GASTALDI, Gerolamo
Nacque ad Alassio, nella Riviera ligure di Ponente, all'inizio del sec. XVIII. Di famiglia aristocratica - ascritta alla nobiltà genovese dal 1655 - e religiosa, ne seguì in gioventù gli spostamenti in varie città della Liguria, fra le quali Taggia, località della quale talora è stato erroneamente indicato come oriundo. Seguitando la tradizione di famiglia, si laureò in giurisprudenza avviandosi per la carriera diplomatica, senza però tralasciare gli studi letterari e la pratica poetica.
Accolto in casa di Giacomo Filippo Durazzo, dove l'élite intellettuale genovese si incontrava per assistere alla recita delle tragedie di Voltaire, Racine e Crébillon, fece conoscere il suo valore conquistandosi anche la benevolenza dell'influente patrizio ligure. Tradusse peraltro due tragedie di Voltaire, l'Alzire e La mort de César, la Mère confidente di P.C. Marivaux, il poema Les quatre parties du jour di Fr.-J. Bernis e il dramma Mélanie di J.-Fr. de La Harpe (quest'ultima traduzione non ci è pervenuta).
Il 18 dic. 1754 assunse l'ufficio di ministro plenipotenziario della Repubblica presso la corte di Torino.
La designazione era frutto della proposta della giunta dei Confini, una sorta di consulta per le relazioni con gli Stati esteri, cui era stato commissionato fin dal 1753 di segnalare un soggetto atto a sostenere l'incarico; nella relazione presentata dalla giunta ai Collegi, il G. era indicato come fornito di talento sufficiente, ma con una singolare riserva concernente gli "studi poco profittevoli, e molto alieni dal Ministero" (Neri, p. 446), evidente allusione agli studi letterari dai quali rischiava di essere distratto.
Nell'esercizio del suo nuovo ufficio il G. dimostrò appieno la sua valenza diplomatica contribuendo, con fermezza e saggezza, a mantenere cordiali relazioni tra i due Stati e conservando così la carica per quasi dodici anni. A Torino fu in intima relazione di amicizia soprattutto con Domenico Caracciolo marchese di Villamarina, ambasciatore del re di Napoli, e con il cavaliere (poi marchese) Fr.-Cl. de Chauvelin, ambasciatore di Francia che il G. aveva avuto già modo di frequentare a Genova.
La traduzione manoscritta dell'Alzire pervenne al Voltaire per tramite, e forse per insistenza, del comune amico Chauvelin, accompagnata da una lettera del G. sul teatro tragico, sulle due letterature e sul problema della traduzione, eternamente in bilico tra fedeltà e libertà, quest'ultima per il G. più vicina all'indole della lingua italiana e in grado di dare nuova veste all'originale (Neri, pp. 448-451). La traduzione sembrerebbe aver avuto il plauso dell'autore che in una lettera allo Chauvelin del 25 ott. 1761 scriveva, con grazia e forse un po' d'ironia, "M. Guastaldo […] me traduit d'un style si facile, si naturel, si élégant, qu'on croira quelque jour que c'est lui qui a fait l'Alzire et que c'est moi qui suis son traducteur".
Nel 1766 venne a mancare uno dei segretari della Repubblica e il G., desideroso di ottenere quell'ufficio stabile e di tornare in patria, si recò a Genova in congedo per sondare il terreno.
La fama acquistata e la benevolenza dimostratagli dai più influenti patrizi gli sembravano garanzie sufficienti al conseguimento del suo obiettivo. Le sue aspirazioni però cozzarono con la venalità di un altro pretendente alla carica che, spinto dai nemici del G., si era proposto per quell'ufficio, solo per ritirarsi dietro il pagamento di 8000 lire che il G. effettuò, serbando però per quel gesto un tormento, come vedremo, incancellabile.
Tornato dunque per alcuni giorni a Torino per congedarsi dalla corte, il 6 agosto era pronto a rimettersi in viaggio alla volta di Genova. Nei sei anni successivi il G. sostenne l'incarico di segretario con onore, zelo e sollecitudine verso i propri impegni.
Morì a Genova il 16 marzo 1772.
Lo sdegno dell'uomo onesto costretto a confrontarsi con una realtà politica corrotta e insieme il rimorso per essersi piegato, sebbene in un'unica occasione, a questa logica di potere informano il Testamento del G. (Neri, pp. 456-460), scritto nel febbraio 1771, un anno circa prima della morte. Si tratta di un documento importante non solo per conoscere l'animo dell'uomo, quanto soprattutto per le conseguenze che ebbe quando se ne venne a conoscenza. Nel Testamento il G. dava le disposizioni per funerali dignitosi ma non sontuosi, e nominava tra gli esecutori testamentari P.P. Celesia, diplomatico e arcade genovese, cui lasciava i suoi libri e l'incarico di ricordare il suo nome allo Chauvelin, al Caracciolo e al Grizella, suoi amici più intimi. I tratti più notevoli però del Testamento riguardano le considerazioni sulla cosa pubblica: il G. denuncia con forza gli elementi di corruzione dell'oligarchia al potere. Il governo ordinò allora ai supremi sindacatori di far togliere il Testamento dai protocolli del notaio che l'aveva ricevuto in consegna e, poiché ne circolava ormai un numero incontrollabile di copie, di rinchiudere l'originale nell'Archivio segreto lasciando al notaio un estratto con le sole disposizioni di eredità: iniziativa di dubbia efficacia se lo stesso incaricato di eseguire il sequestro del Testamento ne fece fare alcune copie per sé dagli scrivani della Cancelleria, mentre lo leggeva ad alta voce per costatarne l'autenticità. Il Testamento rimase vivo nella cultura politica genovese e fu ripubblicato durante i moti del 1798.
Per onorare la memoria del G., gli amici procedettero alla raccolta delle sue poesie, rimaste manoscritte e sparse in case private, che furono pubblicate in due volumi (Poesie di Girolamo Gastaldi, Finale 1779), con dedica a G.F. Durazzo, che aveva contribuito alla pubblicazione fornendo gran parte dei manoscritti. Nell'intenzione degli editori l'opera, che comprendeva ventotto poesie (odi, anacreontiche, canzonette) e le traduzioni, avrebbe dovuto includere un terzo tomo nel caso si fosse rinvenuto il manoscritto della Melania.
Poeta arcadico col nome di Sinopio Atteo, il G. mostrava la propria ammirazione, mutuata dal manierato ambiente letterario che lo circondava, per G. Chiabrera e per F.F. Frugoni. L'immaginario poetico del G. non si esauriva però nella ripresa di temi e modelli convenzionali; le innumerevoli tensioni cui lo sottoponeva la sua attività politica (da lui vissuta peraltro in maniera tormentata) lo spingevano verso un ideale agreste di vita vagheggiato non tanto come motivo retorico, quanto come aspirazione interiore. Non immune da influssi pariniani, in questa prospettiva di evasione si inserisce l'odio del G. per la guerra, tema sfruttato dal pensiero italiano settecentesco, sviluppato soprattutto nelle canzoni Contro la guerra (composta in occasione della cacciata degli Austriaci da Genova nel 1746) e Non si trova pace se non in villa, dove l'autore contrappone alla serenità del paesaggio campestre l'impossibilità di vivere pacificamente nei palazzi, nelle corti dei re e nelle città.
Fonti e Bibl.: F.-M. Arouet - Voltaire, Correspondance, a cura di T. Besterman, VI, 1760-1762, Paris 1980, pp. 634, 643, 710; A. Neri, Un corrispondente genovese di Voltaire, in Giornale ligustico di archeologia, storia e letteratura, XI (1884), pp. 442-463; F. Patetta, Lettera del Voltaire a G. G., in Studi storici e giuridici per nozze Prato-Pozzi, Asti 1914, pp. 23-31; L. Ferrari, Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII, Paris 1925, pp. 19 s.; M. Oliveri, Un rimatore ligure del Settecento: G. G., Alassio 1934; G. Natali, Il Settecento, Milano 1995, II, p. 67.