BUFALINO, Gesualdo
– Nacque a Comiso (Ragusa) il 15 novembre 1920 da Biagio, fabbro ferraio, e da Maria Elia, casalinga, cui dedicò poi alcune pagine sul filo della memoria (Intervista a mia madre) in conclusione di La luce e il lutto (in Opere. 1981-1988, 1988, pp. 1278-1282). Lo scambio di ricordi fra madre e figlio ricostruisce la precoce predilezione del bambino per il mondo del suono delle parole ascoltate e del mistero cifrato dei segni scritti: «“Io mi ricordo di un pupo di Francia”. “Orlando? Te lo cucii io con due pezze, tuo padre forgiò con l’incudine la spadina, la corazza, i gambali. Ma era tutto di ferro e pezza, senza un colore, con due bottoni di paletot a servirgli da occhi. Lo buttasti via subito. Preferivi giocare coi nomi delle strade, tirarmi dietro con la mano per le strade del paese a leggere i nomi delle targhette, ognuna col filetto celeste attorno, come piatti di Caltagirone…”. “Chissà cosa ci trovavo nei nomi…”. “Ti piaceva sentirmeli leggere, tu non sapevi leggere ancora. Era come sfogliare un vocabolario. Via Ciro Menotti, via Conte di Torino… Mi domandavi chi erano, io non lo sapevo, t’inventavo storie a cui non credevi…”» (p. 1281).
Nel 1926 iniziò le scuole elementari nella città natale; quindi dal 1936, a Ragusa, frequentò i primi anni del liceo e a Comiso gli ultimi due, conseguendo la maturità nell’estate del 1939. Lo stesso anno vinse un concorso di prosa latina bandito dall’Istituto nazionale di Studi romani con un tema sulla Pro Archia di Cicerone e, raggiunta la capitale, ricevette il premio direttamente dalle mani di Benito Mussolini.
Iscrittosi nel 1940 all’Università di Catania, nell’estate del 1942 venne chiamato sotto le armi; di stanza a Campobasso per un corso Allievi sergenti, fu trasferito poi a Fano per un corso Allievi ufficiali dove incontrò Angelo Romanò (Mariano Comense 1920 - Roma 1989), con cui corrispose per sette anni, lasciando un resoconto molto importante, di guerra e amicizia (sorta di instant book, dato alle stampe solo molti anni dopo per i tipi de «Il Girasole», con il titolo Carteggio di gioventù (1943-1950), a cura di N. Zago, Valverde 1994).
Nell’estate del 1943 venne nominato sottotenente di fanteria e il 5 settembre raggiunse Sacile, in Friuli. Dopo l’Armistizio venne catturato dai tedeschi, ma riuscì a fuggire grazie a una ragazza del paese, cui Bufalino, a distanza di anni, inventandone il nome (Sesta Ronzon), dedicò un ricordo poetico e riconoscente, dal titolo La moviola della memoria, come sognato tanti anni dopo: «A me dura solo dietro la fronte una luce di luna friulana, un immacolato lenzuolo di luna fredda fra due sentieri di platani neri. E mi dura un nome di strada: Geronima; di fiume: Livenza; di donna: Sesta Ronzon. La strada (era così allora; chissà ora) dalle ultime case di Sacile prendeva il largo verso il camposanto e la campagna, proponendosi quale direzione naturale di fuga. Ma prima c’era la cattura senza colpo ferire nella vecchia caserma, il concentramento di tutti in piazza d’armi, aspettando che giungessero dal Brennero gli autocarri e i vagoni della fulminea deportazione. Eravamo in tanti, centinaia, a sudare sotto un vigoroso sole d’estate già tarda, disarmati e straccioni, come ci aveva colti lo stupore e la gioia dell’armistizio. Eravamo in tanti, soldati e borghesi, e i tedeschi erano pochi, alti, magri, glabri e arcigni di faccia, con le mani irte di acciai micidiali (noi in scarpette da ginnastica, l’armeria ridotta a due ferrivecchi…). Io scappai, alla fine, e lo devo a Sesta Ronzon» (v. Cere perse, in Opere 1981-1988, cit., p. 989).
Nel gennaio del 1944 a Scandiano, in Emilia, si ricongiunse con amici saliti al Nord come lui: fu qui che il provveditore agli studi di Reggio gli procurò un posto come supplente nella locale scuola media. In autunno, tuttavia, si ammalò di tubercolosi e venne ricoverato, sempre a Scandiano. Finì così la sua esperienza di guerra e incominciarono gli anni della malattia ma, grazie alla biblioteca del primario dell’ospedale che lo ebbe in cura, arrivò la scoperta della grande letteratura europea, a partire dalla Recherche: «Come se Proust fosse un infallibile, inalienabile ectoplasma di me da non potermene più districare; un verme solitario nelle mie viscere, un immortale ragno nella mia mente […]. La sua lunga frase, in verità, che altro è se non il travaglio d’un gomitolo infinitesimo e sterminato, l’addipanarsi e sdipanarsi senza fine degli anelli del lombrico Tempo sotto la volta di una botola nera, che strapiomba nel silenzio? Donde una pietà si genera, vogliosa di lacrime; ma, soprattutto, una vertigine: quella che si prova di fronte a qualunque crepaccio profondo» (ibid., p. 1011).
Nel febbraio del 1946 venne trasferito nel sanatorio La Rocca, fra Palermo e Monreale, incunabolo autobiografico di Diceria dell’untore, storia di degenti colpiti dalla malattia polmonare rappresentati in una sospensione limbale – nell’incognita crudele di sommersi o salvati – fra resistenza e resa. Venne dimesso nel febbraio del 1947 e conseguì la laurea il mese successivo con una tesi in archeologia, per poi dedicarsi all’insegnamento prima come supplente a Comiso e Vittoria e in seguito, con l’abilitazione concorsuale, da professore di ruolo presso l’istituto magistrale di Modica e poi di Vittoria dove rimase fino alla pensione, nel 1975, amando sempre il proprio lavoro.
Il nome di Bufalino apparve in una prima pubblicazione per un’opera miscellanea del 1976, Comiso viva, a cura delle edizioni Pro loco della città, di cui fu coordinatore, prefatore e autore di tre sezioni: Una città-teatro, Miseria e malavita a Comiso e Museo d’ombre che poi, ampliato, divenne l’omonimo volume del 1982.
Nel 1981, anno del romanzo d’esordio, morì il padre Biagio mentre la madre Maria gli sopravvisse, spegnendosi centenaria nel 2000.
Diceria dell’untore fu il caso letterario dell’anno per l’età così avanzata di un esordiente, lo stile prodigiosamente alto e barocco del libro e l’(auto)reclusione anonima, quasi monastica, di uno sconosciuto professore dell’estrema provincia siciliana che, nel 1978, con l’introduzione raffinata e sentimentale al volume fotografico della Sellerio Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale sui dagherrotipi ritrovati di due notabili comisani, Gioacchino Iacono Caruso e Francesco Meli Ciarcià, non poté eludere l’attenzione competente e interessata di Elvira Sellerio. Bufalino stesso ha fatto chiarezza sulle tante ricostruzioni postume che hanno accompagnato la pubblicazione del romanzo: «A questo punto entra in ballo l’impareggiabile abilità della signora Sellerio. Mi telefona un giorno e mi dice: “Senta professore, ho fatto una scommessa con i miei amici. Ho detto che sono certa che lei ha un romanzo nel cassetto e che io lo pubblicherò. Per favore non mi faccia perdere”. Potevo dire di no?» (cfr. M. Collura, Incontro a due, parlando di letteratura, in Il Mattino, 6 settembre 1981).
Nel romanzo, definito da Bufalino «sontuoso arazzo mortuario, un’ikebana di parole» e «una specie di seconda pubertà» per l’inattesa sopravvivenza del protagonista-narratore, all’appressamento della morte (la pietà) si coniuga l’esuberanza della parola (la retorica), con i malati reclusi, altri protagonisti del dramma, a partire dalla sodale e amata Marta, in un universo compulsivo e borderline, a calcare una scena alla Pirandello, eterodiretta e surreale: «Si moltiplicano le frasi, quasi tutte pronunciate dall’io narrante o da Marta, riferibili all’area semantica del teatro, che servono a connotare i personaggi come pupi gesticolanti o perplessi abitatori del teatro della vita. E spesso di questi attori si dubita che siano in carne e ossa o siano piuttosto fatti della fuggevole sostanza dei sogni: il che, giusto le suggestioni del teatro di Calderón de la Barca, potrebbe anche essere la stessa cosa» (Traina, 2012, p. 21). Nunzio Zago parla dell’esperienza memoriale convertita in scrittura: «L’arduo mestiere di sopravvivere, ossia l’educazione al grado zero, esistentivo, della vita mediante quella grande manovra della morte che è la malattia: questo sembra, in conclusione il tema ispiratore del libro. Si può anche aggiungere che Diceria dell’untore, pur ammiccando allo schema classico del Bildungsroman, in realtà ne viola la consueta struttura progressiva. Chi dice “io”, infatti, piuttosto che liberarsi narrativamente di una dolorosa esperienza passata, vi rimane voluttuosamente impigliato, e ciò fa sì che il romanzo si svolga secondo un itinerario essenzialmente circolare» (cfr. N. Zago, Gesualdo Bufalino, Catania 1987, p. 24).
Nel 1982 esce per Sellerio Museo d’ombre (Palermo, con dedica «A mio padre, alla sua ombra») e per Einaudi la raccolta di poesie L’amaro miele (Torino). Il primo è un omaggio alla civiltà contadina scomparsa e la ri-scrittura di un mondo passato da sottrarre al disdoro dell’oblio, ricordando personaggi, mestieri, proverbi e detti popolari, sintesi e magia di un paese-museo che non conta più molti sopravvissuti e a maggior ragione necessita di essere raccontato con una nostalgia che sconfigga l’evanescenza di vite trascorse e usi scomparsi.
L’amaro miele, invece, raccoglie poesie risalenti agli anni Quaranta e Cinquanta, soprattutto riferibili all’esperienza in sanatorio, che in una prima idea avrebbero dovuto giustapporsi alla prosa di Diceria, componimenti tanto amati dallo scrittore («Ho cominciato componendo versi e per moltissimi anni non ho scritto prose. L’amaro miele è stata la mia unica opera per decenni ed io mi consideravo soprattutto un poeta»: cfr. S. Palumbo, Articoli ovvero Cere perse, in Gazzetta del Sud, 18 agosto 1985), per una mai sottaciuta ambizione poetica, quanto in pratica ignorati dalla critica, con l’eccezione di Giovanni Arpino.
Sempre nel 1982 Bufalino si unì in matrimonio con l’ex allieva Giovanna Leggio, assieme alla quale diede alle stampe un lavoro a quattro mani, Il matrimonio illustrato (Milano 1989), summa di citazioni d’autori di tutte le letterature sulla vita coniugale.
Il secondo romanzo, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria (Palermo 1984), stabilisce due stilemi cardinali dei romanzi di Bufalino: l’ossimoro come figura retorica portante («L’ossimoro non è una ridondanza, ma una contrazione, non uno scialo ma un’economia», come recita uno degli aforismi raccolti in Il malpensante, lunario dell’anno che fu, in Opere 1981-1988, cit., p. 1045) e la creazione di un personaggio-narratore immerso nella trama come protagonista e voce fuori campo che conduce il lettore nella vicenda. L’ossimoro, coincidentia oppositorum che comprende le antinomie connaturate al reale, cruciale filosofia bufaliniana, come ha sostenuto Maria Corti, trova in quest’opera un’incarnazione felice: «L’accostamento dei contrari o antitesi o ossimoro è fatto intrinseco alla personalità di Bufalino e tale da occupargli luoghi capitali nella natura, nella tematica letteraria e nello stile, come dire che è in un certo senso una sua forma mentale. L’ossimoro determina addirittura l’impianto strutturale di Argo il cieco, dove il protagonista si configura alternativamente il giovane della evocazione memoriale e il sessantenne del presente. A contatto con le proprie origini insulari e l’area vasta della sua cultura egli si definirà un siculo europeo, piuttosto vivace antitesi, e alle prese con Dio parlerà di “inesistenza attiva” per Colui che è “inverosimile ma necessario […] l’ossimoro degli ossimori”» (M. Corti, Introduzione, in Opere 1981-1988, cit., p. IX). Il vecchio che ricorda in una camera d’albergo a Roma accompagna il giovane, sé medesimo, che ha vissuto le illusioni giovanili, unico rimedio, anche nella loro reminiscenza, al trascorrere del tempo, come dichiara lapidariamente l’incipit: «Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate».
Nel 1986, passando all’editore Bompiani che restò poi quello definitivo, Bufalino sperimentò con L’uomo invaso una sorta di pastiche in 22 racconti brevi che recupera molti personaggi letterari o dell’immaginario di tutti i tempi per reinventarli in chiave contemporanea, con un gioco di rimandi metatestuali prediletti dall'autore: «Con i racconti di L’uomo invaso e altre invenzioni B. cerca un ponte fra le prime due opere narrative (la Diceria e Argo il cieco), profondamente ancorate in un’euristica autobiografica, e il futuro romanzo, Le menzogne della notte, di più trionfante narratività» (M. Corti, Introduzione, cit., p. XXIII).
Nel terzo romanzo bufaliniano, Le menzogne della notte (Milano 1988), insignito con il premio Strega, la retrodatazione narrativa immette il lettore in un Ottocento italiano identificabile con il Risorgimento, per l’ultima notte di quattro condannati a morte per cospirazione contro il re. Il riferimento storico risulta un pretesto per un racconto che prescinde da vicende precise e che si concentra sulle confessioni ultime, in limine mortis, di personaggi a confronto fra sé e il proprio carceriere nell’imminenza dell’esecuzione capitale prevista all’alba.
Con il cambio di decennio si verifica una vera e propria cesura stilistica: Calende greche (1992), infatti, «apre potremmo dire il secondo tempo di Bufalino. È una sorta di “libro riassunto” del percorso precedente […]. La “moviola della memoria” si mette in moto insieme per chi scrive e insieme per chi legge. Calende greche, più degli altri libri che seguiranno presenta una rielaborazione e trasposizione letteraria dei materiali autobiografici dell’autore in cui l’aderenza al vissuto reale di B. è più trasparente, così già come in Diceria dell’untore e Argo il cieco. Un’opera di ricapitolazione e riavvio della macchina affabulatoria» (F. Caputo, Introduzione, in Opere/2 1989-1996, Milano 1996, p. XXI).
Il passaggio dall’autobiografismo a una maggiore concentrazione sui meccanismi del racconto è evidente con gli ultimi romanzi che, costruiti a partire dall’impianto del racconto e dall’elaborazione del plot, nella forma di gialli definibili con neologismo d’autore «ilarotragici» (Qui pro quo e Tommaso e il fotografo cieco) oppure mimando le favole dei pupi itineranti, sotto mentite spoglie medievali, per affrontare la tragedia delle stragi mafiose del 1992 (Il Guerrin Meschino), fino al romanzo postumo e inconcluso Shat mat. L’ultima partita di Capablanca che sintetizza, attraverso l’amata e significante metafora del gioco degli scacchi, il prediletto dallo scrittore, questa seconda e ultima fase agonica e agonistica dello scrivere, fra imminenza della fine (il sottotitolo di Tommaso e il fotografo cieco non casualmente recita ovvero il Patatràc) e lotta strenua, con mosse per la sopravvivenza e contenimento degli avversari, visibili e non, per evitare lo scacco matto mortale. Sul campo ristretto e predefinito della scacchiera, come nello spazio angusto e immobile della pagina bianca, lo scrittore prova le sue possibilità di libertà creativa e di sfida all’altro (Altro) giocatore, in una partita lunga e tattica magari perduta in partenza, ma da giocare fino all’ultima pedina.
Forse Bufalino avrebbe preferito però, come per Shah Mat, che tutta la propria opera fosse rimasta postuma, in bilico fra i due estremi simili del silenzio o delle varianti infinite: «Come che sia, ora che, dopo aver esordito ipocritamente come traduttore, mi son lasciato convincere dalla implacabile e adorabile Elvira Sellerio a pubblicare un romanzo (non senza successo, ma io considero equivoca la gloria, figurarsi il successo); ora che, sbalzato dal mio “buco nero” alle luci della Galassia Gutenberg, mi sono visto sconvolgere l’esistenza e i pensieri, ora son portato a concludere, che, sì forse ho sbagliato a non aver cominciato vent’anni o trent’anni or sono, ma certamente ho sbagliato a non aspettare ancora un poco, lasciando le mie carte a sbrigarsela postume con la filologia di non so chi, o più probabilmente a morire incenerite con pace di tutti e mia. Avrei evitato, con altre, la pena di dovermi riassumere in poche battute» (Antologia del Campiello, Venezia 1981, p. 60).
L’amicizia fra Bufalino e il maestro di Racalmuto fu tardiva ma, nella sua brevità, sincera e fedele, anche perché, pur nella differenza netta dei due caratteri e del loro modo di intendere il ruolo della letteratura, il fatto che fossero coetanei, presuppose un background culturale e antropologico, all’insegna di quel provincialismo isolano che significò innanzitutto complicità e vicinanza. L’amore comune fu, naturalmente, per la terra natale, la Sicilia ombelico e archetipo. Bufalino coniò anche un neologismo a riguardo, isolitudine: «Isole dentro l’isola: questo è appunto lo stemma della nostra solitudine, che vorrei con vocabolo inesistente definire “isolitudine”. Se ne rilevano nel nostro carattere due eccessi di segno contrario: l’estroversa ospitale socialità, talora quasi servile, per antidoto dell’essere soli; e l’ombroso, omertoso riserbo, il claustrofilo rifiuto d’ogni contatto e colloquio» (Saldi d’autunno, in Opere/2, cit., p. 640), avvalendosi anche di un’altra parola cara a Sciascia, sicilitudine: «È un termine ripreso da Sciascia per indicare la condizione del siciliano nella sua realtà. Per me la Sicilia significa pluralità di razze, di comportamenti. La Sicilia: nazione plurale (il regno di Sicilia): di questa saviezza e follia insieme, questa razionalità e irrazionalità. Soprattutto l’elemento fondamentale per capire la Sicilia, secondo me, è il teatro, il senso mimico della vita, perché il siciliano è quasi sempre un attore, è un regista di se stesso. In molte forme della vita siciliana si può riconoscere questa teatralità: teatro dei pupi, le feste religiose, i sensali, le risse, la malinconia, i circoli di conversazione, il pessimismo» (S. Marino, Gesualdo Bufalino parla del mistero della vita e dell’arte, in Idea, ottobre 1985, p. 26).
Per spiegare la differenza stilistica fra lui e Sciascia, Bufalino usò spesso la metafora degli scrittori umidi contrapposti a quelli asciutti: «Provo per lui un affetto immenso, che va al di là di ogni giudizio letterario. Una volta scherzosamente gli dissi questa frase: “Amo gli scrittori umidi e ammiro gli scrittori asciutti». A lui piacque molto, la fece propria ma capovolgendola: “Amo gli scrittori asciutti ma ammiro quelli umidi”. Dove, ovviamente, umido stava per Bufalino, asciutto per Sciascia» (R. Sala, Cari vecchi, maestri della memoria, in Il Messaggero, 16 febbraio 1995).
Morì nel pomeriggio del 14 giugno 1996 in un incidente stradale, a bordo dell’auto condotta da un amico, sulla strada statale 115 Comiso-Vittoria.
L’attività di traduttore per Bufalino fu sempre endemica e parallela alla scrittura di testi propri, a cominciare da una fedeltà precoce e irriducibile per Baudelaire, presentatasi, nella carenza di strumenti culturali nella Comiso degli anni Trenta, come una vera e totale fascinazione letteraria, fino a tentare, giovanissimo, una improbabile trasposizione al buio in italiano dei Fiori del male: «Nel 1936 avevo 16 anni. Mi venne in mano, nella profonda provincia dove vivevo, una traduzione in prosa delle Fleurs du mal, che portava segnati per avventura gli stacchi fra strofa e strofa. Questo mi consentì, essendomi inaccessibile l’originale, l’impresa abbastanza eroica d’una retroversione, in virtù, appunto, di questi spazi bianchi, che, isolando quartine e terzine, aiutavano a trovare all’interno di ciascuna, con certosina polizia, i mots-sésame delle rime. Ne ricavai emozioni vicarie di non spregevole natura, ma altresì una finale mortificazione quando, anni dopo, potei confrontare con l’originale i miei maleducati restauri». (G. Bufalino, Introduzione, in C. Baudelaire, I fiori del male, Milano 1983, 2013, p. XX).
Negli anni le traduzioni riguardarono soprattutto la lingua d’elezione, per Bufalino come per molti siciliani della sua generazione, il francese, con una incursione nella letteratura latina (Terenzio, I due fratelli, Siracusa 1983; ripubbl. con il titolo I fratelli, a cura di S. Beta, Milano 1996) e una in quella spagnola (R. Gómez de la Serna, Sghiribizzi, Milano 1997).
In ordine cronologico: J. Giraudoux, Susanna e il Pacifico, Palermo 1980; M. de la Fayette, L’amor geloso, Palermo 1980; E. Renan - J. Giraudoux, Due preghiere, Palermo 1981; P.-J. Toulet, Le controrime, Palermo 1981; C. Baudelaire, Trentatré Fiori del Male, Reggio Emilia 1982; V. Hugo, La leggenda della monaca, Milano 1985; V. Hugo, Le orientali, Palermo 1985; C. Baudelaire, Per Poe, Palermo 1988; C. Baudelaire, 39 Fiori del Male, Milano 1997.
Le opere principali di Bufalino sono raccolte nei due volumi dei Classici Bompiani. Il primo, Opere. 1981-1988 (a cura di M. Corti - F. Caputo, con introd. di M. Corti, Milano 1988), contiene: Diceria dell’untore, Palermo 1981; Museo d’ombre, Palermo 1982; L’amaro miele, Torino 1982; Argo il cieco, Palermo 1984; Cere perse, Palermo 1985; L’uomo invaso, Milano 1986; Il malpensante, lunario dell’anno che fu, Milano 1987; Le menzogne della notte, Milano 1988; La luce e il lutto, Palermo 1988; Istruzioni per l’uso (di Diceria dell’untore), La Panchina, uno dei testi teatrali del Trittico, con Catarsi di V. Consolo e Quando non arrivarono i nostri di L. Sciascia e A. Di Grado, a cura di A. Di Grado - G. Lazzaro Danzuso, Catania 1989. Il secondo, Opere/2. 1989-1996 (a cura e con introd. di F. Caputo, Milano 1996), contiene: Calende greche, Milano 1992; Qui pro quo, Milano 1991; Il Guerrin Meschino, Valverde 1991, poi Milano 1993; Tommaso e il fotografo cieco, Milano 1996; Shah mat, Milano 1996; Saldi d’autunno, Milano 1990; Bluff di parole, Milano 1994; Il fiele ibleo, Cava dei Tirreni 1995; Scritti sparsi e, in appendice, Reperti giovanili, Ultimi versi e Interviste.
Si vedano inoltre: Dizionario dei personaggi di romanzo da Don Chisciotte all’Innominabile, Milano 1982; Dicerie coniugali. 62 pensieri lievi e gravi sul matrimonio proposti da una coppia nuovissima a uso delle coppie più anziane (in collab. con la moglie e una xilografia di B. Brancato), Comiso 1983, ed. non venale; Gli amici della Noce 5 (con un’incisione originale di L. Cottini), Racalmuto-Milano 1983 (contiene il racconto Il vecchio e l’albero, poi confluito ne L’uomo invaso); Mod. 740 (con un’acquaforte di F. Rognoni), Milano 1984 (elzeviro poi confluito, col titolo Il gabelliere e le Muse, in Cere Perse); La bellezza dell'universo (con tre disegni e un'incisione di A. Manfredi), Cava dei Tirreni 1986 (racconto poi confluito ne L’uomo invaso); Saline di Sicilia, Palermo 1988; Il matrimonio illustrato. Testi d’ogni tempo e paese scelti per norma dei celibi e memoria dei coniugati (in collab. con la moglie), Milano 1989; Invito alle «Fêtes galantes» di Verlaine (con incisioni di C. Tolomeo), Milano 1989 (testo confluito in Saldi d’autunno); Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, Taormina… 1988, con un profilo di G. Amoroso, Catania 1989, ed. non venale; L’arancia d’oro. Frammento di memoria (con una litografia di A. Ciarrocchi), Urbino-Montefeltro 1990 (testo confluito in Calende greche); Da stigma a stemma. Il malato come eroe letterario, Roma 1990; lettura magistrale svolta il 27 ottobre 1990 presso il teatro Vittorio Emanuele di Messina, in occasione del XCI Congresso nazionale della Società italiana di medicina interna (testo confluito in Pagine disperse); Le ragioni dello scrivere, a cura di L. Giordano, Catania 1991, ed. non venale; L’inchiostro del diavolo (con un’acquaforte di M. Gosso), Milano 1991 (elzeviro già pubbl. in Cere Perse); Pagine disperse, a cura di N. Zago, Caltanissetta-Roma 1991, ed. non venale; Rondò della felicità (con tre acqueforti di P. Guccione), Trento 1991; Sillabario del peccato (con una serigrafia di S. Fiume), Manduria-Bari-Roma 1992 (testo confluito in Calende greche); Il tempo in posa. Immagini di una Sicilia perduta, fotografie di G. Iacono Caruso, F. Meli Ciarcià, C. Arezzo, C. Melfi, Palermo 1992 (contiene un Antefatto e i saggi Due fotografi a Comiso, cent’anni fa, già in Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale, Palermo 1978, e Il clic impuro del 1986, poi in La luce e il lutto, Palermo 2000, con una introd. di D. Mormorio); Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto. Antologia di testi, in collab. con N. Zago, Scandicci 1993; A. Romanò - G. Bufalino, Carteggio di gioventù (1943-1950), cit.; Dialogo di un Arcidiavolo e d’un Arcangelo nel foyer d’un teatro a una “prima” del Don Giovanni, in W.A. Mozart, Don Giovanni, Catania 1994; I languori e le furie. Quaderni di scuola (1935-38), Valverde 1995; Lettera di Capodanno (con disegno di P. Guccione), Cava dei Tirreni 1995, ed. non venale (poesia confluita in Tommaso e il fotografo cieco); L’enfant du paradis. Cinefilie, con prefaz. di V. Zagarrio e postfaz. di A. Di Grado, Comiso 1996; Antico Angelus. Quaderno di poesie (con 15 litografie di G. Meloni), Verona 1997; Favola del castello senza tempo, Monte Cremasco 1998; Questionario Proust (con una xilografia di A. Porazzi e una nota di N. Zago), Milano 1999, ed. non venale (già pubbl. in Bluff di parole).
C. Di Biase, Il mistero della morte in «Diceria dell’untore», in Studium, LXXVII (1981), 5, pp. 603-608; C.A. Madrignani, Diceria dell’untore, in Belfagor, XXXVI (1981), 5, pp. 613 s.; R.M. Monastra, La diceria dell’untore ovvero il perturbante esorcizzato con rito letterario, in Le Forme e la storia, 1981, gennaio-agosto, pp. 367-376; S. Lanuzza, Poesia nella stanza degli specchi, in Il Ponte, XXXVIII (1982), pp. 911-936; E. Pellegrini, Narrativa italiana oggi: un grafico per l’immaginario, ibid., pp. 1214-1230; E. Esposito, Un’annata poetica fra lingua e dialetto, in Belfagor, XXXVIII (1983), 1, p. 114; A. Zambardi, B. e la memoria, in Studium, LXXXII (1986), 2, pp. 268-271; N. Zago, G. B., Catania 1987; R. Bertacchini, B. e la delazione, in Il Cristallo, XXXI (1988), 2, pp. 35-44; G. Ruozzi,Le massime di un malpensante, fra libri, giochi, ricordi, in Studi e problemi di critica testuale, 1988, n. 36, pp. 181-216; G. Amoroso, Profilo di B., in appendice a G. Bufalino, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid?, cit., pp. 175-206; B. Pischedda, Istoriar romanzi, in Belfagor, XLIV (1989), 2, pp. 194-202; R. Castagnola, G. B. La vita come menzogna, la parola come epitaffio dei sogni, in Cenobio, XXXIX (1990), 3, pp. 228-236; V. Della Valle, La lingua di G. B., in Studi linguistici italiani, XVII (1990), 2, pp. 282-294; G. Traina, Presenze linguistiche e tematiche della poesia montaliana in «Diceria dell’untore» di G. B., in Siculorum Gymnasium, n.s., XLIII (1990), 1-2, pp. 239-271; V. Sebben, «Diceria dell’untore» de G. B.: la citation comme base d’une écriture funeraire et somptueuse, mémoire presentato all’Università degli studi di Lovanio, sotto la direzione di M.A. Sempoux, giugno 1991; S. Russo, I temi della Sicilia e della morte nelle opere di G. B., in Studi novecenteschi, XIX (1992), 43-44, pp. 50-82; D. Chambet, Le séquestré de Comiso ou le complexe de Schéhérazade, in Critique, IL (1993), 53-54, pp. 409-420; G. Arbona, Desiderio e parola: G. B., in Il Nuovo Areopago, n.s., XIV (1995), 1, pp. 100-110; S. Lazzarin G. B.: questioni editoriali e interpretative, in Italianistica, XXIV (1995), 1, pp. 195-206; E. Papa, G. B., in Belfagor, LII (1997), 5, pp. 561-577; L. Clerc, B. ou l’éloge du blasphème, in Italies, 2000, n. 4/1, pp. 403-424; C. Biazzo Curry, La sicilianità come teatralità in Sciascia e B., in Quaderni d’italianistica, XXII (2001), 2, pp. 139-157; M. Guglielminetti, Diceria neopirandelliana anzi soliloquio ironico, in Stilos, 5 marzo 2001; R.M. Monastra, B. e il linguaggio biblico-cristiano: tra pietà ed empietà, in Rivista di studi italiani, XIX (2001), 2, pp. 107-118; M. Cassarino, Uno scrittore e la sua terra: G. B. e la Sicilia “babba”, in Sinestesie, I (2002), 2, pp. 45-56; A. Cinquegrani, La partita a scacchi con Dio, Padova 2002; N. Zago, Il tour ibleo di G. B., in Ulisse, XXII (2002), 220, pp. 84-97; G. Ceccuti, B. in bianco e nero. La notte, gli scacchi, la letteratura, in Otto/Novecento, XXVIII (2004), 2, pp. 95-114; M. Paino, Diceria dell’autore, Firenze 2005; C. Vovelle, La littérature chevaleresque à travers le double filtre du théâtre des Pupi et de l’introspection dans «Il Guerrin Meschino» de G. B., in Collection de l’É.C.R.I.T., 2005, n. 10, pp. 295-311; C. Carmina, Fasti seicenteschi nella scrittura di G. B., in Archivi del Nuovo, 2006, n. 18-19, pp. 107-117; N. Zago, Qualcuno bussa alla porta. Capablanca e B., in G. Bufalino, Shah mat. L’ultima partita di Capablanca, cit., pp. 69-94; A. Cinquegrani, Shah mat. La profezia nera di G. B., in Ermeneutica letteraria, 2007, n. 3, pp. 161-176; A. Accardi, B. e Mallarmé: la ricerca del dolore, in Esperienze letterarie, XXXIII (2008), 2, pp. 91-109; E. Imbalzano, Di cenere e d’oro: G. B., Milano 2008; G. Cacciatore, Nel laboratorio di B., in Critica letteraria, 2010, n. 4, pp. 777-799; I. Pupo, Una faccenda pirandelliana, oltre che borgesiana. Sciascia, B. e la fotografia, in Passioni della ragione e labirinti della memoria. Studi su Leonardo Sciascia, Napoli 2011, pp. 131-152; G.Traina, «La felicità esiste, ne ho sentito parlare». G. B. narratore, Cuneo 2012; M. Paino, La stanza degli specchi. ‘Esercizi di lettura’ sui romanzi di B., Roma-Acireale 2015; A. Sciacca, Le visioni di G. Immagini e tecniche foto-cinematografiche nell’opera di B., Roma-Acireale 2015; N. Zago, I sortilegi della parola. Studi su G. B., Leonforte 2016.
Fra gli studi miscellanei: A. Marchese, G. B., in Novecento siciliano, I, Catania 1986, pp. 365-377; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze della prosa contemporanea, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi - N. Sapegno, Il Novecento, II, Milano 1987, pp. 648-650; D. Barone, Discorso su B., in L’immaginario letterario in Sicilia, Caltanissetta-Roma 1988, pp. 110-126; Nuove Effemeridi, V (1992), 18 (n. speciale dedicato a B.); P. Hainsworth, G. B.: Baroque to the Future, in «The New Italian Novel», a cura di Z. Baranski - L. Pertile, Edinburgh 1993, pp. 20-34; Centro studi Feliciano Rossitto, Simile a un colombo viaggiatore. Per B., a cura di N. Zago, Comiso 1998; A. Punzi, Diceria dell’untore, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Dizionario delle opere, I, Torino 1999, pp. 354 s.; F. Di Legami, Il sanatorio, la fortezza, la stanza di B. Scenari simbolici di complessità, in Il castello, il convento, il palazzo e altri scenari dell'ambientazione letteraria, a cura di M. Cantelmo, Firenze 2000, pp. 81-116; N. Zago, B. e le arti figurative, in I segni incrociati. Letteratura italiana del '900 e arte figurativa, a cura di M. Ciccuto, II, Viareggio 2002, pp. 359-372; B. narratore, a cura di N. Zago, Comiso 2002; Fondazione Gesualdo Bufalino, B. e il jazz, a cura di G. Sole, Comiso 2004; F. Pisanelli, La Sicile au miroir: Leonardo Sciascia et G. B., in L’insularité, a cura di M. Trabelsi, Clermont-Ferrand 2005, pp. 467-488; Le voleur de feu. B. e le ragioni del tradurre, a cura di C. Rizzo, Firenze 2005; G. B. e la scrittura felice, a cura di A. Sichera, Ragusa 2006; P. Citati, Ritratto di G. B., in Id., La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, Milano 2008, pp. 379-383.
Fra i contributi in convegni dedicati a B. si vedano in particolare: M. Paino, B. e le sue “ragioni”, in La parola quotidiana. Itinerari di confine tra letteratura e giornalismo, Atti del convegno, Catania… 2002, a cura di F. Gioviale, Firenze 2004, pp. 155-172; G. Bonanno, La malattia come ossimoro in G. B., in Il discorso della salute. Verso una sociosemiotica medica, Atti del XXXII congresso della Associazione Italiana di studi semiotici, Spoleto… 2004, a cura di G. Marrone, Roma 2005, pp. 434-440; R.M. Monastra, «Le menzogne della notte», ovvero La fortezza degli inganni incrociati, in Carceri veri e d’invenzione dal tardo Cinquecento al Novecento, Atti del convegno internazionale di studi, Ragusa-Comiso… 2007, a cura di G. Traina - N. Zago, Acireale-Roma 2009, pp. 621-634.
Parte consistente degli scritti di e su B. è costituita da interviste, quasi tutte inedite in volume, per le quali si può fare riferimento a Le interviste a G. B., diss. di dottorato di Davide Ferreri in culture classiche e moderne, corso di filologia, interpretazione e storia dei testi italiani e romanzi (XXIV ciclo), discussa presso l’Università degli studi di Genova nell’a.a. 2011-2012, tutor prof. Franco Contorbia. Nel secondo volume dell’opera omnia ne vengono riportate quattro.
L’amico Franco Battiato, oltre ad aver dedicato a B. l’album L’imboscata (1996), ha girato un docufilm (libro e dvd, Milano 2010) per quelli che sarebbero stati i 90 anni dello scrittore, intitolato Auguri don Gesualdo.