DELL'AGNELLO, Gherardo
Figlio di Pietro, nacque probabilmente a Pisa intorno alla metà del sec. XIV, da illustre famiglia. Suo zio paterno era infatti quel Giovanni Dell'Agnello che fu doge di Pisa dal 1364 al 1368. Il D. ebbe durante i quattro anni di quel regime una parte di rilievo nella vita pubblica cittadina e fu, dopo la sua caduta, tra i promotori dei tentativi di rientrare in Pisa e di riprendervi il potere compiuti dai fuorusciti della fazione capeggiata dal deposto ed espulso doge.
Una volta divenuto doge di Pisa (12 ag. 1364), Giovanni Dell'Agnello si trovò automaticamente ad avere anche il controllo di Lucca, in quanto questa città era sottomessa a Pisa e da quella governata sin dal 1342 (gli Anziani lucchesi erano nominati dagli Anziani di Pisa). Tuttavia, egli non assunse il titolo di doge anche per Lucca, intitolandosi, invece, "difensore e governatore", quasi a sottolineare la continuità formale secondo la quale egli era subentrato, nei poteri sulla città subordinata, agli Anziani pisani. Per la verità, al momento della sua elezione a doge o nelle trattative che erano intercorse prima del colpo di Stato che ad essa aveva portato, egli aveva promesso il governo di Lucca a Bindaccio Benetti, uno dei più animosi e influenti capi della fazione dei raspanti. Orientantosi immediatamente verso una politica di tipico stampo signorile, preferì nominare il Benetti, che aveva chiesto l'adempimento delle promesse, vicedoge.
Per governare Lucca il nuovo doge di Pisa inviò, come rettore, il D. in luogo dei tre vicari che in precedenza vi venivano destinati da Pisa; la nomina, sembra, non prevedeva scadenze (in precedenza il mandato dei vicari era stato semestrale).
Il Sercambi, dopo aver narrato dell'incontro tra il doge e il Benetti, convinto a restare in Pisa, dice che il D., subito dopo aver assunto il governo di Lucca, "cominciò a oppressare e villaneggiare i ciptadini oltre l'usato modo" (cap. 162).Siamo qui di fronte piuttosto a un giudizio finale che non a un'indicazione precisa circa il tono impresso al nuovo governo di Lucca, almeno inizialmente, dal D. e, da Pisa, da suo zio.
È interessante quanto riferisce lo stesso Sercambi a proposito del discorso fatto dal doge in occasione della sua prima visita a Lucca, discorso in cui prometteva che egli ed il suo governo avrebbero adottato una linea politica favorevole ai Lucchesi. In effetti lo studio degli atti rimasti conferma uno sforzo ben presente nella politica dei Dell'Agnello volto alla ricerca in Lucca di un consenso che facesse da contrappeso al progressivo indebolimento del consenso pisano. È del resto noto che generalmente le signorie, pur non rappresentando un superamento della base cittadina dello Stato, tendevano tuttavia a un qualche riequilibrio tra la città dominante e quelle sottomesse.
In effetti, il D. concesse agli Anziani lucchesi una maggiore autonomia decisionale, autorizzandoli tra l'altro a riformare l'amministrazione della città e del contado, a cercare nuove fonti di entrate, a disporre dei pagamenti per le condanne. La concessione di esenzioni fiscali ad alcuni cittadini lucchesi mostra anche il tentativo di crearsi un partito favorevole, rafforzato dalla concessione della cittadinanza a persone del contado. Il D. ed il doge di Pisa tentarono anche di allentare la pressione esercitata su Lucca dal fuoruscitismo cittadino, facendo larghe concessioni di "ribannimento", ma, per quel che ne sappiamo, con scarsi risultati. Il fuoruscitismo lucchese aveva assunto, durante il precedente ventennio di dominazione pisana, proporzioni imponenti, creando nella città un sensibile vuoto demografico e sottraendole, oltre che uomini, anche capitali, dato che molte delle famiglie mercantili più importanti avevano fatto di altre città, e soprattutto di Venezia, il centro dei loro affari. In via indiretta è testimoniata, anche, una riduzione dei salari degli ufficiali pisani presenti in Lucca.
Il Sercambi, dopo aver parlato del citato discorso del doge (cui il cronista era del resto fortemente contrario), aggiunge: "e tuete queste parole furono ben dicte, ma li effecti seguiro il contrario". Ingenti erano, infatti, i bisogni finanziari del nuovo regime, sia per la difficile situazione ereditata, sia per l'onerosità della pace raggiunta il 30 ag. 1364 con Firenze, sia per la pompa e il lusso da cui venivano circondati il potere e la persona del doge. La conseguente necessità di, imporre nuove tasse e nuovi prestiti forzosi tanto più doveva farsi sentire a Lucca, date le condizioni di crisi economica in cui si trovava quella città. La ricerca del consenso urtava contro la necessità di una pressione fiscale sempre più forte. Significativo è, a questo proposito, l'episodio - pure riferito dal Sercambi - del sequestro, fatto eseguire dal D. per ordine dello zio, dei beni di Francesco Guinigi, il quale, dopo aver promesso al doge un prestito di 6.000 fiorini, anziché onorare il suo impegno, aveva preferito fuggire a Genova temendo che non gli sarebbe stata restituita la grossa somma, se l'avesse sborsata.
Il D. andò assumendo sempre più una posizione di primo piano accanto allo zio, che ormai non poteva più contare in Pisa nemmeno sull'appoggio di quella fazione dei raspanti che pure lo aveva portato al potere. Così quando all'inizio del 1368 l'imperatore Carlo IV scese per la seconda volta in Italia, fu appunto il D. ad avviare con quel sovrano le trattative che portarono al riconoscimento del potere di Giovanni Dell'Agnello, sia pure non come doge di Pisa, ma come vicario imperiale. Così, ancora, quando l'imperatore stava per entrare in Lucca, il D. si recò con lo zio ad incontrarlo a Moriano, dove, insieme con quello e con altri, fu dal sovrano fatto cavaliere (20 ag. 1368). Sempre accanto allo zio si trovò il D. coinvolto, a Lucca, il 5 settembre di quello stesso anno, nel fatale incidente che fece scoppiare a Pisa la rivolta contro Giovanni Dell'Agnello.
Dopo aver lasciato l'imperatore, il quale aveva fatto il suo solenne ingresso nella città, il D. si recò nella centrale piazza di S. Michele, dove si era radunato il popolo e dove suo zio avrebbe dovuto leggere una relazione sugli ultimi avvenimenti pisani. Si trovava accanto a lui quando il ballatoio di legno, su cui erano saliti, cedette improvvisamente. Nell'incidente Giovanni si fratturò un femore, e il D. fu più lievemente ferito. Lucca rimase per il momento tranquilla; non così Pisa, dove, sotto la guida degli Aiutamicristo, i raspanti insorsero contro il regime.
Fu in questo momento di crisi che emersero le qualità del D. come uomo d'azione. Egli non esitò infatti a recarsi a Pisa nel tentativo di fronteggiare la situazione, a costo di esporsi al pericolo di vita. Presentatosi dinnanzi ai rivoltosi rispose coraggiosamente alle accuse di tradimento. Riuscì a salvarsi grazie alla sua parentela con gli Aiutamicristo, una delle principali famiglie a capo della fazione dei raspanti, ancora per breve tempo al potere: uno di loro, Guido, che era suo cugino, intervenne in suo favore e lo portò al sicuro, in casa sua, sottraendolo a quanti lo minacciavano di morte. Nella casa del cugino il D. trascorse la notte, e poi, il giorno successivo, poté rientrare a Lucca.
Questo episodio rappresentò non solo l'inizio dell'esilio del D., ma anche quello dei tentativi da lui compiuti per rientrare in Pisa con la forza per riprendervi il potere: tentativi nei quali egli appare più attivo e presente dello zio. Così lo troviamo, dopo il rientro in città di Piero Gambacorta e le violenze compiute dagli avversari dei raspanti nella notte fra il 3 e il 4 apr. 1369, alla testa dei contingenti lucchesi e imperiali che il 6 aprile tentarono di rientrare in città dalla porta del Leone. Il cronista Ranieri Sardo ricorda un'altra azione militare condotta dal D. e da Ludovico Della Rocca, verso la fine di quello stesso mese, "con tucti quelli dell'Agniello": essi saccheggiarono allora ed incendiarono le terre per tutta la bassa Val di Serchio, spingendosi fino a Barbaricina, dove dettero fuoco alle case degli Scacceri e di Donato Seccamerenda. Nel dicembre di quello stesso anno il D. si recò a Sarzana per organizzare, insieme con altri fuorusciti pisani e con Bernabò Visconti, un nuovo colpo di mano contro Pisa, da compiersi con l'aiuto del signore di Milano: "Iddio li distrugha tucti!" augura nel suo diario Ranieri Sardo, dopo aver segnato questa notizia. Il progetto, tuttavia, non ebbe seguito. L'11 maggio del 1370 il D. era a Milano, dove concluse, come procuratore dello zio, un accordo di alleanza con Bernabò Visconti. In forza di tale alleanza il signore di Milano metteva a disposizione di Giovanni Dell'Agnello, per quattro mesi e in cambio della promessa di 12.500 fiorini, un grosso contingente di cavalieri e di fanti con il fine dichiarato di riconquistare Pisa e Lucca. La spedizione ebbe effettivamente luogo, Ma, nonostante qualche successo parziale ottenuto nel territorio pisano, si concluse con un sostanziale fallimento.
Del D., dopo questa data, le fonti a noi note non forniscono alcuna ulteriore notizia.
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