Ghana
Già colonia portoghese con il nome di Costa do Ouro, quindi (1900) protettorato britannico con il nome di Gold Coast, il G. è stato il primo possedimento coloniale dell'Africa subsahariana a ottenere l'indipendenza nel 1957, anno in cui ha assunto il suo nome attuale.
La produzione cinematografica iniziò nel 1945, quando il British Colonial Office creò la Gold Coast Film Unit (GCFU), con il fine di realizzare cortometraggi a carattere educativo. Nel 1948 la GCFU aprì una scuola di cinema, e dal 1950 finanziò anche diversi mediometraggi a metà tra documentario e film di finzione, diretti dall'inglese Sean Graham con attori e tecnici locali, e influenzati dalla scuola del documentarista John Grierson, di cui Graham era stato assistente: tra gli altri, The boy Kumasenu (1951), storia, con andamento da film muto, di un medico che aiuta un ragazzo a superare il trauma del trasferimento in città e Mr Mensah builds a house (1955). Dopo l'indipendenza, la GCFU, con il nome Ghana Film Industry Corporation (GFIC), passò allo Stato, che per molti anni poté così controllare l'intera produzione cinematografica. Inizialmente si continuarono a girare film diretti da inglesi, come The Tongo Hamlet (1965) di Terry Bishop. Nel 1967 venne realizzato il primo lungometraggio totalmente ghaneano, No tears for Ananse di Sam Aryeetey (direttore della GFIC), epopea di un personaggio della mitologia dell'etnia Akan. A Egbert Adjesu e Bernard Odidja si devono, rispettivamente, le commedie musicali I told you so (1970) e Doing their thing (1971), mentre King Ampaw, che ha lavorato tra G. e Germania, ha realizzato They call it love (1972), Kukurantumi, noto anche come Road to Accra (1983) e Juju (1986, coregia di Ingrid Metner). Sempre degli anni Ottanta sono due film di Kwaw P. Ansah, Love brewed in the African pot (1980), basato su una leggenda popolare, e Heritage Africa (1989), analisi degli avvenimenti storici ghaneani in forma di finzione. I successivi Ama (1991) di Kwate Nee Owoo e Kwesi Owusu, e Back home again (1994) di Koffi Zokko Nartey e Kwame Bob Johnson, affrontano le problematiche relative all'emigrazione verso l'Europa. Sono esempi sporadici e molto diversi tra loro di una cinematografia mai diventata adulta, e che all'inizio degli anni Ottanta era entrata in una grave crisi tecnica e finanziaria. È stata progressivamente sostituita, a partire dalla fine di quel decennio, da una vasta realizzazione di lungometraggi in video a quasi esclusivo uso e consumo del pubblico locale: il 1996, anno in cui la GFIC è stata venduta a privati, passando a una produzione solo televisiva, ha segnato la conclusione di questo processo.
Quella dei video risulta essere ormai una vera e propria industria (circa cinquanta film all'anno), interamente finanziata da capitali privati e gestita da registi e tecnici provenienti dalla GFIC; basata sul principio della serialità, il suo riferimento principale è la struttura del melodramma, alla quale vengono aggiunte minime variazioni narrative. All'interno di questa particolare situazione, un elemento originale e positivo è costituito dalla filmografia di John Akomfrah, figlio di emigrati del G. in Gran Bretagna, che ha teorizzato il superamento dei confini tra finzione e documentario; nel 1983 ha fon-dato a Londra la casa di produzione Black Audio Film Collective, con lo scopo di sostenere lo sviluppo di un cinema africano in Gran Bretagna. Fra i suoi lavori vanno citati Handsworth songs (1986), Testament (1988, suo primo lungometraggio), A touch of the tar brush (1991) e Last angel of history (1996), che raccontano alcuni episodi della storia africana e della diaspora con l'occhio multimediale del filmmaker sperimentale e dell'artista video. Pur continuando a essere visivamente affascinante, il lavoro di Akomfrah è però diventato a tratti più prevedibile, come nel lungometraggio a soggetto Speak like a child (1998) o nel video Digitopia (2001). Opere, sempre sperimentali nel trattare fenomeni sociali, che hanno invece restituito forza al suo lavoro sono A death in the family ‒ A very British murder (2000), Stalkers (2001) e Lawless ‒ Prostitutes (2001).
V. Bachy, Per una storia del cinema africano, in Il cinema dell'Africa nera. 1963-1987, a cura di S. Toffetti, Milano 1987, p. 108.
B. Meyer, Popular Ghanian cinema and 'African heritage', in "Africa today", 1999, 2, pp. 93-114.
A. Elena, Cinema dell'Africa subsahariana, S. Toffetti, Hic sunt leones. Il cinema dell'Africa nera e L. Codelli, Cronologia, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 4° vol., Americhe, Africa, Asia, Oceania. Le cinematografie nazionali, Torino 2001, pp. 398-99, 460-61, 475-76 e 1194.
G. Gariazzo, Breve storia del cinema africano, Torino 2001, pp. 117-20.