gesuiti
I g. occupano un ruolo di punta nell’antimachiavellismo (→) cattolico. Kaspar Schoppe, nella Machiavellicorum pars posterior, narra un episodio emblematico:
i gesuiti di Ingolstadt, famosi in tutta la Germania, nel corso di un’affollata adunanza, nel 1615, bruciarono un’effige di Machiavelli, cui avevano aggiunto questa sentenza: uomo scaltro e subdolo, gran fabbro di cogitazioni diaboliche, ausiliario di Satana (il testo latino in O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 1° vol., 1883, p. 70).
Il destino ha però voluto che proprio la Biblioteca gesuitica di Ingolstadt ci conservasse un pregiatissimo codice del De principatibus (oggi Monaco di Baviera, Universitätsbibliothek, quarto 787).
Ribadeneira e l’antimachiavellismo cattolico nel Cinque e Seicento. Pedro de Ribadeneira (Toledo 1526 - Madrid 1611), segretario e uomo di fiducia di Ignazio di Loyola, entrò giovanissimo nella Compagnia di Gesù, appena fondata (1534). Dopo aver studiato a Parigi e a Padova, fu docente di retorica al Collegio romano. Assunse poi notevoli incarichi per la Compagnia, essendo molto stimato anche dai successori di Ignazio, Diego Laynez e Francesco Borgia, che gli affidarono la guida della provincia di Toscana e di quella siciliana. In seguito alla politica antispagnola di Gregorio XIII, venne allontanato insieme ai g. suoi connazionali dall’Italia e rientrò in Spagna, prima a Toledo e poi a Madrid. In quest’ultima fase della sua vita, più che trentennale, si dedicò all’attività letteraria. A Madrid nel 1583 fu pubblicata in castigliano la biografia di sant’Ignazio, già edita in latino nel 1569, cui fecero seguito, sempre in castigliano, le vite di Borgia (1592), di Laynez e di Alfonso Salmerón (1594), precedute nel 1588, ancora a Madrid, dalla Historia eclesiástica del cisma del Reyno de Inglaterra e nel 1589 dal Tratado de la tribulación: tutte opere di successo così come il Libro de las vidas de los santos (Madrid 1599). A Madrid, nel 1595, dedicato al futuro Filippo III, fu stampato il Tratado de la Religión y Virtudes que debe tener el Príncipe Christiano, para gobernar y conservar sus estados contra lo que Nicolás Maquiavelo y los políticos de este tiempo enseñan, che ebbe successive riedizioni ad Anversa e Madrid e traduzioni in latino, francese e italiano.
L’opera di Ribadeneira si inserisce nella stagione dell’antimachiavellismo cattolico, negli ultimi decenni del Cinquecento molto fervida e sollecitata dagli stessi ambienti curiali romani, della quale sono protagonisti l’oratoriano Tommaso Bozio (→), ma soprattutto i gesuiti. Fra questi, notevole più per la sua rinomanza che per la qualità del suo Iudicium de Nicolai Machiavelli quibusdam scriptis (Roma 1592), è Antonio Possevino, diplomatico al servizio della Chiesa romana nell’Europa settentrionale e orientale e poi influente scrittore, fra le cui opere è famosa la Bibliotheca selecta. Il Tratado del gesuita spagnolo è una esposizione ampia e sistematica dei capi d’imputazione contro il Segretario fiorentino divulgati nella Societas Iesu e nella Chiesa della Controriforma.
L’antimachiavellismo gesuitico seicentesco sarebbe poi continuato da parte di autori come Claude Clément, gesuita borgognone prima docente a Lione e poi insegnante di erudizione al Collegio imperiale di Madrid, e Thomas Fitzherbert, sacerdote inglese, entrato nella Compagnia nel 1613 (e quindi dopo aver composto la sua opera contro il Segretario) e rettore del Collegio inglese di Roma per più di vent’anni.
Le pagine di Ribadeneira risentono del clima politico-religioso caratterizzato dalle guerre di religione in Francia, dove, in seguito alla strage di san Bartolomeo, si era sviluppato un acceso antimachiavellismo ugonotto (si pensi all’Anti-Machiavel → di Innocent Gentillet →), che aveva addebitato al pensatore fiorentino la politica ‘criminale’ di Caterina de’ Medici. Per giunta, sedate le guerre di religione con l’ascesa al trono francese di Enrico IV, si avviavano trattative di riappacificazione fra la Chiesa romana e il Borbone che, con l’editto di Nantes, avrebbero sancito una compresenza tollerata di due confessioni in Francia. Infine, sempre in Francia, dopo l’uccisione del re per mano di François Ravaillac (maggio 1610), fu condannato dal Parlamento di Parigi il libro di Juan de Mariana, De rege et regis institutione (1599), accusato di giustificare il regicidio, che provocava imbarazzo e disagio nella stessa Compagnia.
D’altra parte, i conflitti politico-religiosi alla fine del 16° sec. erano catalizzati anche da un altro fronte, la guerra fra Spagna e Inghilterra, il cui scisma infatti attrasse in modo precipuo l’attenzione di Ribadeneira. La monarchia spagnola si presentava, quindi, quale baluardo della Chiesa romana e non a caso il libro antimachiavellico di Ribadeneira era dedicato al futuro Filippo III. Per di più, l’Inghilterra fu al centro di un durissimo scontro fra re Giacomo I, con i suoi teologi anglicani, e la Compagnia. Ai g. fu addebitata la responsabilità della fallita Congiura delle polveri (nov. 1605), che avrebbe dovuto provocare una devastante esplosione nel Parlamento durante la seduta inaugurale alla presenza del sovrano. Giacomo I ne profittò per imporre ai cattolici inglesi l’Oath of allegiance («giuramento di fedeltà»), contro il quale si scagliò una copiosa pubblicistica da parte dei g., a cominciare da Roberto Bellarmino (→) e Francisco Suárez. In questa occasione il re e i suoi teologi stigmatizzarono i g., in particolare il loro superiore inglese Henry Garnet (che fu condannato a morte per essere ritenuto autore della Congiura delle polveri), per l’adozione di una strategia ‘machiavellica’, ossia per il fatto di non rispondere con franchezza alle domande dei giudici, ma di nascondere la verità mediante la aequivocatio, vale a dire l’ambiguità linguistica e la dissimulazione. Negli stessi anni, i g. furono fra i protagonisti delle polemiche suscitate dall’Interdetto di Venezia, nelle quali il nome di M. era spesso evocato, ora da una parte ora dall’altra, contro gli avversari.
Il Tratado di Ribadeneira è una sintetica summa degli argomenti dell’antimachiavellismo cattolico e tale caratteristica ne spiega la fortuna. Il g., in modo coerente con la Ratio studiorum, si avvale delle fonti classiche e anche ermetiche, da Platone ad Aristotele a Ermete Trismegisto a Giamblico a Cicerone e Orazio, e cita gli stessi scrittori prediletti da M., come Tito Livio e Senofonte. È l’esibizione di una cultura umanistica, ma piegata agli scopi controriformistici. Alla stessa stregua, il g. (ma gli esempi di altri autori della Compagnia potrebbero moltiplicarsi) menziona non solo pagine bibliche, ma anche episodi tratti dalla storia medievale e moderna, per dimostrare che il principe deve rispettare Dio, la Chiesa e le sue immunità e che il successo arride ai regnanti cattolici. Si palesa, dunque, un duplice apparato di prove di giustificazione dell’accordo fra cattolicesimo e politica: per un verso, argomentazioni razionali fondate su fonti classiche e, per l’altro, una accumulazione manieristica di eventi che ne comprovano la verifica storica.
Ribadeneira, così come Possevino e Bellarmino, comprende che l’opera politica di M. ha segnato una netta cesura e divaricazione rispetto al paradigma aristotelico-tomistico, al quale egli e i suoi confratelli restano fedeli. Il g. spagnolo è consapevole della radicale e ‘scandalosa’ novità rappresentata dal Segretario fiorentino, che aveva scardinato il nesso fra politica e bene, fra etica cristiana e res publica, proprio della tradizione medievale. È questa la ragione che induce Ribadeneira e i g. a considerare M. la radice di una concezione diabolica della politica, in seguito sviluppata dalla ragion di Stato, dal tacitismo e dai politiques (nei primi decenni del Seicento, il gesuita francese François Garasse avrebbe esteso la censura anche ai libertini).
Tuttavia, Ribadeneira non assume un atteggiamento di rifiuto inappellabile della politica moderna. Cerca piuttosto, secondo il metodo prediletto dalla Compagnia, di assimilare e trasformare alcuni aspetti di tale politica, per renderli compatibili con i princìpi del cattolicesimo romano. Per tali aspetti, l’antimachiavellismo gesuitico inclina alla mediazione, all’adattamento delle istanze moderne, subordinandole al magistero ecclesiastico e, in modo peculiare, papale. E, quindi, non è accolta l’anacronistica potestas directa e immediata del papa negli affari politici, ma viene sostenuta la potestas indirecta, secondo la limpida formulazione bellarminiana. Ancora, non è condannata in blocco la ragion di Stato, in quanto essa può essere sia demoniaca sia cristiana, come aveva insegnato Giovanni Botero, e le stesse tattiche simulatorie e, soprattutto, dissimulatorie possono accettarsi, purché rivolte al bene della Chiesa. Questo comportamento dei g. non di attacco frontale, ma di mediazione e, si potrebbe dire, di adaequatio rei et religionis può peraltro essere riscontrato anche in altri ambiti, in specie quello etico, come attestano il casuismo e il molinismo.
Laddove, invece, l’attacco gesuitico non accetta compromessi è sulle premesse fondanti dell’azione politica e sulle pagine machiavelliane riguardanti la Chiesa di Roma. Gli argomenti, che vengono svolti contro M. riguardano, soprattutto, il ruolo della Provvidenza nella storia e nella politica. I g., più di tutti, subito percepiscono che la politica machiavelliana è senza fundamentum, che essa non è garantita da un ordine metafisico o naturale o teologico. La politica, per il Segretario, è prassi che vive delle contraddizioni, delle antinomie, delle aporie della realtà, senza l’illusione di anestetizzarle con il richiamo a un kosmos di norme stabilite e fisse. La politica, immersa in un divenire eracliteo al quale deve adeguarsi, è una tensione ellittica fra conflitto e unità. Infatti, se l’unità, assicurata dalle armi proprie, dalle leggi e dalla religione, soffoca il conflitto socioistituzionale, la vita di una res publica diventa asfittica e inefficace. D’altro canto, se il conflitto diventa fazioso senza sfociare nel ‘bene comune’, la comunità viene travolta dal continuo mutare degli eventi. Tale concezione presuppone che nessun intervento divino guidi la mano del principe: l’azione del principe è un agone meramente mondano, che cimenta la sua responsabilità e la sua libertà. La conseguenza è che non solo la Chiesa venga aspramente stigmatizzata da M. per la sua corruttela, ma che essa non possa rivendicare alcun ruolo politico. Anzi, la sua azione era stata nefasta, avendo impedito la realizzazione di una unità statale in Italia.
I g. contestano le tesi machiavelliane, per un verso, appellandosi al modello aristotelico-tomistico e a una concezione organicistica (che li induce a ripudiare la valorizzazione del conflitto da parte del Segretario) e, per l’altro, esaltando il ruolo della Provvidenza attraverso la mediazione ecclesiastica e pontificia. In tale visione, lo Stato, essendo un ens naturalis, si inquadra in un ordine divino, che si epifanizza nella storia attraverso l’azione della Chiesa. In questo modo, la politica non è abbandonata all’alea del divenire storico e non viene affidata alla ‘tragica’ scelta del principe, che percorre un angusto crinale fra «ruina» e «salute» della res publica: Dio assiste il principe, purché egli sia virtuoso e obbediente alla Chiesa di Roma e al suo papa.
Lo stesso rilevante concetto machiavelliano di «occasione» viene trasvalutato dai g. e diventa non più il kairòs della «virtù» politica, ma la ‘provvida sventura’, attraverso la quale Dio fortifica i suoi seguaci e li conduce al bene. La storia, come affermano Ribadeneira e i g. con una profluvie, sempre ossessivamente ribadita, di esempi, dimostra che i principi fedeli, e difensori della Chiesa cattolica, sono guidati dalla Provvidenza divina e dalla sua mediazione ecclesiastica che ne garantiscono il successo e la prosperità. Anche se i g. convalidano la derivazione popolare del potere (e tale sottolineatura li ha accreditati di un presunto democraticismo), essa deve essere mediata, interpretata e vidimata dall’autorità ecclesiastica, come attestano i rituali della unzione e della incoronazione.
Infatti, i teorici politici della Compagnia, ricusando una concezione assolutistica della sovranità, giustificano la ‘monarcomachia papale’, ossia il diritto del pontefice, qualora accerti il carattere scismatico o eretico o anticlericale del principe, di scomunicarlo, deporlo ed emancipare il popolo dalla sua obbedienza. I fallimenti e le sconfitte sono, dunque, derivati non dalla imperizia militare e politica dei principi, ma dal castigo divino per i peccati loro e dei loro popoli. Anche il concetto di tirannide acquista una nuova accezione: in sostanza, la tirannide si identifica con il machiavellismo, vale a dire con una politica non ossequiosa verso i dettami divini ed ecclesiastici.
Per giunta, mentre M. encomia la virtus dei principi, il cui premio è la mera gloria umana, i g., per riprendere il loro motto, ritengono che il principe debba agire ad maiorem Dei gloriam et Ecclesiae et papae («per la maggior gloria di Dio, della Chiesa e del papa»). In questa guisa, il principe, seppur autonomo e libero nelle operazioni, che non intacchino il potere ecclesiastico, viene inserito, non appena la sua politica sfiori questioni di attinenza ecclesiastica, in un reticolo obbedienziale che, partendo dal confessore personale, culmina nell’autorità dei vescovi e del papa. Non è ammessa, quindi, alcuna libertà di coscienza o tolleranza verso gli eretici. Per di più, i g. antimachiavellici non si sentono esonerati dal dare ai principi consigli specifici per l’amministrazione di una equa giustizia e di una politica finanziaria che non risulti vessatoria.
La politica, dunque, è teologicamente fondata e la parola divina è tradotta dalla Chiesa romana. Tale fondamento, però, non è un mistero, non è la terribile predestinazione calvinista. La politica non viene esiliata dalla volontà divina da un’abissale lontananza. La Provvidenza si rende manifesta, visibile nella storia attraverso la Chiesa. In fondo, la cultura della Controriforma, nella quale si inserisce pienamente l’antimachiavellismo gesuitico, è una cultura di mediazione fra divino e umano attraverso l’istituzione ecclesiastica, in risposta alla luterana e riformata distruzione di ogni intermediario sacramentale fra terra e cielo.
Appare qui in tutta la sua evidenza il tema della visibilità della Chiesa cattolica, illustrato in un memorabile saggio di Carl Schmitt (1923). La visibilità, che mai come nel periodo della Controriforma la Chiesa di Roma intese evidenziare per manifestare in una tangibile concretezza il suo ruolo di istituzione fra Dio e l’uomo, fu celebrata nella straordinaria stagione barocca (in particolare nelle chiese gesuitiche), che caratterizza proprio i Paesi cattolici durante la maggiore diffusione dell’antimachiavellismo. Non a caso, nel testo fondativo della Compagnia, gli Esercizi spirituali, Ignazio di Loyola raccomanda una visione interiore, mediante l’occhio della mente, degli episodi evangelici e dei misteri divini, quale sussidio alla meditazione e alla preghiera quotidiane. E, infatti, Roland Barthes ha parlato dell’«imperialismo radicale dell’immagine» (1971, trad. it. 2001, p. 55) nell’opera ignaziana.
L’uomo, per la Chiesa della Controriforma, non viene lasciato solo davanti a Dio, ma tutta una serie di intermediari, a cominciare dal confessore fino al papa, è rappresentanza di Dio, così come la Madonna e i santi appaiono nell’arte barocca, propiziando l’incontro del fedele con la trascendenza. Lo stesso principe non è abbandonato al destino tragico della sua lotta con fortuna, caso, accidente, ma viene sollecitato e corretto nella sua prassi politica. Il provvidenzialismo storico e politico dei g. induce a non assimilare il loro antimachiavellismo al paradigma conservativo e alla governamentalità, propri della ragion di Stato, anche se temi e suggestioni di quest’ultima ne tramano in parte la tessitura teorica. Nella letteratura antimachiavellica della Societas Iesu è prevalente il tema del rapporto fra trascendenza e politica mediante la Chiesa e il papato, e ciò comporta non soltanto conservazione, ma anche progresso storico. La Provvidenza non solo preserva e difende, ma provoca un accrescimento storico (per esempio, scoperte, conquiste, missioni, delle quali i g. erano protagonisti), perché, come ammonisce il dettato evangelico, alla fine dei tempi sarà presente un solo pastore e un solo gregge.
Una riflessione originale nell’antimachiavellismo gesuitico a metà del 17° sec. è quella espressa da uno degli esponenti più illustri del Siglo de oro, Baltasar Gracián, che tuttavia ebbe una «vida alternante» (Batllori 1958) all’interno della Compagnia. L’atteggiamento dello scrittore spagnolo è ambivalente. In effetti, egli estremizza il machiavellismo o, per meglio dire, lo trasmuta in un ‘machiavellismo capillare’. Tutte le strategie comportamentali che lo accreditano, dalla simulazione alla dissimulazione alla prudenza a una virtù mondana, vengono suggerite da Gracián a chiunque voglia eccellere. Ma egli assimila anche la più dura condanna del Segretario fiorentino: il successo della sua opera è uno dei sintomi più evidenti della decadenza del mondo contemporaneo. M. è accusato di falsità e di inganno; la sua teoria è una sentina di vizi e peccati: razones no de estado, sino de establo («ragioni non di Stato, ma di stalla», Criticón, primera parte, crisi séptima, p. 873). Sia il Principe di M. sia la République di Jean Bodin sono contrari alla ragione e denotano la rovina e la malignità di questi tempi (Criticón, secunda parte, crisi cuarta, p. 1003).
Sempre a metà del 17° sec., l’antimachiavellismo gesuitico risulta indirettamente lumeggiato dal suo più acuto antagonista, Blaise Pascal. L’atteggiamento di Pascal verso M. è una specularità rovesciata di quello dei g.: tanto è esibito e polemico quest’ultimo, tanto è immerso in un significativo silenzio quello del pensatore francese. Questi (contrariamente all’aristotelismo tomistico della Compagnia), sulla base di un dualismo agostiniano fra città di Dio e città dell’uomo, si rassegna all’accettazione di una politica machiavelliana non ancorata alla giustizia trascendente e non illuminata da alcun raggio divino. E, infine, il suo radicalismo cristiano lo porta a essere il più sarcastico avversario delle strategie di mediazione con il Saeculum da parte dei g., dal casuismo al molinismo alla dissimulazione.
Bibliografia: Fonti: P. de Ribadeneira, Vida del Padre Ignacio de Loyola, fundador de la religión de la Compañía de Iesús, Madrid 1583 (trad. it. Milano 1998); A. Possevino, Iudicium De Nuae militis Galli scriptis, quae ille Discursus politicos, & militares inscripsit. De Ioannis Bodini Methodo historiae: Libri de Repub. & Demonomania. De Philippi Mornaei libro de Perfectione Christiana. De Nicolao Machiavello, Roma 1592; T. Fitzherbert, An sit utilitas in scelere vel de infelicitate principis macchiavellani, contra Macchiavellum et politicos eius sectatores, Roma 1610; R. Bellarmino, De officio principis christiani libri tres, Roma 1619; F. Garasse, La doctrine curieuse des beaux esprits de ce temps ou prétendus tels, contenant plusieurs maximes pernicieuses à la religion, à l’Estat et aux bonnes moeurs, Paris 1624; C. Clément, Dissertatio christiano-politica ad Philippum IV regem catholicum, in qua machiavellismo ex impietatis penetralibus producto et iugulato, firmitas, felicitas et incrementa hispanicae monarchiae atque austriacae majestatis, gubernationi et christianae sapientiae legibus accepta referentur, Madrid 1636; P. de Ribadeneira, Il principe cristiano, 2 voll., Siena 1978; P. de Ribadeneira, Historias de la Contrarreforma, Madrid 2009; B. Gracián, Obras completas, a cura di S. Alonso, Madrid 2011.
Per gli studi critici si vedano: C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, Hellerau 1923 (trad. it. Bologna 20102); M. Batllori, Gracián y el barroco, Roma 1958; R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Paris 1971 (trad. it. Torino 2001); H. Puigdoménech, Maquiavelo en España, Madrid 1988; G.M. Barbuto, Il Principe e l’Anticristo. Gesuiti e ideologie politiche, Napoli 1994; M. Olivieri, ‘Lo scudo di carta’ del reverendo padre (l’Antimachiavelli di Pedro Ribadeneyra S.J.), «Annali dell’Università per stranieri di Perugia», 1994, 2, pp. 131-63; H. Höpfl, Jesuit political thought: the Society of Jesus and the State, c.1540-1630, Cambridge 2008; V. Dini, Machiavelli e Gracián: arte della prudenza, politica, elaborazione del mito dello Stato, in Dopo Machiavelli, a cura di L. Bianchi, A. Postigliola, Napoli 2009, pp. 127-51.