Ghibellini e guelfi in Italia
Nel periodo della vita di Federico II le fonti italiane impiegano i termini 'guelfo' e 'ghibellino' esclusivamente in relazione alle parti fiorentine e toscane. Secondo Robert Davidsohn, autore di quella che ancora oggi può essere considerata la migliore analisi sull'origine dei due partiti, la più antica menzione dei guelfi sarebbe quella fatta sotto l'anno 1239 dagli anonimi Annales Florentini II, scritti tra 1242 e 1244 e pubblicati da Otto Hartwig alla fine del sec. XIX (Hartwig, 1880). La stessa fonte, al 1242, menziona, sempre a proposito di Firenze, i ghibellini. A partire dal 1246 il manipolo di attestazioni si fa appena più consistente, giungendo a comprendere un'epistola dei capitani della pars guelforum fiorentina (1246), una menzione della cronaca di Giovanni Codagnello (sempre relativa alla Toscana, sotto l'anno 1248), una lettera di Federico II (1248), un registro di delibere di S. Gimignano (1248) e, infine, due lettere papali (1248 e 1250). Un registro senese di riformagioni reca la più antica testimonianza di uso dei nomi per designare partes all'infuori di Firenze: già nel 1249 le parti aretine avrebbero avuto questi nomi e, per loro tramite, anche quelle di Borgo Sansepolcro.
Tali evidenze spingerebbero a trattare il tema dei guelfi e dei ghibellini in Italia soffermandosi sulla sola area fiorentina e sulle sue immediate propaggini, se non fosse che la vicenda dei gruppi antagonisti di questa città si inserisce nel più vasto problema della formazione delle partes interne ai comuni nell'età di Federico II. Solo considerando questo più ampio contesto diviene possibile, da un lato, conferire pieno significato ai termini fiorentini, dall'altro comprendere il successo che ebbero, nel periodo successivo, in tutta l'Italia di comune.
Tra la fine del sec. XII e la metà del successivo, all'interno della maggior parte delle realtà urbane, si diffusero e si stabilizzarono due partes, gruppi aristocratici dotati di una struttura istituzionale tesa a orientare l'azione politica del proprio comune, in particolare nella contesa tra papato e Impero.
Il fenomeno, come è stato osservato (Tabacco, 1994, p. 335), affondava le sue radici nella presenza ‒ non visibile in altre aree d'Europa ‒ di un'aristocrazia propriamente urbana, stabilmente residente in città, impegnata nella diplomazia e nel governo del comune e soprattutto capace di organizzarsi militarmente. Recentemente (Maire Vigueur, 2003) è stato chiarito come in questa aristocrazia, che rappresentava il denominatore comune alle diverse situazioni locali, solo una piccola parte delle famiglie fosse dotata di giurisdizioni signorili, inquadrata nella clientela vescovile o munita del cingolo cavalleresco, mentre tutte risiedevano in città, erano in grado di mantenere un cavallo e di prestare servizio come milites nell'esercito comunale. All'interno di questo gruppo sociale, che, sempre secondo le affermazioni di Maire Vigueur, rappresentava una quota non piccola della popolazione urbana e che tese a crescere e ad espandersi lungo il corso del sec. XII, il grado di conflittualità era strutturalmente molto elevato. I milites urbani combattevano tra loro per accaparrarsi risorse pubbliche, benefici ecclesiastici, alleanze matrimoniali strategiche. Prima del sec. XIII, tuttavia, tali conflitti riuscirono solo occasionalmente a polarizzarsi nella formazione di partes. Perché ciò avvenisse furono necessarie diverse condizioni che si realizzarono in varie forme da città a città. Solo considerando tali condizioni è possibile comprendere come la prima metà del sec. XIII, il momento cioè di massima espansione delle istituzioni comunali volte al contenimento dei conflitti interni (prima fra tutte il podestà forestiero), vide al tempo stesso la costruzione di gruppi di pressione destinati in breve tempo a divenire partes.
Considerando le più antiche attestazioni di partes, quelle relative alla Marca trevigiana, è facile notare come spesso si articolino attorno a famiglie che vantavano una tradizione di esercizio di poteri pubblici: conti, visconti, marchesi, avvocati. Si tratta di un elemento che porterebbe a credere che in quelle zone in cui le strutture locali dello stato postcarolingio avevano resistito più a lungo o in cui le famiglie di origine funzionariale erano rimaste in città, come nella Marca trevigiana e nelle realtà urbane adiacenti, la formazione di partes fu tendenzialmente più precoce poiché sin dal principio della vicenda comunale le famiglie tesero a raccordarsi attorno alle stirpi comitali e marchionali. Così a Vicenza, dove i conflitti aristocratici si presentavano dalla fine del sec. XII articolati attorno ai conti Maltraversi, a cui si opponeva la domus dei da Vivaro. Così a Verona, dove ai conti di Sambonifacio si opponevano i Monticoli; a Padova e a Ferrara, dove pesava la presenza dei marchesi d'Este e, fuori dalla Marca, a Pisa, dove sin dalla metà del sec. XII si rese visibile un conflitto tra i Visconti e il comune e alcuni decenni dopo quello tra gli stessi Visconti e il lignaggio comitale dei Gherardesca. Altrove, come in Lombardia e in Emilia, dove in genere i conti avevano abbandonato da tempo l'orizzonte politico urbano, la formazione delle partes avvenne più tardi e non necessariamente vide in posizione di primo piano famiglie che avevano esercitato funzioni pubbliche.
In realtà, come mostra bene il caso pisano, la caratteristica che spingeva al conflitto le stirpi di tradizione pubblica era in molti casi la collisione tra i diritti esercitati sul territorio da conti e marchesi, divenuti domini loci su signorie di grande estensione, e l'espansione comunale sul comitatus. In questa chiave è possibile leggere molti degli scontri che si verificarono già nell'età di Federico Barbarossa. Per la polarizzazione delle lotte interne la detenzione di diritti signorili sul contado da parte di famiglie incluse nel ceto dirigente cittadino contò più della stessa tradizione pubblica. Lo dimostrano i casi di precoci divisioni in comuni in cui vi erano famiglie non investite di titoli comitali o marchionali, ma detentrici di signorie territoriali. Così avvenne a Piacenza dove l'opposizione alla politica antimperiale del comune fu guidata dal casato degli Speroni, iudices imperiali che riscuotevano diritti di passaggio.
La polarizzazione dei conflitti non derivò tuttavia dalla sola presenza di famiglie dotate di diritti signorili nel governo comunale, ma piuttosto da quella che potrebbe essere chiamata la loro scarsa densità nel seno della milizia. Vi erano città in cui esistevano stirpi di signori, conti, marchesi o capitanei, eppure i conflitti interni non acquisirono sin dal principio la forma di scontri di fazione. Perché ciò avvenisse era necessario che, come nella Marca trevigiana, tali stirpi fossero poche e presentassero una netta superiorità in termini di prestigio e di ricchezza (Castagnetti, 1985, p. 210). In questo senso si comprende come in altre città che non vedevano la presenza di lignaggi comitali o dotati di signorie di grandissima estensione, ma di famiglie che tendevano a sovrastare completamente le altre per possessi e capacità militari (come avvenne nella Mantova del primo Duecento, dilaniata dalle lotte tra Poltroni e Calorosi), la formazione di partes avvenne in tempi paragonabili a quelli dei centri veneti (che peraltro su Mantova estendevano la loro influenza). D'altro canto appare più chiaro come mai, in città in cui esistevano lignaggi di tradizione signorile, ma in cui tali lignaggi erano più numerosi, le parti si formarono più tardi. È il caso della maggior parte delle città lombarde, in cui cospicui gruppi di stirpi capitaneali connesse mediante legami feudovassallatici ai vescovi, che pure in particolari occasioni (come all'epoca dello scontro con Federico I Barbarossa) manifestarono tendenze alla divisione e al conflitto, non giunsero ancora nel primo Duecento a costituire partes chiaramente riconoscibili.
In questo momento, in molte città della Lombardia, del Piemonte settentrionale e dell'Emilia la polarizzazione dei conflitti si presentava piuttosto su un piano differente, quello sociale. Qui società di milites, che radunavano le principali stirpi capitaneali e la maggior parte della restante milizia, si opponevano a società di 'popolo', in cui potevano confluire singoli milites o gruppi familiari, talvolta dotati di giurisdizioni e di titoli pubblici. A Milano, dove la società era particolarmente articolata, alla Societas capitaneorum et valvassorum si opposero le società popolari dei mercanti, della Credenza di S. Ambrogio e quella militare, ma allineata su posizioni politicamente vicine al 'popolo', della Motta. A Pavia la societas militum vide l'opposizione di una società popolare che portava il nome di S. Siro. A Reggio lottarono la parte degli Scopaçati, militare, e quella dei Maçaperlini, popolare. Laddove insomma il 'popolo' cominciava a organizzarsi in maniera compiuta e unitaria i conflitti privati tra casate aristocratiche potevano risolversi nella formazione di societatesmilitum altrettanto unitarie. Talvolta tuttavia gli stessi conflitti si riformulavano nella nuova opposizione attraverso la confluenza di famiglie militari nello schieramento 'popolare'. È il caso, tra le altre città, di Bergamo, dove l'opposizione tra i casati aristocratici dei Rivola e dei Suardi si confuse, nel 1207, con quella tra il comune sostenuto da forze di 'popolo', appoggiato dai primi, e la parte più recalcitrante della milizia, capeggiata dai secondi. A Brescia esistevano sia una contrapposizione tra milites e populus, sia stirpi di tradizione pubblica ben inserite nel ceto dirigente cittadino. L'unione dei due elementi portò, nella prima metà del sec. XIII, alla formazione di parti sempre nuove, in cui di volta in volta venivano a intrecciarsi solidarietà politiche e fedeltà clientelari.
Tutte queste condizioni favorevoli alla polarizzazione (presenza di stirpi signorili, eventualmente di tradizione pubblica, nel ceto dirigente, emergere di alcune di queste stirpi sul resto della milizia, conflitti tra milites e populus capaci di spezzare l'unità del gruppo dei cavalieri) furono catalizzate dall'evoluzione sociale e politica avvenuta tra le ultime decadi del sec. XII e le prime del seguente. In quest'epoca, da un lato, nuove stirpi del comitato si inurbarono portando con sé istanze contrarie all'espansione giurisdizionale della città sul territorio; dall'altro, famiglie di tradizione cittadina, che in precedenza non avevano interessi nel contado, avviarono la costituzione di piccole e grandi signorie. Mentre in questo modo si ponevano le premesse per incrinare l'unità di intenti all'interno del ceto dirigente comunale, altri due elementi concorsero a complicare il quadro. L'azione pontificia volta al recupero dei beni ecclesiastici fomentò nuovi e vecchi conflitti tra vescovi e detentori, a vario titolo, dei beni vescovili (comuni e vassalli del vescovo). La politica popolare, laddove si manifestò, fu tesa a contrastare l'autonomia di vecchi e nuovi detentori di diritti sul comitato. Attraverso tali processi, attorno alla politica territoriale del comune, nei primi tre decenni del Duecento si delineò ovunque un nuovo scontro tra tutti coloro che in forme diverse erano coinvolti nel governo cittadino.
La centralità del problema territoriale nel processo di crescita della conflittualità politica interna costituisce la chiave per comprendere le ragioni della connessione tra polarizzazione dei gruppi e presenza dell'Impero, che negli anni Venti del Duecento era ancora percepito come autorità in grado di legittimare il potere del comune sul contado. In questo senso va rilevato che gli scontri acquisirono un carattere generalizzato e portarono ovunque alla formazione di partes più stabili solo nel momento in cui Federico II cominciò a intervenire in maniera attiva e indipendente dal papato nella politica comunale. Non si spiegherebbe altrimenti la nutrita serie di attestazioni relative a conflitti interni che si ha nel 1225, alla vigilia della convocazione imperiale della dieta di Cremona e dell'azione diplomatica di Milano volta alla ricostituzione della Lega lombarda.
In quell'anno anche gli scontri veneti, che come si è detto vantavano una tradizione più che ventennale, subirono un'evoluzione decisiva. A Verona un gruppo di seguaci della parte del conte Rizzardo di Sambonifacio defezionò schierandosi con la rivale pars Monticulorum, pur mantenendo il distinto appellativo di Quattuorviginti. Ne conseguì la vittoria dei Monticoli, la fuga dei Sambonifacio e una serie di reazioni a catena nelle città della regione, che cominciarono a passare di fatto sotto il controllo della stirpe dei da Romano. Costoro ottennero la podesteria di Verona, cacciarono da Vicenza i da Vivaro e da Treviso i da Camino.
A Brescia, nello stesso anno, vi furono scontri che affondavano le loro radici nella contrapposizione tra i nobili e gli enti religiosi a cui i nobili afferivano e che, in virtù di questo fattore, assunsero, nella lettura che ne diede il papato, la forma di una lotta tra eretici e ortodossi. A Bergamo, in occasione della richiesta di adesione alla Lega, Colleoni e Suardi, lignaggi sostenitori dell'alleanza con Cremona e l'Impero, si scontrarono con i Rivola, alleati di Milano. Ad Alessandria le famiglie dei Guaschi e dei Pozzi si allontanarono dalla città per attaccarla dall'esterno con l'aiuto dei genovesi. A Piacenza, in cui i conflitti tra società dei cavalieri e popolo, sostenuto dal dominus loci Guglielmo Landi, andavano avanti da anni, Cremona, che sino a quel momento aveva cercato la mediazione, intervenne alleandosi con la sola pars militum. A Lodi si riaprirono gli scontri tra Overgnaghi e Sommariva, e Milano intervenne con il proprio podestà per colpire questi ultimi.
Considerando questi episodi appare chiaro che nel 1226, quando fu rinnovata la Lega lombarda, quasi tutte le città che giurarono avevano sperimentato gravi divisioni interne e, in molti casi, avevano già dovuto registrare episodi di fuoriuscitismo. Si potrebbe anzi sostenere che la seconda Lega fu istituita (e in questo si registra una differenza con la prima) proprio per ricondurre all'unità, in previsione di uno scontro con l'Impero, città profondamente divise. I primi atti dell'alleanza confermano questa impressione. Già nel giugno 1226 i rettori della Lega avocarono a sé il potere di far rientrare i banditi e quello di bandire i sospetti di tradimento dell'alleanza. L'anno successivo si deliberò che nessun singolo individuo appartenente a una città dell'alleanza potesse aderire alla Lega senza il consenso del proprio podestà e che nessuna delle città collegate potesse prestare aiuto militare o diplomatico per ricondurre in patria una parte esclusa. L'atteggiamento di mediazione tra le parti interne visibile in questi atti della Lega fu condiviso, per alcuni anni, dal papato e dallo stesso Impero, in alcuni casi consentendo il rientro dei fuoriusciti. Con poche eccezioni, solo quando il conflitto si fece aperto, con il primo scontro tra le città e l'imperatore (1231), cominciò a prevalere nelle autorità superiori la volontà di privilegiare una delle parti a danno dell'altra.
A giocare per primo questa carta, che avrebbe inciso in maniera radicale nella formazione e nella stabilizzazione delle partes, fu Federico II, che riuscì a sollecitare una prima serie di defezioni a suo favore. Fondamentale fu quella dei da Romano, che avvenne nel 1232 e portò dalla parte dell'Impero buona parte delle città venete, consentendo a Federico II negli anni successivi di conquistare l'intera regione alla propria obbedienza. Qui l'operazione fu facilitata dal ruolo egemonico della potente domus veneta, intenzionata a consolidare la propria posizione. Altrove, dove il potere non era altrettanto concentrato, le defezioni non riuscirono a trascinare l'intera società cittadina e comitatina, ma solo quanti erano già in conflitto con il governo comunale, i quali videro nell'imperatore una possibilità di riconoscimento della propria autonomia. Così a Mantova, dove nel 1235 i membri di una famiglia cittadina di vassalli vescovili uccisero il presule filopontificio rifugiandosi a Verona. E così l'anno successivo a Brescia dove, durante l'assedio, defezionarono dall'obbedienza comunale il vescovo, i conti di Casaloldo e quelli di Montichiaro.
Laddove si riuscì a recuperare o a mantenere un relativo consenso tra le diverse componenti del governo comunale, ma esistevano conti aperti tra il comune e altre autorità in merito al controllo del contado, le città passarono al fronte imperiale al fine di ottenere dall'imperatore ciò che il papa o altre città, in quel momento antimperiali, non intendevano dar loro e cioè un riconoscimento del proprio potere sul territorio. Ma questi passaggi nella maggior parte dei casi fomentarono la divisione interna e scollarono dall'obbedienza comunale alcuni signori del contado. Bergamo giurò fedeltà a Federico nel 1236, ma dovette registrare il tradimento di alcuni conti che consegnarono a Milano i castelli di Cortenuova e Mura. Vercelli divenne filoimperiale nel 1238 per ottenere da Federico II i diritti sul contado ancora in mano al vescovo, ma vide aprirsi al proprio interno la divisione che di lì a poco si sarebbe manifestata tra Bicchieri e Avogadri. Anche nelle città in cui con ogni probabilità il consenso a Federico II era più ampio perché si fondava sulla necessità di liberarsi dalla pressante presenza milanese, come Como o Novara, vi furono componenti della società urbana che mostrarono il proprio dissenso uscendo e subendo il bando.
Le stesse ragioni di fondo (conflitti comune-signori e comune-vescovo) che spiegano il riaprirsi di vecchie divisioni, o l'aprirsi di nuove, in conseguenza delle richieste di fedeltà avanzate da Federico II furono dunque alla base delle defezioni e dei passaggi di fronte, avvenuti nelle città filoimperiali a partire dal 1239. Questi movimenti diedero forma stabile alle parti laddove erano già presenti e, grazie anche all'intervento dei pontefici, le crearono nelle città in cui non si erano ancora manifestate.
Di grande importanza per una vasta area, che si estendeva oltre i confini della Marca di Treviso, fu il passaggio alla parte della Chiesa di Alberico da Romano, del marchese d'Este e dei loro seguaci, che nel 1239 subirono il bando dell'imperatore. Non solo questa scelta cristallizzò nella forma che avrebbero avuto nel corso del ventennio successivo le parti delle città venete, ma provocò la stabilizzazione dei fronti a Ferrara, dove gli Estensi entrarono nel 1240 cacciandone i Torelli, e indirettamente contribuì all'apertura di una divisione a Ravenna, dove Pietro Traversari fece aderire la città alla pars Ecclesiae. Sulla base di questi successi il papato intensificò l'intervento diplomatico tramite il suo legato Gregorio da Montelongo in altre città di provata adesione all'Impero. Così avvenne a Parma, Modena, Reggio e Cremona, città in cui non si erano mai manifestate tendenze antimperiali, ma in cui esistevano rilevanti conflitti tra casate aristocratiche e tra comune e vescovo. In queste città negli ultimi anni del pontificato di Gregorio IX e nei primi di Innocenzo IV il papato riuscì a creare le partes Ecclesiae che avrebbero contribuito in maniera determinante alla vittoria su Federico II.
A Parma vi erano stati scontri tra famiglie nel 1239. Ma solo nel momento in cui Innocenzo IV, che era stato membro del Capitolo cattedrale e che proveniva da una famiglia signorile i cui possessi confinavano con il contado parmigiano, cominciò ad agire direttamente su famiglie cittadine a lui legate, ebbe luogo la formazione di una parte decisa a defezionare dalla fedeltà all'Impero. Come a Reggio, Cremona e Modena, a cercare i vantaggi di un'alleanza con il pontefice furono lignaggi cittadini detentori di giurisdizioni nel territorio che avevano svolto, negli anni immediatamente precedenti, incarichi podestarili nel circuito imperiale. L'abbandono del circuito da parte di queste città fu quindi motivato a un livello specifico dalla defezione di questi gruppi, piuttosto ristretti, di famiglie. Ma a un livello più generale pesò una nuova disponibilità del pontefice che, per garantirsi alleati, rinunziò provvisoriamente a una parte delle rivendicazioni sulla tutela della libertas Ecclesiae. In molti casi erano state proprio le vertenze con il vescovo che avevano spinto questi comuni a conservare l'alleanza con Federico II. Nella stessa chiave, ma con una minore presenza dell'elemento militare-signorile, va letta l'adesione al fronte antifedericiano di Vercelli, avvenuta nel 1248, dovuta alla concessione al comune dei diritti vescovili sul territorio, promessi ma non rilasciati, dieci anni prima, dall'imperatore.
Gli ultimi anni della vita di Federico II e i primi dopo la sua morte portarono con sé una notevole serie di rientri delle parti filoimperiali e antimperiali nelle città da cui erano state bandite. La stabilizzazione del ricorso ai podestà forestieri e la rinnovata partecipazione del 'popolo', che fece della lotta ai conflitti aristocratici uno dei punti fondanti del suo programma politico, non riuscirono a far recedere in nessuna città la formazione dei gruppi di pressione che il conflitto tra papa e imperatore aveva favorito in maniera determinante. Ciò avvenne perché, nonostante fossero allestite nuove strategie di contenimento della lotta di fazione (divisione delle cariche, doppie podesterie, rilascio di impegni a non combattere garantiti da pegni e fideiussioni), le tensioni profonde che erano state alla base degli scontri, prima tra tutte la concorrenza giurisdizionale tra comune e signori e tra comune e vescovo, continuarono a sussistere, anche nell'assenza di quell'intervento imperiale che le aveva fatte deflagrare.
Anche a Firenze nei primi decenni del Duecento esistevano le ragioni di fondo che stavano portando nell'Italia settentrionale alla formazione delle parti. Più ancora che nella presunta contesa tra Buondelmonti e Amidei del 1216, che fu chiamata in causa, sin dalla fine del Duecento, quale origine della divisione tra guelfi e ghibellini, il fatto che le parti si formarono in questa fase è testimoniato dai nomi stessi, che fanno riferimento alla contesa, nella successione a Enrico VI, tra la casa di Baviera (Welfen), rappresentata da Ottone IV, e quella di Svevia (originaria del castello di Waiblingen), a cui apparteneva Federico II. A Firenze, come avvenne altrove, le contese locali trovarono una nuova ragione di scontro in questa lotta.
Rispetto ad altre città, la società fiorentina presentava tuttavia alcune peculiarità: una pressoché totale assenza di famiglie originariamente dotate di diritti signorili nel ceto dirigente del comune, una milizia consistente, in cui alcuni elementi riuscivano ad acquisire tali diritti per via matrimoniale, ma soprattutto, in virtù del grande sviluppo economico, ad accumulare terre sulla base del prestito di danaro alle chiese e ai signori. Dunque una parte dei cavalieri era cointeressata nella difesa, a proprio vantaggio, dei diritti vescovili. All'interno di questo ceto esisteva, come ovunque, un pulviscolo di conflitti, che aveva dato luogo, nell'ultimo quarto del sec. XIII, a quella che Davidsohn chiamò una guerra civile per il controllo del consolato, cioè del comune, tra gruppi opposti facenti capo agli Uberti e ai Fifanti. La possibilità che i conflitti privati si traducessero in schieramenti vasti e tendenzialmente polarizzati si era manifestata anche in seguito, come suggerisce la rottura del fidanzamento tra Buondelmonti e Amidei che, nel 1216, scatenò uno scontro di vaste proporzioni tra le due consorterie, coinvolgendo gli Uberti e altre famiglie.
Anche qui, tuttavia, fu l'intervento di Federico II a scatenare la formazione di schieramenti destinati a durare. Quando l'imperatore fu incoronato, nel 1220, il comune di Firenze era impegnato in una disputa con il proprio vescovo attestata sin dal 1218, quando Firenze aveva privato dell'eredità un chierico di S. Gimignano sostenendo che ai chierici non spettasse il godimento dei diritti ereditari. Inoltre Firenze, alleata con Lucca, anch'essa in vertenza con il vescovo e con il papa, era in guerra, per motivi di confine, con Pisa (che aveva cercato e ottenuto l'appoggio di Federico II), alleata di Siena e Poggibonsi. Per queste ragioni quando l'imperatore, in seguito all'incoronazione, aveva elargito concessioni ai suoi fedeli, Firenze era stata gravemente penalizzata e aveva assistito al rilascio di diplomi a tutti i suoi rivali del territorio. Ciononostante, nel 1222, l'alleanza fiorentino-lucchese aveva riportato un'importante vittoria a Casteldelbosco.
La conduzione della lunga guerra, per quanto coronata da successi come questo, portò tuttavia, con ogni probabilità, al formarsi di un'opposizione interna da parte di un 'popolo' cittadino che proprio in questi anni cominciava a manifestarsi sul piano politico, riuscendo a far entrare i priori delle Arti nel governo e promuovendo, forse con una parte della milizia, operazioni di revisione delle spese pubbliche. La stipulazione di una nuova alleanza nel 1228 tra Pisa, Siena, Poggibonsi e Pistoia in funzione antifiorentina fece proseguire il conflitto tra Firenze e le altre città toscane, concentrandolo sulla Val di Chiana e Montepulciano. Sia il papato sia l'Impero tentarono la pacificazione con vari mezzi nel corso dei primi anni Trenta. Il legato imperiale Geboardo di Arnstein fallì una mediazione e poi bandì Montepulciano, governata da un podestà fiorentino, Ranieri Zingani dei Buondelmonti. Gregorio IX, approfittando della morte del vescovo fiorentino, insediò un suo fedele, Ardingo, a cui fece emanare costituzioni contro gli eretici. Nel 1232 Firenze, che continuava a rifiutarsi di venire a patti con Siena, fu interdetta e subì il bando imperiale.
Su questo punto venne ad aprirsi un nuovo conflitto tra il vescovo e i milites che all'interno del comune intendevano proseguire la guerra. Tale conflitto però non coinvolgeva altri aspetti della politica episcopale. I tentativi di recupero patrimoniale e giurisdizionale del nuovo presule suscitavano semmai un'opposizione più forte nei ceti non militari, meno legati all'episcopio e più interessati a estendere il controllo pubblico sui beni della Chiesa cittadina, nel quadro di un progetto di espansione del potere comunale visibile nella riforma della tassazione del contado, nel recupero dei diritti dei signori inurbati e nei tentativi avanzati nel 1232 e 1233 di tassazione della Chiesa cittadina. Solo nel 1236, dopo che Lucca, colpita dal papa con la privazione della diocesi, non fu più in grado di sostenere Firenze, il vescovo fiorentino riuscì a imporre la pace con Siena. Tale pace, con ogni probabilità, fu accolta con favore dal 'popolo'.
Fu allora che il conflitto tra le diverse componenti della società si manifestò pienamente. Nello stesso anno il podestà, Guglielmo Venti, sostenuto dal 'popolo', attirò contro di sé l'odio dei milites e fu cacciato per aver appoggiato le richieste di indipendenza dal controllo vescovile del borgo di S. Casciano in Val di Pesa. La vertenza fu composta dal podestà che gli succedette, chiamato da una magistratura straordinaria, probabilmente di ispirazione popolare, i capitanei, e dal vescovo: il parmigiano Bernardo Orlando Rossi. Costui impose a S. Casciano di pagare al vescovo ciò che gli era dovuto, ma per la prima volta ottenne da parte di questo un formale omaggio.
Mentre peggioravano le relazioni tra papato e Impero, nel 1237 a questo conflitto sociale, che faticosamente era stato composto, si sovrappose una divisione interna alla milizia. La politica vescovile di recupero del controllo del capitolo cattedrale, con ogni probabilità, scontentò alcuni cavalieri.
La chiamata di un podestà milanese, Rubaconte da Mandello, fu favorita dal papa in funzione antimperiale. Ma il nuovo magistrato si fece promotore di una politica di difesa dei diritti del comune, anche in contrasto con il vescovo (che lo accusò di eresia), e trovò quindi il consenso del 'popolo'. In tal modo i vari conflitti interni che si erano manifestati (quello tra vescovo e comune, quello tra 'popolo' e milites, quello tra diverse consorterie di milites) si collegarono con gli schieramenti dell'Italia settentrionale. Quando Federico II, forte della vittoria di Cortenuova, chiese l'invio di truppe per combattere nel Nord, nella milizia scoppiarono disordini tra Giandonati e Fifanti che si estesero all'intera città portando alla cacciata di Rubaconte. L'ingresso del nuovo podestà, il romano filoimperiale Angelo Malabranca, riaprì i disordini che erano stati temporaneamente sedati e li spostò in campagna, dove i cavalieri fiorentini antimperiali, per la prima volta definiti da una fonte coeva 'guelfi', furono sconfitti, ma poterono rientrare in città grazie a una mediazione del vescovo.
L'insediamento, nel 1240, del nuovo capitano imperiale in Toscana, Pandolfo di Fasanella, aprì una nuova fase caratterizzata da una maggiore richiesta, soprattutto fiscale e militare, dell'Impero; questa pressione negli anni successivi fece confluire sul fronte antimperiale tutti coloro che sentivano i disagi del nuovo governo. Nel 1241 vi fu un nuovo scontro: i Giandonati, guelfi, assaltarono le case degli Amidei in cui era ospitato il podestà federiciano, ma furono sconfitti. L'anno successivo gli Adimari, guelfi, presero la torre dei Buonfanti, ma anche in questo caso il vescovo riuscì a pacificare le parti in lotta.
L'elezione di Innocenzo IV fece registrare anche a Firenze un salto qualitativo dell'intervento pontificio. Da un lato, il nuovo papa agì sul piano degli uomini di governo: riuscì a far chiamare podestà che, pur provenienti dal circuito imperiale, erano in stretto contatto con lui, come i parmigiani Rossi, e a imporre un proprio candidato nel capitolo cittadino, membro della famiglia signorile dei conti Guidi. Dall'altro, promosse una serrata propaganda antimperiale. Favorì l'arrivo del predicatore Pietro da Verona, che trovò un terreno fertile nei movimenti religiosi che andavano diffondendosi nella società fiorentina, soprattutto nel 'popolo', già sensibile al culto mariano e alle pratiche penitenziali sostenute da Mendicanti, Serviti, Penitenti, e infine istituì un tribunale dell'inquisizione.
Nella nuova soggezione imperiale, che in seguito all'arrivo di Federico d'Antiochia, figlio dell'imperatore, andava facendosi sempre più stretta, l'inquisizione non fu vista più solo come un'illegittima intromissione nella giurisdizione comunale tesa a tutelare la libertas Ecclesiae, ma anche come uno strumento per colpire i seguaci dello scomunicato imperatore, a cui si doveva ormai l'imposizione del giuramento di fedeltà, la sottrazione dei diritti sul contado, affidati ai vicari, e un carico fiscale sempre più insostenibile.
In questa cornice maturò il consenso attorno alla parte guelfa da parte di un 'popolo' che nei momenti di maggiore autonomia dall'Impero si era tenuto sostanzialmente estraneo ai conflitti di fazione. Alla fine del 1247, in conseguenza della necessità di truppe da impiegare nell'assedio di Parma, la richiesta di nuovi contingenti aprì nuovamente gli scontri. Nel febbraio dell'anno successivo i guelfi abbandonarono la città ritirandosi a Montevarchi e a Capraia, sotto il controllo di signori filopapali. Sotto il comando dei capitani Ranieri Zingani dei Buondelmonti e Rodolfo di Capraia, subirono l'attacco dei ghibellini guidati da Federico d'Antiochia. Ebbero una prima vittoria, ma in seguito furono sconfitti. Alcuni di loro furono deportati nel Regno di Sicilia. Nel 1250 riuscirono a riorganizzarsi nel territorio dei conti Guidi, mentre il popolo in città riusciva a cacciare i rappresentanti imperiali e a istituire un regime, il cosiddetto 'primo popolo' con cui si chiuse il periodo della soggezione all'Impero e che, l'anno successivo, provvide a richiamare gli esuli.
Nella seconda metà del Duecento e in buona parte del secolo successivo i termini fiorentini guelfi e ghibellini vennero a indicare le parti favorevoli al Papato e all'Impero in tutte le città comunali italiane. Le ragioni di un simile successo risiedono nell'egemonia regionale e sovraregionale che Firenze acquisì con l'estinzione della casa di Svevia e con l'avvento degli Angioini alla corona di Sicilia. Ma tale successo non sarebbe comprensibile pienamente se non si considerasse il fatto che Firenze aveva condiviso con le altre città comunali gli elementi fondamentali che avevano condotto alla formazione delle parti.
fonti e bibliografia
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