ROVETTA, Gerolamo
Rovetta, Gerolamo.– Nacque a Brescia il 30 novembre 1851 da Agostino Rovetta, patriota bresciano, e da Anna Maria Ghisi (nota con il soprannome ‘la Rovettina’).
Agostino Rovetta era il ventunesimo figlio di un mercante di nome Gerolamo (in totale ne ebbe ventiquattro, la maggior parte dei quali morti infanti), che negli anni della rivoluzione aveva sospeso le sue attività per consacrarsi interamente alla causa giacobina. Giudice inflessibile nella ‘Commissione straordinaria criminale’, costituita a salvaguardia delle istituzioni repubblicane, si era guadagnato il soprannome di ‘sia fucilato’, per la facilità con cui comminava pene capitali agli austriaci (Sacchetti, 1906, p. 134). Alla fine del periodo giacobino, placati i suoi ardori rivoluzionari, era tornato ai suoi affari commerciali cui si dedicò per il resto della vita.
Anna Maria Ghisi, più giovane del marito di ben ventitré anni, era invece l’unica figlia del proprietario di un importante stabilimento di filatura, il cavalier Giacinto Ghisi, che intorno al 1820 aveva acquistato e ristrutturato palazzo Gambara, nel comune di Verolanuova (poi divenuto per l’appunto Ghisi-Pellegrini).
Gerolamo Rovetta studiò nel locale collegio Peroni, un’antica istituzione fondata nel 1634 per l’educazione dei giovani delle famiglie bresciane senza requisiti di censo. Vi frequentò la classe ginnasiale, ma sembra che non spiccasse come studente perché caratterizzato da un’indole molto vivace (cfr. Fappani, 1999, p.363, dove si riferisce che il giovane Rovetta era solito fare scherzi: per esempio da chierichetto pare si divertisse a scimmiottare la gestualità del prete alle sue spalle, durante le funzioni religiose). Il carattere giocoso è segno di un’infanzia piuttosto spensierata, e infatti Rovetta crebbe negli agi di una famiglia altoborghese, e parimenti in un ambiente ricco di stimoli culturali grazie alla madre, donna intelligente e amante della vita mondana, ben inserita nel tessuto sociale e culturale della borghesia bresciana sin dal 1850. Anna Maria Ghisi era detentrice di un salotto piuttosto frequentato, e per questo motivo casa Rovetta fu animata, negli anni della primissima giovinezza di Gerolamo, da un andirivieni costante di membri dell’intellighenzia bresciana. Il ragazzo, come si è detto spigliato e curioso, ebbe così l’occasione di iniziare a ‘studiare’ da dentro quel mondo fatto di artisti, intellettuali, affaristi borghesi che sarebbe poi confluito nei suoi romanzi e nel suo teatro, con tutti i suoi miti, i rituali, le idiosincrasie.
Il giovane Rovetta univa all’esuberanza anche l’ardore politico, caratterizzato da una viva pulsione antitirannica che si può ben comprendere nel clima dell’Italia preunitaria. Nel 1904 egli stesso, in un’intervista alla rivista illustrata Varietas, raccontò un episodio emblematico (pur da prendere con le dovute cautele, sempre d’uopo quando si riporta un autoritratto d’autore): «Si doveva svolgere il tema: “Napoleone a Sant’Elena”. Mentre tutti gli altri scolari inneggiavano all’imperatore, io scaraventai sulla carta una furia d’improperi contro il tiranno massacratore, chiamandolo “il bieco e panciuto cavaliere della morte”. Il componimento fece furore…ma io fui messo in cella perché il professore non volle credere che fosse farina del mio sacco.» (Sacchetti, 1906, p.138)
Nel 1860 Agostino Rovetta morì di tisi, malattia che aveva già falcidiato la sua famiglia. Gerolamo si ritrovò orfano a soli nove anni, e Anna Maria Ghisi vedova quando non aveva ancora compiuto i ventinove. Quest’ultima, dopo la morte del marito, si immerse ancor più nella socialità bresciana, al punto che nel giro di un paio d’anni il suo salotto divenne una delle realtà culturali più importanti di Brescia, vero e proprio centro di aggregazione di personalità di spicco quali il politico Giuseppe Zanardelli, il poeta Aleardo Aleardi, il violinista Antonio Bazzini. Tra i frequentatori c’era anche un esule veronese, il conte Almerio Pellegrini, con il quale Anna Maria Ghisi intraprese una relazione che culminò nel matrimonio, celebrato a Verolanuova nel 1867.
Quello stesso anno la coppia si trasferì a Verona, patria di Pellegrini, e il sedicenne Gerolamo dovette seguirli. In Veneto la vivacità culturale di Anna Maria Ghisi non subì ridimensionamenti: a cambiare furono solo i frequentatori del suo salotto, sempre peraltro nomi di prestigio come Vittorio Betteloni, Giuseppe Fraccaroli, Giuseppe Biadego, Carlo Faccioli. Nemmeno l’indole di Gerolamo mutò, nonostante le alte frequentazioni della madre (nella già citata intervista, in merito a questo periodo, si descrisse come un «matto tra gente seria», per questo soprannominato «il brillante della compagnia musona», p.138): a vent’anni sembrava ancora inebriato dal fascino della bohème, distante da ogni velleità letteraria. Eppure proprio in quegli anni avviò una collaborazione con il quotidiano l’Arena, che fu l’anticamera del suo esordio alla scrittura creativa. Nel 1875 sul giornale veronese comparve una recensione di Rovetta a una commedia: si trattava di una decisa stroncatura, che indusse una lettrice piccata a invitare provocatoriamente il giornalista a scrivere egli stesso una commedia migliore di quella che aveva così aspramente criticato. Rovetta, che pure fino ad allora aveva iniziato a coltivare la letteratura esclusivamente come innocente svago, raccolse la sfida e da lì nacque Un volo al nido. La commedia fu rappresentata il 24 agosto del ’75 dall’impresario della compagnia Sadowski, Luigi Monti, grazie in larga parte all’interessamento di Anna Maria Ghisi che si era fatta promotrice dell’opera del figlio.
La scrittura teatrale, e ancor più la commedia, fu l’esito naturale dell’effervescente verve di Rovetta, sostenuta da una discreta capacità d’osservazione. L’opera fu infatti un buon successo, che per questo inaugurò la prolifica carriera del bresciano come scrittore teatrale (commediografo, principalmente). Seguirono nel giro di pochi anni il dramma La moglie di don Giovanni (1876), le commedie Il sogno (1878) e Gli uomini pratici (1879).
Risale a quegli anni il diffondersi della curiosa credenza secondo cui le opere di Rovetta fossero in realtà scritte da Ugo Capetti, un giovane intellettuale che aveva anche frequentato saltuariamente il salotto di Anna Maria Ghisi. Non è chiaro il motivo del propagarsi di questa illazione: Capetti, direttore dell’Adige, era peraltro amico intimo di Rovetta.
Nel 1880 il letterato bresciano scrisse un caustico pamphlet dal titolo Gli Zulù nell’arte, nella letteratura, nella politica (Milano), che presentò quello stesso anno in una conferenza a Verona (cfr. Rovetta e gli Zulù, in L’Arena, XV (1880), p.,32). Si trattava di «uno scherzo satirico. I Zulù erano un pretesto per figurare e deridere tutti quelli che ingannavano la gente, i falsi letterati, politicanti di mestiere, ambizioncelli a caccia d’un poco di nome e d’un poco di lucro, piccoli giocolieri che tentavano, mascherandosi, la sorte e più o meno ci riuscivano ad aprirsi il cammino» (D.Oliva, La lettura, X (1910), 7, p.576).
Con questo sardonico scritto Rovetta ruppe gli argini, volgendosi verso altre forme di scrittura. Era il preludio all’esordio come romanziere, che giunse nel 1882 con Mater dolorosa. Lo scrittore dovette contribuire di tasca sua per pubblicare la prima edizione, ma l’insperato successo che ottenne (in una settimana furono esaurite tutte le copie) lo ripagò largamente. Nel romanzo confluiva, come s’è detto, tutto quel mondo borghese in cui Rovetta era nato e cresciuto, che vi si ritrovava fedelmente, a detta dello stesso autore, senza i filtri della finzione letteraria: «Due soli sono i personaggi imaginari, tutti gli altri e il quadro in cui si muovono sono tolti dal vero con la rigidità brutale di un cronista» (Sacchetti, 1906, p. 134). Quanto vi sia di vero non è dato sapere, certo è che il romanzo lascia intravedere un certo interesse per la resa psicologica dei personaggi, che però rimane sempre piuttosto in superficie, senza raggiungere momenti di reale introspezione.
Lo stile di Rovetta, rimasto grossomodo cristallizzato in tutta la sua produzione romanzesca, è privo dei virtuosismi classici e propenso a un arricchimento lessicale che apra al moderno. E non sorprende, considerando la tutto sommato scarsa conoscenza dei classici e al contempo l’assidua frequentazione della scrittura giornalistica, che si riconosce in alcune velleità stilistiche oltre che in un periodare mai eccessivamente complesso.
Il successo di Mater dolorosa fu importante: i giornali dell’epoca ne apprezzarono in particolare l’impronta cronachistica, dietro la quale riconobbero uno «scrupoloso studio della verità» (P.E. Francesconi, Libri nuovi, in L’Adige, XVII (1882), 58) capace tuttavia di superare la giustapposizione idealismo/realismo (cfr. G.Trezza, Cronaca cittadina, in L’Arena, XVIII (1882), p.62) nel segno di una fedele trasposizione della vita reale e di tutti i suoi complessi contrasti, con accenti soggettivi ora ottimistici, ora pessimistici, e lo sporadico ricorso alla tipica coloritura ironica.
Quello stesso anno, forte dell’ottimo riscontro del suo primo romanzo e di una carriera ormai avviata, Rovetta abbandonò Verona e si trasferì a Milano. Contestualmente si verificò un caso che provocò un’incrinatura nei rapporti con la madre, già a tratti turbolenti: Giacinto Ghisi morì il 27 novembre 1882, sicché la sua cospicua eredità divenne oggetto di un aspro contenzioso tra i due, chiuso poi con un accordo che lasciò insoddisfatte entrambe le parti. Quella frattura non fu mai del tutto ricomposta: il rapporto tra Gerolamo e la madre divenne così ancor più tormentato, fatto di brusche rotture, improvvisi riavvicinamenti (come nel 1883, quando Anna Maria Ghisi accorse a Milano al capezzale del figlio malato di broncopolmonite), gesti concilianti e distensivi (Rovetta sempre nel 1883 volle ripagare la madre dedicandole il romanzo Sott’acqua). Nella sostanza, tuttavia, gli incontri tra i due si sarebbero sempre più rarefatti, anche perché entrambi similmente distratti dall’intensa vita mondana.
La nuova vita milanese di Rovetta si contraddistinse per un’equa spartizione tra alacre lavoro di scrittura e frequentazioni in società. Lo scrittore però restituisce un’immagine di sé a Milano più operosa, riservata e raccolta rispetto alla vivacità e all’indolenza veronesi: «a Milano il brillante della società musona s’è mutato in un orso. Così si dice almeno. Ma non credete alle leggende, vi ripeto. Ho soltanto ristretta con scelta più guardinga ed intima la cerchia dei miei amici.» (Sacchetti, 1906, p. 138). Nella città meneghina Rovetta frequentò, tra gli altri, Camillo Boito, Giovanni Beltrami e soprattutto Emilio Treves, che fu anche suo editore. Con Treves infatti uscirono Sott’acqua nel 1883, Montegù (Milano 1884) e la raccolta di racconti Tiranni minimi (Milano 1885), opere che oltre a confermare la fama di Rovetta cooperarono a definirne la poetica: fu ormai chiara la scelta del bresciano di defilarsi rispetto ai dibattiti del tempo sul romanzo, cercando una sua resa personale libera dallo spettro delle speculazioni intellettuali. Fu insomma regolare nella sua irregolarità, nel suo non seguire un dogma stilistico.
La fama di Rovetta come romanziere si consolidò, e rimase costante negli ultimi decenni del XIX secolo. Più oscillanti furono invece gli esiti della sua scrittura teatrale, che fu comunque sempre molto intensa, puntellata da qualche flop (come A Rovescio! del 1901 o Il poeta del 1899) e diversi successi, il maggiore dei quali fu senz’altro il dramma I disonesti (1892), esempio ideale di quel frangente della sua produzione permeato dall’ombra del pessimismo, a scapito della dimensione moraleggiante con punte di buonismo che caratterizzò altri testi.
Seguirono molte altre opere, in cui Rovetta tenne sempre fede alla sua personale cifra stilistica. Continuò a collaborare assiduamente con i giornali: scrisse per Corriere della Sera, Nuova Antologia, Giornale d’Italia, Piccolo della Sera, Stampa, Vita moderna ed altri.
Nel 1904 pubblicò l’ultimo romanzo, La moglie di Sua Eccellenza, uscito in appendice a Il secolo. Un romanzo appartenente al filone ‘ottimista’ di Rovetta, tutto animato dalla «fede finale nel trionfo della bontà e della virtù, non una virtù immacolata e una bontà gretta, ma una virtù che ha conosciuto tutte le tentazioni e si è fatta virtù dopo il peccato, in una bontà che ha conosciuto gli ondeggiamenti e le fluttuazioni della coscienza» (Sacchetti, 1906, p.140).
Rovetta non si sposò mai, ma ebbe diverse frequentazioni specie negli anni milanesi: non è un caso se l’intervista alla rivista Varietas, più volte citata, riporta come sottotitolo: Le idee, le azioni e gli scritti di uno scapolo illustre. A riprova di ciò, la pubblicazione curata da Luigi Re nella rivista Brescia di alcuni lacerti della sua corrispondenza, reperita nel solaio della sua casa (L. Re, Gli amorosi segreti epistolari di Gerolamo Rovetta, in Brescia, III (1930), pp . 28-30). In essa ricorrono nomi di attrici affermate come Emma Yoon, Pia Marchi Maggi, Adelaide Tessero, Stella Bonheur. Con alcune di esse ebbe beninteso solo una tenera amicizia, ed è difficile, oggi, ricostruire precisamente le sue relazioni. Sappiamo però che vi fu una giovanile promessa di matrimonio, poi disattesa, con una nobile della famiglia Mocenigo di Venezia.
Nel maggio del 1910 si ammalò improvvisamente e si spense il giorno 8, dopo un’agonia di tre giorni durante la quale fu assistito dagli amici Marco Praga e Renato Simoni. Ebbe funerali religiosi, come espressamente richiesto nel suo testamento.
Rovetta non ebbe presso i posteri il successo critico riscosso tra i contemporanei. Come notarono già Benedetto Croce e Paul Hazard, pagò lo scotto di uno stile eccessivamente cronachistico, privo di guizzi di grande acume critico che potessero permettergli di farsi interprete lucido del suo tempo.
Fonti e bibl.: La produzione letteraria di Rovetta è molto ampia, sicché per un resoconto completo si rimanda ad A. Fappani, Enciclopedia bresciana, XV, Brescia 1999, p.363.
G. Robiati, G.R. Studio critico, Torino 1888; S. Lopez, G. R., in Nuova Antologia, XL(1905), 813, pp. 37-46; R. Sacchetti, G. R. Le idee, le azioni e gli scritti di uno scapolo illustre, in Varietas. Rivista mensile illustrata, Gennaio 1906, pp. 137-141; P. Hazard, G.R., d’après une récente publication, in La Revue des deux mondes, 15 gennaio 1911, pp. 408-437; E. Bevilacqua, G. R. e la sua famiglia materna, Firenze 1925; B. Croce, La letteratura della nuova Italia, Bari 1929, III, pp. 163-167; I. Dogliotti, Il teatro di Gerolamo Rovetta, tesi di laurea, 1991-92; A. Carannante, Politica e antipolitica nei romanzi di G. R., in Giornale di storia contemporanea, XIII(2010), 2, pp. 196-206; Id., Il problema morale nell’opera di G. R. fra protesta e rassegnazione, in Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 2010, Brescia 2015, pp. 179-194; R. Lavopa, Ritrarre dal vero. Studi su G. R. romanziere, Napoli 2020.