ghetto
Il luogo simbolo della segregazione
Il ghetto è un episodio della storia del popolo ebraico, un lungo episodio durato più di cinquecento anni. Ma è anche qualcosa di più: è la parola che partendo da questa vicenda del passato ebraico ‒ e di tutta l'Europa ‒ definisce ogni forma, materiale ma anche mentale, di segregazione. Il ghetto è la creazione di chi nega le parole simbolo della Rivoluzione francese: libertà, fraternità, eguaglianza. Di chi crede che gli uomini non siano tutti uguali, non vadano considerati fratelli e non abbiano tutti diritto alla stessa libertà
Ghetto è una parola dalle origini incerte. Fra le tante possibili ne esiste una che appare più convincente. In veneziano, e in particolare nel veneziano che si parlava nella città lagunare durante la prima età moderna, geto (o getto) era il nome con il quale si indicava la fonderia dei metalli. E fu proprio in una zona di Venezia presso cui esisteva un'antica fonderia in disuso che venne istituito il primo ghetto ‒ o geto ‒ della storia. Siamo nel 1516.
Gli ebrei vivono da secoli nella città: ve ne sono di tedeschi, cioè di originari dell'Europa nord-orientale, arrivati fin qui spinti dalle persecuzioni, e ve ne sono di levantini, arrivati cioè dall'Oriente. Ma in quegli anni ve ne sono molti giunti profughi dalla Spagna: nel 1492, infatti, il regno di Castiglia e di Aragona, in altre parole la Spagna unificata sotto il cristianesimo dopo secoli di parziale o totale dominazione islamica, aveva emanato un decreto. Sulla base della cosiddetta limpieza de sangre ("pulizia del sangue") Ferdinando di Castiglia e Isabella di Aragona, i sovrani artefici della vittoria sui musulmani, avevano deciso che anche le migliaia (forse centinaia di migliaia) di ebrei spagnoli dovevano o convertirsi al cristianesimo oppure lasciare il paese, anche se, come in molti casi, vi abitavano da secoli. L'espulsione dalla Spagna, nello stesso anno della più celebrata scoperta dell'America, segna profondamente non solo la storia di quel paese (nel quale per centinaia di anni gli ebrei non tornarono più) ma di tutta l'Europa e del bacino del Mediterraneo.
Nel primo decennio del 16° secolo, dunque, la comunità ebraica veneziana era una società vivace e multiforme, come testimoniano le diverse sinagoghe del quartiere ebraico. Da molto tempo gli ebrei della città si dedicavano ai commerci, in particolare verso l'Oriente. Erano una presenza costante nella città lagunare. Ma nel 1516 il governo della città decise che gli ebrei andavano rinchiusi in un quartiere speciale, e istituì per l'appunto il primo ghetto della storia.
Gli ebrei della diaspora, che sin dai primi anni dell'era cristiana vivevano come piccola minoranza all'interno di regni e territori diversi, non avevano quasi mai il diritto di possedere terre, né dunque di coltivarle. Per questo la storia della diaspora è quasi sempre una storia urbana, che si svolge dentro le mura delle città e non nelle campagne. Nelle città agli ebrei era concesso il diritto di vivere, mai quello di cittadinanza vera e propria. L'ebreo era e restava il diverso, da tollerare malgrado la sua diversità a patto che esercitasse determinati mestieri: il prestito, su pegno o a interesse (attività questa proibita ai cristiani), il commercio di tessuti e stracci, qualche altra attività artigianale. All'interno del centro abitato, gli ebrei erano di fatto relegati in una ben precisa zona della città: un po' perché sceglievano loro di abitare vicini (con la sinagoga, il macellaio, la scuola e le altre strutture della comunità nei pressi), un po' perché così veniva loro imposto. Per cui non è difficile trovare nei borghi antichi dell'Europa la via degli ebrei, la juderia. Questo nell'Europa cristiana, ma lo stesso avveniva all'interno del mondo islamico: in arabo la mellah è il nome che indica il quartiere ebraico. Anche qui gli ebrei erano tollerati e accolti ma considerati cittadini di rango inferiore, dhimmi ("protetti", come anche i cristiani), degli ospiti dell'Islam, insomma.
Qual è allora la differenza fra un quartiere ebraico, nei diversi nomi in cui è stato chiamato, e un ghetto vero e proprio? In un certo senso essa non esiste: come abbiamo visto, gli ebrei venivano relegati da secoli in determinate zone della città. Eppure, c'è una sostanziale differenza fra il quartiere ebraico generico e il ghetto vero e proprio. Il ghetto, infatti, a incominciare da quello veneziano che diede il nome a tutti i ghetti successivi, era chiuso (emarginazione). I suoi ingressi erano delimitati da cancelli, con ufficiali che a turno vi montavano la guardia: questi cancelli, poi, dal tramonto all'alba venivano chiusi dall'esterno. Gli ebrei non potevano quindi né entrare né uscire. Ma non potevano risiedere in nessun altro luogo della città: solo in quel quartiere, delimitato da quei cancelli. Tanto è vero che le case del ghetto di Venezia sono fra le più alte di tutta la città, perché la popolazione cresceva, nascevano bambini, arrivavano profughi (di cui la storia ebraica è sempre molto generosa: c'era sempre qualche gruppo di ebrei cacciati da un paese, una città). Ma gli ebrei non potevano andare ad abitare altrove in città, dunque non restava altra soluzione che alzare di un piano la casa.
Il ghetto di Venezia è diventato oggigiorno una meta turistica: è un luogo sereno, pieno di cose interessanti da vedere. Sinagoghe, botteghe ormai in disuso, il campo del Ghetto Nuovo, cioè un'ariosa piazza, le stradine (calli) e i canali interni. Vi si accede da piccoli, angusti passaggi dove una volta c'erano i cancelli che si chiudevano al tramonto. A causa di questi cancelli, il ghetto è diventato il simbolo stesso della segregazione. Del luogo che, pur se vicino, anzi nel cuore stesso di una città, rinchiude, emargina. Separa.
Nel 1555 lo Stato pontificio adottò di slancio l'istituzione del ghetto in tutti i suoi domini. Di lì in poi questa realtà si diffuse rapidamente in tutta l'Europa: gli ebrei vennero rinchiusi in quartieri appositi delle città, ne vennero limitati gli spostamenti, fu proibita la loro residenza, anche temporanea, altrove. Da allora, il ghetto è divenuto il simbolo dell'esistenza ebraica, della vita di questo popolo in mezzo agli altri popoli. Il ghetto marcava le distanze, escludeva, imprigionava. Paradossalmente era anche un luogo più sicuro degli altri, una specie di rifugio. Era soprattutto un triste modo di vivere.
I ghetti si aprirono ‒ o si chiusero ‒ lentamente, a partire dalla Rivoluzione francese in poi. È una storia dalle sorti alterne, la conquista dell'emancipazione: qualche passo avanti, qualche ghetto che muore, qualche passo indietro, con il ritorno di restrizioni e forme di emarginazione. In Italia a poco a poco i ghetti scompaiono, con la fine dell'Ottocento agli ebrei sembra di aver conquistato una definitiva parità di diritti. La libertà di abitare dove volevano, di esercitare i mestieri più congeniali, di andare all'università (cosa che era stata negata loro per millenni).
Poi in Italia arrivò il fascismo, e le sue leggi razziali del 1938 divennero una specie di ghetto, un muro invisibile ma tremendo, che separava gli ebrei dal resto degli Italiani. Esse vietavano loro una grande quantità di cose, come quella di frequentare le scuole pubbliche o quella di possedere un apparecchio radio, solo per fare due esempi.
Nella Germania nazista (nazionalsocialismo) e nell'Europa sotto occupazione tedesca, il ghetto ritornò davvero. I Tedeschi avevano deciso che la strategia giusta per sterminare gli ebrei era quella di concentrarli dapprima in alcuni quartieri delle città occupate, da cui poi deportarli, sempre che non fossero prima morti di stenti.
L'Europa nordorientale, quella che contava all'epoca grandi comunità ebraiche radicate nel territorio (il cosiddetto mondo ashkenazita), si riempì di nuovi-vecchi ghetti: Varsavia, Lodz, Vilnius e tanti altri. Gli ebrei venivano rinchiusi in zone della città intorno alle quali venivano alzati muri: tornavano la segregazione e il disprezzo, insieme alla crudeltà e al desiderio di annientamento. I ghetti nazisti erano insomma l'anticamera del campo di concentramento: la loro è una storia terribile. Una per tutte quella del ghetto di Varsavia, all'interno del quale alla fine si levò anche un'eroica e disperata resistenza.
Oggi i ghetti non esistono più. Per lo meno nel significato storico di luogo simbolo dell'ebraismo. Esistono però tanti altri ghetti: luoghi dell'emarginazione e della povertà. E la parola ha assunto un senso più universale, capace di contenere tante storie diverse, ma eguali nella loro drammatica esclusione.