BREBBIA, Gerolamo
Nacque nel 1491 dal milanese Giovan Angelo, la cui famiglia non era di antica nobiltà. Il Morigia, pur ricollegandone il nome ad un castello presso il lago Maggiore, ne considera capostipite, almeno per il ramo milanese, proprio Giovan Angelo. La fortuna della famiglia Brebbia iniziò quindi col B., il quale divenne funzionario del ducato di Milano durante la restaurazione sforzesca del 1522 e mantenne in seguito le sue cariche sotto il governo imperiale di Carlo V. Fedele alla causa degli Sforza ne condivise l'esilio durante l'occupazione francese; sulla lapide, dedicatagli alla morte dal figlio Carlo Antonio, è detto della sua fedeltà a Francesco II che "commodis eius ut serviret, neque labori, neque sumptui ulli neque vitae umquam pepercit". Rientrò a Milano con gli altri fuorusciti alla fine del 1521 e lo Sforza per sdebitarsi ed indennizzarlo delle perdite subite nonché dei pericoli corsi lo nominò amministratore delle carceri ed esecutore dei debitori della Camera ducale.
Nel maggio del 1531 il B. divenne tesoriere generale del ducato, carica che gli consentì di accumulare un'ingente fortuna. Già con lo Sforza infatti egli iniziò a godere di donativi e di rendite. Il duca, nel 1533, assegnò a lui e ai suoi discendenti un reddito annuo di 2.000 imperiali sul dazio del prestino del pane bianco, secondo un costume, che diverrà poi consuetudine sotto il governo spagnolo, di alienare le entrate statali in favore di alti funzionari e di creditori del ducato. Il beneficio rimase ai discendenti: ancora a metà del sec. XVII era possesso della famiglia Brebbia, nonostante i tentativi del governo spagnolo di avocarlo a sé.
Il B. mantenne la lucrosa carica di tesoriere anche sotto il governo di Carlo V. Quando nel 1539 le pessime condizioni economiche del ducato costrinsero il Del Vasto a vendere numerosi censi e giurisdizioni, il B. acquistò le pievi di Missaglia, Brivio e Agliate con giurisdizione ed alcuni redditi della Camera (il censo sul sale) per 26.494 lire, 15 soldi e 10 denari.
Queste alienazioni, divenute una delle entrate più sicure dello Stato, per la tendenza sempre crescente dei ceti più abbienti ad investire in rendite, piuttosto che nel commercio e nell'agricoltura, finivano nelle mani degli alti funzionari, che riuscivano persino a passare per salvatori dello Stato. Anche il B., scrive lo Chabod (1961), fece tali acquisti "con non minor compunzione e dolore". Durante il governo del Del Vasto, da parte dei Milanesi vennero sovente mosse critiche, accuse e lamentele di sperpero, di cattiva amministrazione e di prodigalità, oltre che di eccessivo sfruttamento delle risorse finanziarie del ducato. Furono tentate delle riforme da parte del governo centrale, ma i provvedimenti presi non intaccarono le istituzioni milanesi e il potere degli alti ufficiali. Tra i tentativi di limitare il malgoverno, soprattutto degli uffici finanziari, è da registrare nel 1541 la soppressione dei due magistrati delle Entrate e dell'Annona, che vennero riuniti in un'unica magistratura, mentre i tre rispettivi presidenti e il B., in qualità di tesoriere generale, vennero sottoposti ad una inchiesta. Il B. venne destituito e fu nominato al suo posto, con l'incarico di revisionare tutti i conti dell'amministrazione finanziaria dal 1535 al '41, Tommaso Fornari, tesoriere dell'esercito, già al fianco di don Lope de Soria.
Il Fornari tuttavia, malvisto dal Del Vasto per i continui attacchi contro di lui, venne destituito poco tempo dopo. Fu facile invece per il B., in ottimi rapporti con il governatore, venir reintegrato, trascorsi pochi anni, nei propri uffici. I rapporti intercorsi tra il B. e il Del Vasto vennero denunciati in seguito, nel 1546, dai commissari preposti al controllo dei funzionari dell'amministrazione finanziaria. Risultò allora che il B. doveva ancora 3.940 lire dell'entrata del 1542: il Del Vasto si era fatto dare dall'ex tesoriere degli arazzi di Anversa del valore di 1.200 scudi e lo aveva indennizzato con un'esenzione, fino a 1.000 scudi, dal pagamento di quell'annata.
Le donazioni e le rendite che il B. aveva acquistato, le malversazioni durante la sua amministrazione, l'entità dello stipendio di tesoriere e di questore del magistrato contribuirono ad aumentare notevolmente in quegli anni il suo patrimonio. Un censimento di tutte le biade del 1545-46, ad esempio, rilevava che il B. "thesaurato de Sua Maestà" aveva ad Albignano, fertile terra della bassa padana, un mulino e tre massari che coltivavano 1.500 pertiche. Nella pieve di Corneliano, sotto cui è catalogato, questo possedimento doveva essere certamente tra i più vasti.
Il B. fece parte anche della magistratura dei Sessanta fino alla fine della sua vita, e, come tale, nel 1543 venne eletto tra coloro che dovevano difendere i diritti della città nel nuovo estimo generale "ne ultra dictam tertiam portionem ulterius graventur sine tamen preiuditio iurium predictae civitatis et ducatus Mediolani".
Moriva il 2 sett. 1554, lasciando numerosi figli che ereditarono le sue cospicue rendite.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Famiglie, cart. 32, Brebbia; Doc. Diplom., cart. 34, 2 ag. 1541; cart. 35, 17 ott. 1541; Cancelleria spagnola, cart. 186, 2 sett. 1554; cart. 195, 26 marzo 1555; Ibid., Arch. Stor. Civ.,Dicasteri, cart. 12, fase. 1, 27 sett. 1543; fase. 18, 8 giugno 1549; P. Morigia, Hist. dell'antiquità di Milano in quattro libri, Venezia 1592, p. 577; E. Larsimont Pergameni, Censimenti milanesi dell'età di Carlo V, in Arch. stor. lomb., LXXV-LXXVI (1949), p. 183; F. Chabod, Lo Stato di Milano nell'impero di Carlo V, Roma 1934, p. 146; Id., Usi ed abusi nell'amministr. dello Stato di Milano a mezzo il 500, in Studi storici in onore di G. Volpe, Firenze 1958, pp. 146 n. 2, 154, 173-74; G. Franceschini, Le dominazioni francesi e le restaurazioni sforzesche, in Storia di Milano, VIII, Milano 1957, p. 328 ill.; F. Chabod, L'epoca di Carlo V, ibid., IX, ibid. 1961, pp. 325-326, 361.