MIOLO, Gerolamo
– Figlio di Bartolomeo di Agostino e di Caterina (1512-82) di Antoine Bonet, nacque a Pinerolo tra il 1530 e il 1535. La famiglia era piuttosto agiata (come risulta dalla divisione dei beni paterni e materni regolamentata nel 1574) e numerosa: sette tra fratelli (oltre al M., Agostino, Gianantonio e Davide) e sorelle (Margherita, Lucrezia e Giulia).
La famiglia si spostò a Ginevra, per motivi di fede, tra il 1550 e il 1553.
A Ginevra, nel corso del XVI secolo, quella dei piemontesi era la colonia di più antica data e anche la più numerosa: a metà del secolo costituiva un decimo della popolazione. Molti piemontesi si erano stabiliti in città ben prima che essa si ribellasse ai Savoia e aderisse alla Riforma (1535). Quando ciò accadde, costoro erano ormai ginevrini a pieno titolo: in quanto nativi godevano di tutti i diritti civili, erano iscritti nelle diverse parrocchie e perfettamente integrati nel tessuto cittadino. Al contrario, i nuovi arrivati non intendevano rinunciare alla propria identità. In città essi formarono un gruppo compatto, molto solidale al proprio interno; naturalmente si preoccuparono di ottenere nella nuova patria un proprio spazio e un riconoscimento adeguato, ma non puntarono alla completa assimilazione e con entusiasmo si impegnarono nelle attività della Chiesa della nazione italiana, sorta nel 1552 grazie al marchese di Vico, Galeazzo Caracciolo. Guidata fino al 1557 dal bresciano Massimiliano Martinengo, la Chiesa divenne un solido punto di riferimento per tutta l’emigrazione italiana.
L’emigrazione dal Piemonte per motivi di fede seguì l’andamento delle persecuzioni e fu particolarmente intensa nel decennio 1551-61; in quell’anno la pace di Cavour non pose fine alle persecuzioni (che, anzi, in seguito conobbero periodi di feroce recrudescenza), ma impostò su un piano radicalmente diverso il rapporto tra i principi sabaudi e i loro sudditi, già valdesi. Costoro a Chanforan, nel 1532, avevano aderito alla Riforma ginevrina e iniziato a costruire sul territorio una rete di comunità ben organizzata. Quanti, però, non intendevano sottostare alle restrizioni imposte dal trattato, non ebbero altra scelta che l’esilio.
A Ginevra si trovavano anche gli zii del M., Damiano e Giorgio Miolo, con le loro famiglie. Entrambi sono indicati nei registri cittadini come apoticaire (allora, a Ginevra, il mestiere era quasi monopolio dei piemontesi), attività condivisa forse anche dal padre del M., Bartolomeo. Di lui, però, si sa solo che risultava già morto nel 1567, allorché la figlia Margherita andò sposa a Jean-Antoine Lefort, figlio di Stefano Lifforti (Elleforte), emigrato da Cuneo nel 1559. I Miolo non tardarono a inserirsi nella struttura cittadina: Giorgio ricevette nel novembre 1554 la qualifica di habitant e nel dicembre 1555 quella di bourgeois, passando così dalla categoria di straniero autorizzato a risiedere nella città a quella di cittadino con pieni diritti civili. Egli, alla morte del fratello Bartolomeo, accolse in casa la vedova Caterina e la figlia Lucrezia. La cognata collaborò nella conduzione degli affari della numerosa famiglia (Giorgio aveva sei figli) e Giorgio, nel suo testamento del 7 maggio 1569, le chiese di restare accanto alla moglie, Giorgia Boetta, garantendole il diritto di continuare a vivere nella sua casa.
Sulla giovinezza del M. non si hanno notizie precise. Stelling-Michaud indica il 1553 come data della sua conversione alla Riforma. L’unica data certa è, però, quella del 1563, allorché si iscrisse all’Académie di Ginevra per dedicarsi al ministero pastorale e, con l’apposizione della propria firma «Hyeronimus Miolus Pedemontanus Pinerolensis» sul Livre du recteur (ibid.), testimoniò la propria piena adesione alla teologia di Calvino così come espressa nella confessione di fede del 1559.
Da una lettera di Carlo Emanuele I al padre Emanuele Filiberto, del 1579, il M. risulterebbe essere stato «iadis beaupere de saincte Dominique» (cit. in Pascal, p. 54), ma non esistono altre attestazioni del suo ingresso nell’Ordine.
Dal 1564 il M. risiedette in Piemonte: pochi mesi dopo l’iscrizione all’Académie, quasi tacito riconoscimento di un’appropriata preparazione teologica, Teodoro di Beza, l’allora rettore, lo destinò pastore della comunità di Chiomonte, in val di Susa, permettendogli così di partecipare al sinodo convocato a Villar Pellice il 18 aprile. In questo sinodo, correntemente definito «costituente», si sarebbe deliberato su questioni fondamentali per la nuova Chiesa.
Terminati gli scontri del 1561, il sinodo si era svolto sia nel 1562 sia nel 1563, ma solo l’anno successivo i 24 pastori riuniti a Villar e provenienti anche dal Marchesato di Saluzzo e dalla val Chisone, allora domini francesi, si dedicarono alla riorganizzazione ecclesiastica decidendo di far proprie le Ordonnances ecclésiastiques del 1542, di riunirsi in sinodo due volte l’anno (a maggio e a settembre), di istituzionalizzare gli incontri mensili dei pastori. Forte del riconoscimento giuridico sancito dalla pace di Cavour, nacque a Villar non solo «l’Église dressée» auspicata da Calvino ma anche quella originale realtà di «popolo-Chiesa» che caratterizzò l’esperienza valdese nella lunga durata.
Dopo Chiomonte, il M. svolse il suo ministero a Pragelato, Fenestrelle, La Ruà e Perosa, ma i suoi movimenti non sono ricostruibili con precisione. Sono scarne anche le notizie sulla sua vita personale: sposato con una giovane di Bibiana, figlia di Pietro Bolla (il podestà di Angrogna reintegrato con la pace di Cavour), ebbe almeno un figlio, Bartolomeo, ricordato da Gilles (p. 411) come inviato delle Valli a Torino nel 1620, per tentare di evitare la distruzione del tempio di S. Giovanni.
In questo periodo sono documentati due viaggi a Ginevra, che compì per visitare la madre e seguire le questioni familiari. Il primo avvenne nel marzo 1574 e servì a definire con la madre e l’unica sorella ancora in vita, Margherita, la successione nei beni paterni rimasti indivisi (Divisione e transazione tra G. e Margherita Miolo con l’accordo di Caterina Bonetti, loro madre, in Miolo, pp. 136-140). Il secondo, del settembre 1579, fu fonte di un grosso equivoco che portò il M. in carcere a Torino, con l’accusa di aver favorito l’espatrio clandestino di sudditi sabaudi e aver predicato al di fuori dei confini permessi. Anche in questo caso la vicenda non è ricostruibile in dettaglio, ma se ne possono seguire le fasi salienti attraverso lo scambio epistolare tra il duca di Savoia Emanuele Filiberto e il figlio Carlo Emanuele. La cattura del M., imprigionato con l’inganno, innescò un caso diplomatico, fonte di grande imbarazzo per il duca, che fu costretto a rimetterlo in libertà dopo poco, anche per l’infondatezza delle accuse.
Nel 1580 il M. si stabilì ad Angrogna come pastore. Qui morì nell’estate del 1593 per febbre tifoidea.
Il nome e la fama del M. sono legati alla sua Historia breve et vera de gl’affari de i valdesi delle Valli, che rappresenta la prima storia del popolo valdese. È un testo breve, anonimo, noto in un unico esemplare, che la lettera dedicatoria «A un suo amico» permette di datare al 1587 e che rimase inedito per tre secoli, pur godendo di una rapida e ampia diffusione manoscritta. Ritenuta fonte autorevole, la Historia breve fu tradotta in francese dal pastore di Villar Pellice, D. Vignaux, che raccolse il materiale da consegnare a David Chamier, incaricato dal sinodo di Embrun del 1603 di redigere la storia della Chiesa. La traduzione di Vignaux finì per fare aggio sull’originale, tanto da essere ritenuto egli l’autore dell’opera. Di fatto, fu nella sua versione che la Historia divenne la base di tutte le opere storiche del XVII secolo dedicate ai valdesi. Da Chamier, che declinò l’incarico, le fonti raccolte da Vignaux giunsero nelle mani di Paul Perrin, che terminò il lavoro nel 1609 e successivamente vendette tutto il materiale al vescovo anglicano di Dublino, James Ussher, che lo donò alla Biblioteca del Trinity College di Dublino (1661). In questo lungo percorso non appaiono mai né il nome del M., né il titolo italiano dell’opera. Fu Samuel Morland che, nella sua History of the Evangelical Churches of the Valleys of Piedmont (London 1658), per primo citò una Historia breve et vera de gl’affari de i valdesi delli Valli, datata 1587, depositando quell’«Italian manuscript», probabilmente recuperato alle Valli durante la sua missione del 1655, nella University Library di Cambridge, dove tuttora si trova (Dd.III.35). Partendo dallo studio di quel testo, da quanto noto del recueil tradotto da Vignaux, dall’analisi incrociata dei dati forniti da Perrin e da Morland, nel 1899 J. Jalla pubblicò il manoscritto e ne attribuì la paternità al Miolo. L’opera è stata ripubblicata nel 1971, a Torino, a cura di E. Balmas.
Il testo è estremamente interessante, giacché si colloca nella delicata fase di passaggio dei valdesi da movimento a Chiesa strutturata, e particolarmente originale nella forma, che prefigura un dialogo a distanza. Dedicando la Historia «Al suo amico» perché segua la «dritta via della religione de i vostri buoni predecessori» (Miolo, p. 80), il M. ripercorre, in 20 domande e altrettante risposte, l’origine e la storia dei valdesi (1-4), la dottrina (5), la disciplina ecclesiastica e organizzazione (6-17) infine le abitudini di vita e il folklore che li circonda (18-20), ricorrendo a fonti antiche e a tradizioni orali, ma anche ad autori a lui contemporanei, soprattutto Jean Crespin e Flacio Illirico, inserendo la testimonianza dei valdesi nella sequenza dei testes veritatis, cara alla storiografia riformata. Alla orgogliosa rivendicazione del nome di «valdesi», che fino ad allora li aveva «resi detestabili», e della storica fede e pietà «de gl’abitatori delle Valli» (ibid., p. 81), ingiustamente accusati da Roma di essere creature immorali e diaboliche, si accompagna la volontà di presentare la tradizione valdese il più possibile coincidente con le dottrine della Riforma, fino a suggerire una continuità nel principio sola fide da Pietro di Valdo a Lutero. Il testo si conclude con un lungo elenco de I nomi de i barba, o sia ministri valdesi (ibid., pp. 107-115), che serbando la memoria di nomi e cognomi, parentele, luoghi di origine e sedi del ministero pastorale, dalle Valli alla Puglia e alla Calabria, rappresenta una fonte unica per la ricostruzione della storia della giovane Église reformée d’Italie.
Fonti e Bibl.: Cambridge, University Library, Mss., Dd.III.35: Historia breve et vera de gl’affari de i valdesi delle Valli; Ginevra, Archives d’État, P.H. 1477 bis: Régistre contenant les noms des familles italiennes venues à Genève de 1550 à 1609, la liste de leurs noms, de leur anciens et diaconats, c. 6r; Minute Ragueau, vol. 11, pp. 327-331 (testamento di Giorgio Miolo, 7 maggio 1569); Minute De La Rue, vol. 9, cc. 14v-17r (divisione e transazione tra G. e Margherita Miolo con l’accordo di Caterina Bonetti, loro madre, 26 marzo 1574); Historia breve et vera de gl’affari de i valdesi delle Valli, a cura di J. Jalla, in Bulletin de la Société d’histoire vaudoise, XVII (1899), pp. 96-110; Le livre du recteur de l’Académie de Genève (1559-1878). Notices biographiques des etudiants, a cura di S. Stelling-Michaud, IV, Genève 1975, p. 553; P. Gilles, Histoire ecclésiastique des Églises reformées … autrefois appelées vaudoises, Genève 1644, pp. 383, 411; J. Jalla, Notice historique sur le S. Ministère et sur l’organisation ecclésiastique au sein des églises vaudoises, in Bulletin de la Société d’histoire vaudoise, XIV (1897), p. 12; Id., Storia della Riforma in Piemonte, Firenze 1914, I, pp. 77, 225, 350, 363 s., 371, 381; II, p. 293 n. 35; S. Foà, Valli del Piemonte soggette all’Altezza di Savoia, infette d’heresia, et suoi luoghi, in Bulletin de la Société d’histoire vaudoise, XXIV (1907), p. 8; A. Pascal, Un episodio ignoto della vita di G. M., ibid., XXV (1908), pp. 41-56; G. Gonnet, Note sulla storiografia valdese dei secc. XVI e XVII, Firenze 1975, pp. 336 s.; A. Tortora, Presenze valdesi nel Mezzogiorno d’Italia. Secoli XV-XVII, Salerno 2004, pp. 75-121; M. Benedetti, Il «Santo bottino». Circolazione di manoscritti valdesi nell’Europa del Seicento, Torino 2006, pp. 11, 17, 78.
L. Ronchi De Michelis