gesti
Si può definire gesto qualsiasi movimento fatto con le mani, le braccia o le spalle. Ma esistono gesti pratici (quelli che si fanno per afferrare o per costruire un oggetto, aprire una porta, appoggiarsi a un tavolo) e gesti comunicativi.
Un gesto è comunicativo quando la forma che assumono le mani e il loro movimento sono prodotti per comunicare. Un gesto comunicativo dunque (d’ora in poi semplicemente gesto) è un segno: una coppia significante-significato in cui il significante è una particolare forma e movimento delle mani o delle braccia o delle spalle e il significato è una conoscenza di formato proposizionale o un’immagine mentale visiva.
Vi sono tipi diversi di gesti (Efron 1941; Ekman & Friesen 1969; McNeill 1992; Kendon 2004): gesti deittici (➔ deittici) con cui si indica un oggetto o una persona con l’indice o con la mano aperta (Kita 2003; Kendon 2004); iconici (dal gr. eikṓn «immagine»), che raffigurano nell’aria la forma o imitano i movimenti di un oggetto, un animale, una persona; batonici (dal fr. bâton «bastone»), in cui le mani si muovono ritmicamente dall’alto in basso per scandire ed enfatizzare le sillabe accentate in una frase; simbolici o emblematici, che in una determinata cultura hanno un significato e una traduzione, in parole o frasi, culturalmente condivisa: ad es., muovere avanti e indietro la mano con l’indice e il medio a V davanti alla bocca, che significa «fumare» o «sigaretta»; o muovere su e giù davanti al busto la mano con le dita in su riunite (o mano a tulipano; Poggi 2006), che significa «ma che dici?!».
Un’importante distinzione fra i gesti è quella tra gesti creativi, cioè inventati dal parlante per scandire e illustrare il suo parlato, e codificati, cioè memorizzati stabilmente in un lessico gestuale (Poggi 2006). Nei primi, il legame fra significante e significato è estemporaneo (ad es., quando vogliamo descrivere la forma di un terrazzo e ne disegniamo nell’aria il profilo, inventando in quel momento i movimenti da fare con le mani); negli altri è codificato, cioè condiviso con altri parlanti e immagazzinato in memoria una volta per tutte, proprio come accade nel lessico per le parole.
Esempi tipici di gesti creativi sono quelli con cui si raffigurano azioni, persone, oggetti per illustrare la narrazione. Questi gesti sono necessariamente iconici, cioè assomigliano a ciò che significano: se non lo fossero l’interlocutore non potrebbe capirli, visto che è la prima e unica volta che vengono prodotti.
I gesti simbolici, invece, che hanno una traduzione in parole e frasi canonica e condivisa, sono un caso tipico di gesti codificati culturalmente; si imparano da piccoli vedendoli fare, e un non vedente, a meno che non gli si insegni come atteggiare le mani, non ne compie. Anche altri gesti sono codificati (cioè chi li fa può fidare che vengano compresi da altri), ma codificati biologicamente: ad es., alzare i pugni chiusi per l’esultanza, gesto tipico dell’atleta che taglia il filo di lana, determinato dall’attivazione fisiologica di forti emozioni positive, quindi comprensibile in tutte le culture.
Certi gesti, specialmente quelli simbolici, si fanno in modo intenzionale e consapevole, al punto che se qualcuno dopo ci chiede che gesti abbiamo fatto, ce li ricordiamo. I gesti batonici, invece, in cui la mano va su e giù per enfatizzare il parlato, si fanno quasi senza accorgersene: l’intenzione comunicativa è tacita, cioè l’abbiamo ma non sappiamo di averla. Altri gesti infine sono inconsci, cioè si fanno ma essendo convinti di non farli.
Un esempio di un gesto simbolico inconscio è citato da Ekman (1985) nel suo libro sulle bugie. Una studentessa sostiene un colloquio con un professore, che la tratta in modo provocatorio. Lei non può rispondere a tono, perché ciò le potrebbe nuocere, ma senza che lei se ne renda conto la sua mano, poggiata sul ginocchio, assume la forma del pugno chiuso col dito medio teso: un gesto insultante.
Un gesto si dice motivato quando il suo significato si può indovinare dalla sua forma o movimento. Possiamo distinguere due tipi di gesti motivati: iconici e naturali. In un gesto iconico (ad es., muovere le braccia come ali per significare «uccello»), la relazione tra la forma o il movimento del gesto e le immagini visive che fanno parte del suo significato è di somiglianza: le une imitano le altre.
In un gesto naturale (come scuotere le braccia in alto per l’esultanza) la relazione è di determinismo meccanico: qualcosa nel significato del gesto determina in maniera necessaria la sua forma, luogo o movimento. Ad es., il gesto deittico di indicare col dito richiede all’interlocutore di prestare attenzione a un oggetto, concreto o astratto, collocato, spazialmente o mentalmente, nel luogo indicato da un immaginario prolungamento dell’indice.
Un gesto è invece arbitrario quando chi non l’ha mai visto non può indovinare cosa voglia dire. Molti gesti simbolici, almeno così come ci appaiono oggi, sono arbitrari: ad es., strisciarsi la mano sotto il mento, che vuol dire «chi se ne frega» e la mano a tulipano («ma che vuoi?» o «ma che dici?»). Spesso tuttavia, come è stato mostrato per le lingue di segni dei sordi (Radutzky 1981), i gesti arbitrari sono nati come iconici e poi hanno perso la loro iconicità.
Alcuni gesti sono autonomi, cioè si possono usare anche in totale assenza di parlato, e sostituirlo completamente: esempio tipico i gesti simbolici e i segni delle lingue di segni dei sordi, che sono un tipo particolare di gesti simbolici. Se per i segni dei sordi è ovvio che possano e debbano sostituire il parlato, ciò avviene a volte anche per i gesti simbolici usati dagli udenti. Interessanti a tale proposito le sequenze gestuali di alcuni film italiani, come Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo, con i dialoghi ‘manuali’ di Antonio Casagrande nei corridoi della pretura; o quelli da un lato all’altro di una strada trafficata in Mimì metallurgico ferito nell’onore, con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, e in Maledetto il giorno che ti ho incontrato, con Carlo Verdone e Margherita Buy.
Altri gesti invece non si possono usare se non contemporaneamente al parlato, al punto che se li vediamo fare da una persona pensiamo o che sta parlando con l’auricolare, o che parla da solo. Sono i gesti che servono ad arricchire o ribadire le informazioni del parlato, per questo chiamati coverbali. La caratteristica di non poter occorrere se non contemporaneamente al parlato è particolarmente evidente nei gesti batonici, che servono proprio a scandire ed enfatizzare il parlato. Ma anche i gesti iconici e deittici in genere si accompagnano alle parole.
Secondo alcuni autori (McNeill 1992), il gesto coverbale costituisce, con le parole prodotte simultaneamente, un tutto unico. Ad es., se nel raccontare un cartone animato dico «Gatto Silvestro sale su per la grondaia» muovendo verso l’alto le mani artigliate, come se si aggrappassero a un tubo in verticale, gli aspetti del movimento descritto si distribuiscono fra il gesto e le parole. Il verbo sale e la preposizione su veicolano l’idea di verticalità del movimento, mentre la forma delle mani che si aggrappano è in grado di rendere, oltre alla direzione, il modo del movimento.
I gesti sono parte integrante della comunicazione in tutti i casi in cui il destinatario può vedere il parlante, come nell’interazione faccia a faccia o in televisione. In tutte le culture infatti si gesticola, ma vi sono culture più e meno gestuali.
In Italia alcune regioni mediterranee, come la Campania (Carpitella 1981) e la Sicilia (Cocchiara 1977), sono depositarie di un repertorio gestuale molto ricco, in parte ereditato dai greci (De Jorio 1842). I loro gesti sono più diversificati, più ampi e più frequenti rispetto, ad es., a quelli degli inglesi (Kendon 2004): ciò vale anche per i gesti creativi, ma la ricchezza della gestualità italiana si vede specialmente nei gesti simbolici.
Gli italiani udenti, nell’interazione quotidiana, usano spesso i gesti simbolici. Sono gesti simbolici, ad es., lisciarsi il mento col dorso della mano per dire «niente affatto» o «non me ne importa nulla»; mettersi l’indice sulle labbra per chiedere silenzio. Questi gesti si contano a centinaia (Poggi 2002) e costituiscono un lessico gestuale complesso e sofisticato.
Ricca e articolata è anche la ‘fonologia’ dei gesti simbolici italiani, che è chiamata anche chirologia (o cherologia, dal gr. khéir «mano»).
È possibile descrivere e classificare i gesti simbolici italiani in termini dei parametri formazionali individuati nello studio delle lingue di segni: configurazione della mano, luogo di articolazione, orientamento del palmo e del metacarpo, movimento.
Ogni parametro può assumere un certo numero di valori, per cui in quel sistema ogni gesto è caratterizzato univocamente dalla combinazione dei valori che assume rispetto ai vari parametri. E ogni valore di ciascun parametro è distintivo, nel senso che cambiando quel valore il gesto non ha più significato, o ha un significato diverso: proprio come calo è una parola diversa da caro, ed entrambe si distinguono dalla non-parola camo.
Ad es., nel gesto simbolico che significa «se l’intendono» o «c’è del tenero», o semplicemente «c’è un rapporto» (fig. 1), il valore assunto relativamente al parametro formazionale forma della mano è indici delle due mani tesi, l’orientamento è a palme in giù e metacarpo verso l’ascoltatore, il luogo in cui viene prodotto è lo spazio di fronte al parlante, e il movimento è di avvicinare e allontanare ripetutamente gli indici paralleli.
Analizzato in base a questi parametri, il sistema chirologico dei gesti simbolici italiani risulta ricco e articolato quasi come quello della Lingua italiana dei segni (LIS). Gli udenti italiani usano 39 forme della mano, 6 orientamenti, 35 luoghi. Il movimento è un parametro molto complesso, in cui si possono a loro volta distinguere vari parametri fra cui direzione, velocità, durata e tensione muscolare.
I gesti simbolici italiani, come tutti i gesti simbolici usati in una certa cultura dagli udenti, non assurgono allo status di lingua come invece è assodato per le lingue di segni dei sordi, perché mentre una lingua di segni ha un lessico (cioè un sistema di parole) e una sintassi (cioè un sistema di regole per combinare le parole formando frasi), un sistema di gesti simbolici comprende un lessico, ma non una sintassi. Quindi nei gesti simbolici non ci sono vere e proprie categorie grammaticali, come nome o verbo, ma tuttavia è possibile distinguere gesti olofrastici e articolati, cioè gesti-frase e gesti-parola, a seconda che abbiano il significato di una frase intera o solo di una parte di frase. Ad es., muovere l’indice e il medio a V davanti alla bocca vuol dire «fumare» o «sigaretta» (fig. 2), cioè porta il significato di una sola parola, mentre battere le mani ha il significato di una frase intera, «ti lodo», «ti informo che valuto positivamente il tuo operato», comprensiva, oltre che di un intero contenuto proposizionale, anche del performativo, cioè l’intenzione del parlante.
Così fra i gesti-frase è possibile distinguere, in base al performativo, gesti di domanda (per es., muovere su e giù davanti al busto la mano con le dita in su riunite «che vuoi?»), di richiesta (mano a palmo in giù con le dita che si abbassano ripetutamente «vieni qui»), di minaccia (scuotere l’indice teso «guai a te!»), di lode (applauso «bravo!»).
Si possono distinguere i gesti simbolici italiani a seconda che diano informazioni sul mondo (cioè su oggetti, persone, eventi, proprietà, relazioni di spazio e di tempo), sull’identità del parlante (sesso, età, radici etniche e socio-culturali, ruolo, status, personalità) o sulla mente del parlante (credenze, scopi, emozioni del parlante relativi a ciò di cui sta parlando).
Vari gesti degli udenti danno informazioni sul mondo: persone («indiano», «comunista»), animali («cavallo», «asino»), oggetti («forbici», «sigaretta»), azioni («camminare»), proprietà fisiche e mentali («magro», «stupido, testardo»), momenti del tempo («ieri», «dopo»), quantità («due»). Poiché però non vi è distinzione grammaticale fra nomi e verbi, lo stesso gesto può significare sia l’oggetto che l’azione: «sigaretta» o «fumare», «forbici» o «tagliare».
Tra i gesti che danno informazioni sull’identità del parlante, uno usato molto spesso da uomini politici è mettersi la mano sul cuore, che significa «io lo dico sinceramente»: un gesto di autopresentazione della propria onestà morale. Gesti come alzare il pugno chiuso alzato («sono comunista») o la mano tesa («heil Hitler!» = «sono nazista»), o i pollici e indici delle mani che si toccano a formare un triangolo («sono femminista») esprimono un’appartenenza ideologica.
Proprio perché i gesti degli udenti non sostituiscono il parlato ma lo accompagnano, molti danno informazioni sulla mente del parlante. Alcuni informano sul grado di certezza delle conoscenze che si comunicano (scuotere l’indice teso a palmo avanti «no», stringersi nelle spalle «sono perplesso, non lo so») o sulla loro fonte (schioccare pollice e medio «cerco di ricordare», muovere su e giù gli indici e medi paralleli con entrambe le mani alzate, a palme in avanti «virgolette» (fig. 3), cioè «quello che dico è una citazione, ne prendo le distanze»).
Altri informano sugli scopi della frase, del discorso o della conversazione: sul performativo dei propri atti di comunicazione (indice teso alzato «attenzione», mani alzate a palme avanti, vicino alle spalle «chiedo scusa»); sui legami logici tra le frasi del discorso (pollice e indice aperti dal pugno e un po’ curvi, con rotazione sul polso significano «quindi», cioè «pongo una relazione causale fra questi due fatti»); sulla presa del turno (alzare la mano «chiedo la parola», mano aperta a palmo in su come a porgere qualcosa «parla pure»).
Altri gesti infine comunicano le emozioni del parlante. Ad es., il gesto con l’indice e medio aperti a V, mano alzata a palma in avanti è parafrasabile con «Victory!», espressione di esultanza; coprirsi la faccia con le mani esprime vergogna; l’indice puntato sulla guancia con movimento di avvitamento, parafrasabile come «mhm, buono!», esprime tipi diversi di piacere fisico o quasi-fisico: si può riferire a un cibo prelibato, ma anche a una bella ragazza, o persino, metaforicamente, a un libro o un film veramente ‘ghiotto’.
Di un gesto, come di una parola o di una frase, possiamo avere un uso retorico, cioè diverso da quello letterale. E questo vale sia per i gesti creativi, inventati estemporaneamente, che per quelli codificati.
Un esempio di gesto creativo iconico che utilizza una metafora è quello di un uomo politico, Gianni De Michelis, che, mentre dice «com’è perfettamente evidente», apre le mani voltando le palme in alto. Il gesto è metaforico, perché dà il significato di qualcosa di chiaro, evidente, attraverso l’idea di qualcosa che si apre, come la corolla di un fiore, e diviene visibile a tutti. Un uso ironico del gesto è quello di Antonio Di Pietro, pubblico ministero nel processo Mani pulite (1992 e anni seguenti), che, non convinto di ciò che afferma l’imputato, nell’ipotizzare ciò che lui invece pensa sia la verità dice: «A me sembra – e ne chiedevo a lei conferma …» e muove in avanti le mani a palme in su, protendendosi e quasi inchinandosi, in un gesto di esagerata cortesia. La richiesta di conferma, letteralmente, comunica «sono disposto ad accettare sia una conferma che una smentita della mia ipotesi», ma il gesto, nella sua esagerazione, risulta ironico, e attraverso il rovesciamento antifrastico dell’ironia fa capire che una smentita non sembrerebbe credibile, mettendo in dubbio l’attendibilità dell’imputato.
Nei gesti simbolici operano varie figure retoriche: metafora, sineddoche, ironia, iperbole. Un gesto metaforico è quello di battersi la mano sul petto, col palmo in giù e le dita che si toccano (fig. 4): vuol dire «mi sta sullo stomaco», cioè letteralmente «non lo digerisco». Ma ciò che non si digerisce non è un cibo, bensì una persona: significa, metaforicamente, «non lo sopporto»; se digerire vuol dire accettare qualcosa da un punto di vista fisiologico, qui l’accettazione è sul piano psicologico.
Un esempio di ironia si ha invece nel gesto di battere le mani, che si usa in senso letterale per approvare e lodare, ma anche in senso ironico per esprimere, al contrario, un sarcastico elogio, cioè una critica, una forte disapprovazione. Altri gesti utilizzano la figura dell’iperbole: per comunicare «sono triste» l’indice sfiora la guancia dallo zigomo in giù, come a raffigurare una lacrima che scende, e quindi il pianto. Qui, piangere è un’esagerazione – un’iperbole appunto – rispetto a essere triste. In altri casi i gesti rappresentano una forma o un’azione in maniera esagerata, come nei gesti osceni di descrizione, commento o minaccia, che raffigurano elementi attivi o passivi dell’atto sessuale. Un’altra figura retorica usata spesso nei gesti simbolici italiani è la sineddoche: si rappresenta una certa cosa per significarne un’altra che vi è collegata. Nel gesto prigione, si rappresenta la parte (le dita della mano poste davanti alla faccia a mimare le sbarre, fig. 5) per intendere il tutto (la «prigione»). E poiché questo gesto può anche significare «malvivente», utilizza così un’altra sineddoche, in cui il contenente (prigione) rappresenta il contenuto («qualcuno che in prigione c’è, c’è stato, o ci dovrebbe stare»). Un altro gesto che utilizza la sineddoche è toccarsi il dorso del polso sinistro con l’indice destro (fig. 6), che significa «che ora è?» o anche «è tardi, sbrigati»: qui, dal luogo (il polso) si passa all’oggetto (l’orologio), dall’oggetto alla sua funzione («sapere l’ora»), e dalla funzione all’azione che ne risulta («sbrigarsi»).
L’applicazione dei meccanismi retorici ha due importanti funzioni per il lessico dei gesti, così come per quello delle parole. Da un lato contribuisce al cambiamento storico del significato dei gesti, perché l’operare di una figura retorica fa cambiare il significato del gesto, al punto che il nuovo significato soppianta il vecchio. In alcuni casi il significato letterale si perde, offuscato dal significato metaforico: quando vediamo fare, per es., il gesto mi sta sullo stomaco, pensiamo subito a un’intolleranza caratteriale, non alimentare. In altri casi invece significato letterale e retorico coesistono, come nel gesto di battere le mani che mantiene, insieme al suo significato di elogio ironico (e quindi di critica), quello letterale di una lode sincera. Questa coesistenza di due significati – in parte collegati – in uno stesso gesto costituisce la polisemia dei gesti. Molti gesti hanno infatti più di un significato, come le parole. E questo fatto risponde a un’altra importante funzione per il lessico dei gesti: le figure retoriche sono fonte di polisemia, cioè di duplicità di significati, oltre che di significati nuovi.
Molti gesti simbolici si usano in tutta Italia, più o meno con lo stesso significato. Ma anche in questo sistema di comunicazione vi sono variazioni regionali. Innanzitutto vi sono alcune regioni più ‘gestuali’, come la Campania e la Sicilia, ed altre meno, come la Sardegna dell’entroterra, in cui nella comunicazione quotidiana, proprio come nella danza tradizionale, le mani si muovono poco.
Inoltre, alcuni gesti usati in certe zone in altre sono del tutto sconosciuti. Ad es., quello piemontese che significa «vergogna!»: indice e medio tesi, mano a palmo in giù, si strofinano su dorso di indice e medio dell’altra mano. A Napoli il gesto di lisciarsi il mento significa «bello»; in Sicilia, lo scatto del pollice dagli incisivi in fuori vuol dire «niente» oppure «non prenderai un centesimo».
Talvolta in una certa regione un gesto ha un significato un po’ diverso da quello che ha nel resto d’Italia: lisciarsi il mento col dorso della mano in tutto il paese vuol dire «chi se ne frega», ma a Napoli a volte è semplicemente una negazione: «no», «non», «niente affatto».
Infine, in una regione può esistere una variante di un gesto diffuso ovunque. Ad es., indice e medio tesi verso l’alto, come nel gesto liturgico del prete che benedice, significano «morto», «finito». Ma in gran parte dell’Italia la mano si muove dall’alto in basso disegnando nell’aria una croce, mentre nelle regioni meridionali (Salerno, Calabria, Sicilia) descrive una piccola rotazione in senso orario.
Due gesti piuttosto frequenti nella comunicazione quotidiana in Italia sono fare manichetto (più noto come gesto dell’ombrello) e la mano a tulipano.
Il primo è in realtà diffuso in tutto il mondo: il gesto fallico di battere con la mano destra l’incavo del gomito sinistro alzando tutto l’avambraccio sinistro. È un gesto insultante, parafrasabile come «tiè! t’ho fregato!», o meglio «non m’hai fregato!».
Un altro gesto che è in qualche modo l’emblema della gestualità italiana, tanto da essere riconosciuto dagli stranieri come il gesto italiano per eccellenza, è quello della mano a borsa o mano a carciofo (figg. 7-8), che ➔ Carlo Emilio Gadda in Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana chiama mano a tulipano: la mano si muove su e giù a palmo in alto, con le dita che si toccano le punte, proprio come i petali di un tulipano. Si tratta di un gesto-frase polisemico, cioè con due letture diverse ma correlate: una di domanda, parafrasabile come «che vuoi?», «che dici?», «e allora?»; l’altra di critica, o d’informazione o valutazione negativa, parafrasabile come «ma che dici?!», «niente affatto», «non sono d’accordo».
Nel significato di domanda, la mano si muove su e giù in fretta, compiendo un arco di pochi centimetri, e si ferma di scatto dopo al massimo due o tre ripetizioni; inoltre il gesto è accompagnato da uno sguardo interrogativo, con le sopracciglia aggrottate e un’espressione di curiosità. Nel significato di critica, invece, la mano si muove su e giù lentamente, più volte, per un tragitto molto lungo, anche fino a completa flessione ed estensione dell’avambraccio; la bocca si atteggia a un sorriso scettico o ironico, il capo è leggermente inclinato da una parte, e in genere non c’è aggrottamento delle sopracciglia né espressione di curiosità. Delle due letture del gesto, il significato di critica appare più frequente di quello di domanda, nell’uso quotidiano: un ricorrente richiamo all’altro a non prendersi troppo sul serio.
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