GHILINI, Tommaso Ottaviano Antonio, marchese di Maranzana
Nacque nel 1667 ad Alessandria, nel palazzo di famiglia, da Giacomo Ottaviano (1619-1703). Nel 1700 sposò la pavese Francesca Botta Adorno e nel 1704 fu decurione d'Alessandria.
Nel 1705, durante la guerra di successione spagnola (1702-13), il G. fu accusato, insieme con il marchese Francesco Moscheni, il conte Giovanni Guasco e l'abate Francesco Perboni, di aver cospirato per far cadere la città in mano alle truppe alleate sabaudo-imperiali. L'accusa, mossa da tal Leopoldo Morotti, fu tuttavia giudicata infondata dal Senato di Milano (1706), col risultato che il G. fu liberato dalle carceri milanesi, riuscendo a fare del torto subito una benemerenza per essere accolto con favore dal suo futuro sovrano: Vittorio Amedeo II di Savoia. Il 28 genn. 1707 l'accusatore finiva "appiccato" in quella piazza del duomo di Alessandria che avrebbe accolto presto la sontuosa dimora gentilizia dei Ghilini. Passata Alessandria sotto la dominazione sabauda, il G. incontrò subito il favore di Vittorio Amedeo II, che il 19 sett. 1713 lo accoglieva a corte, nominandolo gentiluomo di camera.
Nello stesso anno il G. si vide concessa dal pontefice, "per sua maggiore erudizione", la possibilità di leggere testi inclusi nell'Indice dei libri proibiti, "exceptis operibus Nicolai Machiavelli". Essendone state accertate "le buone qualità" e la moralità dei costumi, sin dal 1703 egli era stato del resto inserito fra i membri della famiglia della S. Inquisizione della diocesi d'Alessandria; in quanto nobile - nonché esponente del tribunale del S. Uffizio - il G. vantava inoltre "licenza e facoltà di tenere […] ogni sorta d'armi offensive e difensive".
Alla corte torinese il G. passò quasi inosservato fino al 1714, quando fu tra coloro che accompagnarono Vittorio Amedeo II in Sicilia per la cerimonia d'incoronazione, dopo che con i trattati di Utrecht (11 apr. 1713) e di Rastatt (7 marzo 1714) l'isola era stata assegnata al Savoia. Nel 1721 il G. ottenne poi dal sovrano l'ufficio di giudice delle strade per il biennio 1722-23. Erano gli anni in cui la famiglia preparava un'abile operazione di ampliamento dei titoli feudali.
Nel 1670 il padre del G., aveva acquisito il titolo marchionale sul feudo di Maranzana; nel 1680 comprava per 62.000 lire milanesi la contea di Rivalta Bormida. Il feudo di Gamalero, il cui acquisto fu formalizzato all'inizio del XVIII secolo, era invece già appartenuto ai Ghilini sin dal 1438 (quando il duca di Milano lo aveva donato al proprio segretario, Simonino Ghilini, insieme con alcune quote di Borgoratto); una successiva confisca ne aveva tuttavia interrotto il possesso negli anni Sessanta del XV secolo. A Sezzadio i Ghilini erano comparsi quali proprietari fondiari ancor prima di vantarvi titoli feudali, e cioè sin da quando Giacomo Ottaviano era stato ripagato di un prestito concesso nel 1689 a tal Giacomo Cortona con un terreno.
Il 7 genn. 1720 Vittorio Amedeo II emanò l'editto, preceduto da un decreto di avocazione al Demanio, che consentiva a diverse famiglie di inserirsi nel ceto nobiliare attraverso l'acquisto di quote di giurisdizione feudale. Dal 1722 il G. operò quindi alacremente per consolidare i propri possedimenti, assicurandosi alcune terre di Sezzadio per 1400 lire di Piemonte, e riuscendo a ottenere, dietro il versamento di 32.000 lire, il titolo marchionale su Sezzadio e su Gamalero (1726).
Il G. possedeva in città circa trenta case (dotate, per la maggior parte, di bottega, e dunque fonte di lauti introiti in quote di affitto). Grandioso il palazzo Ghilini, terminato nel 1732, la cui progettazione fu affidata al giovane architetto Benedetto Alfieri, nipote del G., e al quale lavorò per l'esecuzione Domenico Caselli. Fuori della cinta urbana il G. aveva inoltre circa venti edifici, più di trenta appezzamenti coltivati e almeno quindici prati (tutti terreni dati in affitto). Campi e cascine erano inoltre disseminati tra Gamalero, Lu, Castellazzo, Valle San Bartolomeo, Quargnento, Pavone, Castelceriolo. Al di là della "Ghilina Grossa" (il podere nella piana della Fraschetta che restò la residenza estiva preferita della famiglia), le masserie "la Pellacagna" e "la Cravina" lambivano il Tortonese, le stalle, i rustici e il mulino della tenuta "San Leonardo" si estendevano a Castellazzo, e il castello di Maranzana vantava sale ricche di quadri e arredi. Per quanto la crescita del potere della famiglia non avesse mancato di suscitare reazioni locali (come ben dimostra la lite che oppose il G. al Comune di Sezzadio, a proposito del diritto di riscossione dei tributi sulla caccia e sulla pesca), il marchese poteva ormai contare sul saldo legame con le autorità centrali del Regno.
La carriera e le strategie familiari seguite dai figli avevano seguito percorsi diversi, contribuendo a legare i Ghilini al notabilato piemontese. Nel 1720 la primogenita Angela aveva sposato a Torino Giulio Balbis, dei signori del marchesato di Ceva, e in seconde nozze, nel 1736, il conte Baldassarre Saluzzo di Paesana, senatore di Piemonte e poi consigliere del Reale Consiglio di Sardegna. Nel 1735 l'altra figlia del G., Isabella Anna Maria, allora ventenne, sposò il conte Felice Silvestro Roero Trotti di Revello, figlio del governatore della città e provincia di Saluzzo. Tre anni prima Vittoria, quindicenne, aveva preso invece i voti dell'Ordine agostiniano. Dei figli maschi, il primogenito Vittorio Amedeo visse sostanzialmente di rendita, curando i lasciti feudali paterni; Giovanni Ambrogio Maria, nato nel 1716, entrò nell'Ordine dei cavalieri di Malta, e fu governatore di Valenza e di Casale Monferrato, carica che ricoprì fino alla morte (1792); Tommaso Maria fu nunzio e cardinale.
Il G. costituisce un interessante esempio di nobile assimilato entro la burocrazia sabauda all'indomani della guerra di successione spagnola. In ciò, egli si distinse da gran parte del patriziato residente nelle province di "nuovo acquisto", generalmente ostile al passaggio al Regno di Vittorio Amedeo II.
Uomo di profondo senso religioso, il G. lasciò diverse lettere di aggregazione agli Ordini dei domenicani, dei minori osservanti, dei cappuccini e dei carmelitani scalzi, tanto da ottenere dal pontefice Clemente XI l'autorizzazione a far celebrare la messa nelle cappelle private delle sue residenze extraurbane e nel palazzo di Alessandria.
Il G. restò a corte anche con Carlo Emanuele III, in qualità di primo gentiluomo. Si ignora il luogo della morte del G. che avvenne nell'ottobre 1748. Il feudo di Sezzadio passò al figlio Vittorio Amedeo, che ne sarebbe stato ufficialmente investito nel 1752.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Camera dei conti, Patenti Controllo Finanze, regg. 1722, 2, c. 164; 1726, 5, c. 87; 1729, 7, c. 29; 1730, 8, c. 3; 1730, 9, c. 99; D. Ricagno, Sezzè. Cenni storici ad uso delle scuole elementari del Comune suddetto, Alessandria 1890, p. 21; F. Gasparolo, Vittorio Amedeo Ghilini, in Riv. di storia, arte, archeologia della provincia di Alessandria, VII (1898), pp. 104 ss.; Id., Memorie storiche di Sezzè alessandrino. L'abadia di S. Giustina. Il Monastero di S. Stefano o S. Maria di Banno, Alessandria 1912, I, pp. 360 ss.; II, pp. 278, 288; T. Santagostino, Settecento in Alessandria, Alessandria 1947, p. 272; L. Bassi, Ghilini, il palazzo e la sua storia, Alessandria 1989, pp. 26-36, 47 s.; P. Litta, Famiglie celebri italiane, s.v. Ghilini di Alessandria, tav. III; F. Guasco, Tavole genealogiche di famiglie nobili alessandrine, VI, Alessandria 1930, tav. VII; Alfieri, Benedetto, in Diz. biogr. degli Italiani, II, Roma 1960, p. 264.