesco, che non ha mancato di generare malumori tra i maggiori alleati della Germania, specie all’interno della Nato, i cui governi membri apparivano preoccupati del rischio di un disimpegno di Berlino nel campo della sicurezza multilaterale. Rimangono ancora di stanza in Germania guarnigioni di soldati statunitensi (circa 40.000 nel 2015): gli Stati Uniti possiedono sul suolo tedesco, a Ramstein, la più grande tra le loro basi aeree all’estero. I circa 20.000 soldati britannici rimanenti in Germania saranno completamente rimpatriati nel Regno Unito entro il 2019. L’ultimo contingente totalmente composto da militari francesi è rientrato in Francia nel 2014, mentre rimangono presenti sul territorio le brigate congiunte franco-tedesche. Forze olandesi sono infine presenti in un corpo di difesa tedesco-olandese, parte delle Forza di risposta rapida della Nato.
Nel 2002 la Germania, contribuendo alla missione Isaf a guida Nato in Afghanistan, ha partecipato alla sua prima operazione di peacekeeping al di fuori del teatro europeo (il terzo contingente più numeroso, dopo Usa e Regno Unito, tra quelli impegnati nella missione Isaf). Dal 2003 la Germania è stata a capo del comando regionale Isaf nel nord dell’Afghanistan dove rimangono stanziati oltre 1500 soldati tedeschi: a seguito della persistente presenza talebana nell’area e della caduta di Kunduz a settembre 2015, Berlino ha annunciato di essere disponibile a estendere la propria presenza nell’area oltre il termine ufficiale stabilito per il ritiro delle truppe, ovvero oltre il 2016. Il tema della partecipazione dei soldati tedeschi a operazioni militari internazionali rimane particolarmente controverso nel dibattito pubblico tedesco, tanto dal punto di vista dell’opportunità politica quanto da quello della legittimità costituzionale. Basti pensare alla decisa opposizione alla guerra in Iraq espressa nel 2003 dall’elettorato tedesco e sostenuta nelle sedi multilaterali dall’allora cancelliere Schröder. Oltre che in Afghanistan, soldati tedeschi sono attualmente impegnati nella Kfor in Kosovo. Poco più che simbolica è invece la partecipazione in teatri di rilevante importanza strategica per altre potenze europee quali il Libano e il Mali. La Germania si è mantenuta finora rigorosamente non interventista anche riguardo al conflitto siriano.
A Bonn ha sede l’Occar, l’Organizzazione congiunta per la cooperazione militare in materia di armamenti, fondata nel 1996 da Germania, Francia, Inghilterra e Italia come centro d’eccellenza europeo per la produzione e lo sviluppo delle più moderne e tecnologiche attrezzature militari.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, l’assetto politico e territoriale da dare alla Germania costituiva il principale tema di confronto tra Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica. Tutti i tentativi di definire un accordo per la redazione di un trattato di pace tedesco, però, fallirono. La contrapposizione tra le due superpotenze favorì la divisione della Germania, consacrata nel 1949 con la nascita della Repubblica federale tedesca (Brd) e della Repubblica democratica tedesca (Ddr). A differenza della Germania orientale, imbrigliata nelle logiche e nella rigidità del blocco sovietico, la Germania occidentale acquisì, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo centrale in Europa e nel mondo occidentale. Il forte dinamismo economico e la solidità politica legata alla leadership di Konrad Adenauer fece assurgere la Brd a potenza di riferimento dell’Europa occidentale. Animata da un sincero europeismo, la classe dirigente tedesco-occidentale seppe anche sfruttare la politica comunitaria per superare le riserve che i principali governi europei nutrivano verso la rinascita politica e militare della Germania. Va letto in questa prospettiva il ruolo propositivo svolto dalla Brd nella promozione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1951), come anche dello sfortunato progetto di Comunità europea di difesa (1952-54).
Quest’ultimo rappresentava un tentativo di conciliare il riarmo della Germania occidentale, necessario per fronteggiare un eventuale confronto militare con il blocco sovietico, con la salvaguardia dei paesi che durante la guerra erano stati vittima dell’aggressione nazista. Il fallimento del tentativo favorì uno spostamento della questione sul piano atlantico: in base agli accordi siglati a Parigi nell’ottobre 1954 la Brd entrava nell’Alleanza atlantica e aderiva, al contempo, all’Unione dell’Europa occidentale. In questo modo prendeva avvio il riarmo della Germania occidentale, che trovava comunque un limite nell’impossibilità di dotarsi di un armamento atomico.
Negli anni del governo cristiano-democratico la Brd mantenne un atteggiamento di chiusura nei confronti della Germania orientale: alla mancata accettazione dei confini orientali della Ddr, il governo federale abbinava il suo mancato riconoscimento giuridico. In base alla cosiddetta ‘dottrina Hallstein’ (1955), qualunque governo straniero (con l’eccezione di quello sovietico) che avesse riconosciuto la Ddr avrebbe automaticamente rotto le relazioni con la Brd. Questa politica entrò in crisi nel corso degli anni Sessanta, a seguito della costruzione del Muro di Berlino (1961) e poi con l’avvio del processo di distensione. L’avvento al potere dei socialdemocratici nel 1969 marcò un’inversione di tendenza, con il tentativo, promosso durante il cancellierato di Willy Brandt, di normalizzare le relazioni tra la Germania occidentale e quella orientale. La politica orientale (Ostpolitik), che giunse a compimento nel 1973, portò al riconoscimento reciproco tra Ddr e Brd, nonché a una serie di accordi tra quest’ultima e i principali paesi del blocco orientale.
In questi anni la Germania riprese la guida del processo di integrazione europea, concentrando lo sforzo comune verso le tematiche economiche e monetarie. Di fronte agli squilibri dell’economia globale sviluppatisi a partire dai primi anni Settanta, la Germania promosse la creazione del Sistema monetario europeo (1979) che portò, nei decenni successivi, alla promozione dell’unione economica e monetaria avviata con il Trattato di Maastricht (1992) e perfezionata fino all’entrata in vigore dell’euro.
Le vicende del 1989 e il crollo del Muro di Berlino si sovrapposero all’azione in ambito comunitario. La politica inter-tedesca per la riunificazione e quella per l’integrazione europea, pur procedendo formalmente su binari separati, di fatto si fusero. Durante il cancellierato di Helmut Kohl la politica europea risultò funzionale anche per affrontare in modo efficace il vuoto generato a Oriente dal dissolvimento dell’impero sovietico.
Nel 2015 la Germania è stata il paese europeo ad aver accolto il maggior numero di migranti: 450.000 solo nei primi nove mesi dell’anno, con una previsione complessiva annuale compresa tra 800.000 e oltre un milione di persone. Si tratta di valori almeno quattro volte superiori rispetto a quelli del 2014. Di fronte all’ondata straordinaria di migranti in arrivo da Iraq e Siria, dopo la dura reazione del governo ungherese di Viktor Orban, la Germania all’inizio di settembre ha aperto le proprie porte ai rifugiati siriani, dichiarandosi pronta ad accoglierli sul proprio territorio. Tecnicamente si è trattato dunque di una pratica eccezionale rispetto agli accordi di Dublino, che prevedono invece che la richiesta di asilo debba essere effettuata dall’interessato nel primo paese membro dell’Eu raggiunto e in cui sia stato identificato. Un scelta, quella di accogliere le richieste dei rifugiati in arrivo sul continente, che sembrava essere l’occasione per la Germania di ergersi a leader politico dell’Eu e di mostrare un volto nuovo dell’accoglienza europea. Una decisione però in cui hanno certamente giocato un ruolo anche ragioni di ordine più squisitamente politico: da un lato l’esigenza da parte della coalizione di governo di dare un segnale forte contro le crescenti forze populiste in seno al paese; dall’altro, a livello di politica estera, l’interesse ad essere uno degli attori di primo piano nell’evolvere della crisi siriana. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha inoltre seguito l’onda emotiva dell’opinione pubblica tedesca, rimasta molto colpita dalle immagini in cui i migranti bloccati alla stazione di Budapest si appellavano alla Germania, al grido di «Germany, Germany».
Dopo poche settimane tuttavia, la storica apertura nei confronti dei rifugiati sembrava già destinata a richiudersi: con una nuova forma di eccezione rispetto ai trattati europei, sono stati infatti reinseriti controlli straordinari alla frontiera tra Germania e Austria, una misura in deroga agli accordi di Schengen. Secondo le autorità del governo tedesco, la capacità di accoglienza del paese era stata infatti stressata a tal punto da rendere nuovamente necessario il controllo dei flussi di migranti. La stessa opinione pubblica che aveva apertamente sostenuto l’accoglienza dei rifugiati, si ritrovava spaventata di fronte a un sistema di gestione in affanno e incapace di far fronte alla velocità degli arrivi di rifugiati. Se la coalizione di governo sembra aver mantenuto una linea di apertura e di accoglienza, l’Unione Cristiano Sociale, che governa la Baviera, stato confinante con l’Austria, ha preso una linea politica decisamente più critica, arrivando a giudicare le aperture di Merkel come «un grave errore».
Il 18 settembre 2015 l’Agenzia statunitense per la protezione ambientale (Epa) ha accusato la casa automobilistica Volkswagen di aver intenzionalmente manomesso il meccanismo di emissione di gas di alcuni modelli diesel, in modo da ingannare i controlli anti-inquinamento statunitensi. Attraverso un software istallato nella vettura, il particolare tipo di sforzo cui il motore veniva sottoposto durante la fase dei controlli riusciva ad essere identificato, attivando un meccanismo di riduzione delle emissioni solo durante la fase di test. Secondo la Epa, le vetture in condizioni normali producevano emissioni superiori di circa 40 volte i risultati ottenuti durante i controlli. A pochi giorni dall’accusa, la principale casa automobilistica tedesca ha dovuto ammettere le proprie responsabilità, l’amministratore delegato Martin Winterkorn si è dimesso e al suo posto è arrivato Matthias Müller, prima alla guida del marchio Porsche.
Per un’industria che ha voluto affiancare la propria reputazione ai termini di affidabilità e sicurezza, si tratta di un danno d’immagine difficilmente quantificabile. A livello economico le ripercussioni sono già state molto pesanti: il titolo Volkswagen ha perso oltre il 40% del proprio valore in borsa nei giorni seguenti lo scandalo. L’azienda rischia inoltre di dover affrontare dei costi altissimi per eventuali sanzioni e possibili cause da parte dei clienti: in particolare, sulla base del Clean Air Act, il Dipartimento di giustizia americano potrebbe comminare una multa pari a 37.500 dollari per ogni veicolo inquinante venduto da Volkswagen, un importo che, moltiplicato per le 482.000 autovetture vendute sul mercato americano, potrebbe raggiungere i 18 miliardi di dollari. È possibile infine che si verifichino ripercussioni anche sulle vendite, mentre i precedenti piani di investimento sono stati sottoposti a una radicale revisione. La Volkswagen è un colosso industriale che impiega circa 600.000 persone nel mondo, di cui più della metà in Germania: quasi un lavoratore su sette è impegnato direttamente o indirettamente nel settore automobolistico. Lo scandalo potrebbe avere conseguenze molto dure sul sistema paese e sull’immagine del made in Germany.
A livello più ampio, la stessa industria automobilistica globale potrebbe uscirne rimodellata. Circa undici milioni di vetture a marchio Volkswagen, Audi, Seat e Skoda sono state dotate del software di sofisticazione. Il governo tedesco ha confermato la vendita di modelli diesel truccati anche in Europa. Lo scandalo non è dunque limitato al solo mercato americano e si prospettano due possibili conseguenze: da una parte una revisione del modello di controllo sulle emissioni Nox nell’Eu; dall’altra una possibile ridefinizione del mercato del diesel. Prima dell’emergere dello scandalo, i lobbisti delle case automobilistiche di diversi paesi (Germania, appunto, ma anche Francia e Gran Bretagna) si erano molto spesi affinché l’attuale tipologia di controlli europei sui Nox, più tollerante rispetto a quelli statunitensi, rimanesse in vigore almeno fino al 2020. La portata dello scandalo potrebbe tuttavia indurre la Commissione Europea a mantenere la data inizialmente prevista per la modifica del meccanismo di revisione, ovvero il 2017; in alternativa, Bruxelles potrebbe decidere di posticipare la data, aumentando però ulteriormente la precisione dei controlli rispetto alle modifiche già in programma. Una scelta che potrebbe generare una difficoltà dell’industria nel mantenere il livello attuale di prestazione dei motori diesel, senza ricorrere a ulteriori falsificazioni nella fase di controllo. Le case automobilistiche potrebbero dunque scegliere di investire maggiormente sulle vetture ibride oppure su modelli benzina particolarmente efficienti. Il mercato del diesel potrebbe in tal caso uscirne notevolmente ridimensionato.
Approfondimento
Quello che è accaduto a partire dalla seconda metà del 2015 ha alterato in modo inatteso e sorprendente l’immagine della Germania. Ma non soltanto l’immagine. Dal settembre 2015 i tedeschi si concentrano sul loro problema dei migranti/rifugiati, che investe pesantemente la responsabilità del governo, specificatamente della cancelliera Angela Merkel. Per lei è la prova più difficile. Ma la stampa tedesca è scettica. I giornali conservatori sono puntigliosamente ostili. Zeit on line parla apertamente dell’inizio della fine della cancelliera. Ma Angela Merkel insiste con straordinaria determinazione nella sua posizione, sfidando implicitamente lo scetticismo dei suoi stessi ministri più importanti.
The Economist prende le sue parti definendola senz’altro The indispensable European.
In effetti la posta in gioco non riguarda soltanto un serio problema interno ma i suoi contraccolpi sull’intera Europa. Il gesto di aprire le frontiere ai rifugiati dalla Siria, provocando la disperata corsa di centinaia di migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini, voleva essere un esempio e un implicito invito agli europei a mutare atteggiamento verso il fenomeno della migrazione in generale. La Germania merkeliana, che si considera ‘nazione di riferimento’, non vuole esserlo soltanto con il rigore nelle questioni economiche e monetarie, ma anche sul piano umanitario e dei diritti umani. Anzi, più esattamente, ritiene di avere una visione globale preveggente e realistica circa il futuro del Vecchio Continente. La Germania, se è egemone, deve essere tale non soltanto a livello economico-finanziario ma anche in quello etico-civile. Deve agire come ‘potenza civile’, anche se non è più di moda usare questo termine.
Ma la risposta degli europei è (stata) fredda e confusa. Ostili le nazioni del centro Europa, elusive le altre. La cancelliera, colta di sorpresa, ha dovuto correre ad Ankara a chiedere aiuto ad Erdogan, un personaggio politico tutt’altro che esemplare per quanto concerne il rispetto dei diritti civili e umani. E ora il presidente turco, dopo un grande successo elettorale personale, si trova in mano uno strumento di ricatto per ridiscutere l’entrata della Turchia nell’Eu.
La questione dei profughi rischia di far saltare il precario equilibrio che ha consentito all’Eu di sopravvivere faticosamente durante le varie fasi della crisi economico-finanziaria degli scorsi anni, che non è affatto passata.
Che ne è allora della tanto discussa ‘egemonia’ tedesca che si sarebbe affermata proprio nel corso della crisi? E’ stato ancora l’Economist (nel 2013) a coniare la fortunata formula della ‘Germania, egemone riluttante’ che ha segnato un salto di qualità interpretativa. Infatti mentre censurava le resistenze tedesche ad assumersi responsabilità più esplicite di guida, ne supponeva implicitamente la possibilità e la capacità di farlo. Non a caso pubblicisti e politologi tedeschi avevano colto l’occasione per invitare la loro classe politica a passare dalla ‘riluttanza’ alla ‘responsabilità’ egemonica. ‘Noi egemoni’ - scriveva con orgoglio un noto politologo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung poche settimane prima dei due episodi che lo avrebbero contraddetto: il dramma dei migranti e lo scandalo/ truffa della Volkswagen che avrebbe inferto un colpo gravissimo al prestigio internazionale della industria automobilistica tedesca, con una caduta di immagine dalle conseguenze incalcolabili.
In realtà il concetto di ‘egemonia riluttante’ va articolato meglio. Si riferisce alla potenza geo-economica della Germania che diventa condizionamento oggettivo per gli altri membri della eurozona sulla base di regole sottoscritte, ritenute non più trattabili. Una egemonia determinata da una situazione di fatto che esonera, per così dire, il governo tedesco dall’assumere esplicitamente la responsabilità di una leadership più assertiva, più attiva, eventualmente anche più solidale. Questo atteggiamento ‘riluttante’ non nasce da deficit di cultura economica (come alcuni amano pensare) bensì dalla non-volontà di affrontare rischi politici di grande portata.
Un esempio significativo - in un contesto diverso - è offerto dalla mediazione della crisi russo-ucraina. E’ noto con quanto impegno la Germania si sia spesa per una composizione del conflitto all’interno del ‘Formato Normandia’. I risultati ottenuti negli accordi di Minsk sono considerati positivi. Infatti riducono, pur senza azzerare, le violenze sui due fronti nel Donbass e hanno ottenuto accordi economici ed energetici a vantaggio di tutti i partecipanti. Ma non è stato raggiunto alcun risultato sui nodi politici originari della questione: l’annessione della Crimea alla Russia è di fatto irreversibile, la qualità della autonomia delle regioni ribelli/secessioniste è incerta, la contrarietà russa all’entrata dell’Ucraina nella Nato è ferma. Sono mantenute le sanzioni contro la Russia, ma non sono affatto una risposta ‘forte’ al comportamento di Putin che non a caso contestualmente assicura ai tedeschi la continuità dei rifornimenti energetici di cui hanno assolutamente bisogno.
La Germania, che nella sua azione mediatrice ha contato sul suo prestigio di potenza economica, mostra qui il suo limite politico invalicabile. Si trova spiazzata dall’ attivismo putiniano che, congelata la crisi russo-ucraina, ha aperto un fronte militare anti-Is in Siria alzando i termini del confronto con l’Occidente. La Germania, potenza geo-economica che voleva essere la grande mediatrice, pur schierandosi con la linea occidentale, mantiene un profilo basso. Si sente politicamente vulnerabile.
di Gian Enrico Rusconi