Ghiribizzi al Soderino
Ghiribizi scripti al Soderino è l’intitolazione autografa posta sul tergo della minuta di una lettera indirizzata da M. a Giovan Battista Soderini, giovane nipote del gonfaloniere di giustizia Piero (Ghiglieri 1980). M. era stato inviato in legazione a Roma presso papa Giulio II e lo aveva seguito come osservatore nella sua spedizione contro Perugia e Bologna. La lettera risponde a una missiva del 12 settembre 1506, nella quale Giovan Battista fa qualche battuta su temi politici fiorentini d’attualità e sul prossimo ritorno di M., precisando scherzosamente che ha scritto per semplice slancio d’affetto, senza una ragione precisa («ho voluto seguitar l’ordine del fare infinite cose sanza proposito», Lettere, p. 135), e che quindi Niccolò non ha bisogno di rispondergli («Io non ho che dirvi, né voglio che mi rescriviate niente», p. 135). La risposta machiavelliana è anzitutto un capolavoro di ironia, poiché la sua stessa presenza contraddice la richiesta del Soderini («la vostra lettera [...] mi dette occasione a fare quello che io dubitavo di fare, e che voi mi ricordate che io non faccia», p. 136) e al tempo stesso giustifica il tratto di carattere che l’interlocutore ha confessato come un proprio difetto («fare infinite cose sanza proposito»):
Conosco voi e la bussola della navigazione vostra, e quando potessi essere dannata, che non può, io non la dannerei, veggendo a che porti vi abbi guidato e di che speranza vi possa nutrire (p. 136).
Non conta «el mezo» aggiunge M., poiché si deve nelle cose «vedere el fine» (p. 136), cioè il risultato delle azioni degli uomini. Il tema sarà ripreso nel capitolo xviii del Principe («dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine», xviii 17) e in due capitoli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, che a distanza giustificheranno parallelamente l’omicidio di Romolo («Conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi», I ix 7) e il gonfalonierato a vita di Piero Soderini («avendosi a giudicare l’opere sue e l’intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l’avessi accompagnato», III iii 11).
Nell’esordio scherzoso dei Ghiribizzi, scritto in stile comico al pari di molte lettere familiari machiavelliane, il «fine» non sono i grandi progetti politici, ma semplicemente i buoni risultati ottenuti dal giovane corrispondente, con un’ombra ironica sugli esiti così trionfali di una carriera necessariamente ancor breve anche se promettente. La vicenda particolare di Giovan Battista, che dichiara di agire a caso ma ottiene effetti felicissimi come il più prudente dei savi, non ispira a M. soltanto una giocosa consolatoria, ma gli permette di generalizzare e insieme di trasmettere all’interlocutore una lezione antropologica e politica: il caso del Soderini è precisamente l’‘occasione’ che si offre all’esperto Segretario per elaborare un primo ragionamento teorico e insieme pedagogico, che sarà più sistematicamente sviluppato nei Discorsi e nel Principe. L’apparenza frivola dello spunto di partenza, insomma, non esclude un tono più serio e impegnato, che agisce sotto la superficie e mette sullo stesso piano la minore figura di Giovan Battista e quelle più illustri, nel passato e nel presente, di Romolo e Piero.
Se un comportamento può avere risultati diversi da quelli prevedibili, si capisce come «diversamente operando» si possa «avere uno medesimo fine» e che gli uomini «con varii governi» ottengano «una medesima cosa». È questo il punto di partenza dell’argomentazione machiavelliana, che dal caso privato di Soderini si trasferisce sull’orizzonte universale della storia. L’autore correda la sua ratio di alcuni exempla antichi, quello di Annibale e Scipione e quello dell’imperatore Tito:
Annibale e Scipione [...] l’uno con la crudeltà, perfidia, irreligione mantenne e suoi eserciti uniti in Italia, e fecesi ammirare da popoli, che per seguirlo si ribellavano da e romani; l’altro con la pietà, fedeltà e religione, in Spagna ebbe da quelli popoli el medesimo seguito [...]. Tito imperadore, quel dì che non benificava uno, credeva perdere lo stato; qualcun altro, lo crederrebbe perdere el dì che facessi piacere a qualcuno (Lettere, pp. 136-37).
A questi si aggiungono, con un vivace tocco polemico caratteristico di M. («non si usa allegare e’ romani», p. 136), altri esempi moderni di uomini politici che, per ottenere il medesimo risultato, hanno agito anch’essi in modo opposto:
Lorenzo de’ Medici disarmò el popolo per tenere Firenze: messer Giovanni Bentivogli per tener Bologna lo armò; e Vitelli in Castello e questo duca d’Urbino nello stato suo disfeciono le forteze per tenere quelli stati; el conte Francesco in Milano e molti altri le edificorno nelli stati loro per assicurarsene (p. 136).
Come ha osservato Mario Martelli (1969), il modello formale di un simile discorso così puntualmente sorretto dagli esempi è quello del capitolo gnomico o dell’epistola morale, molto diffusi nella tradizione toscana e fiorentina in volgare del Trecento e del Quattrocento che M. ben conosceva. Qui, tuttavia, la piegatura morale implicita nel tema ben noto della fortuna assume l’aspetto di un secco ragionamento politico, con forte valenza innovativa rispetto alla tradizione; e i Ghiribizzi valgono allora, anche da questo punto di vista formale, come un archetipo dell’argomentare machiavelliano che farà le sue più grandi prove nelle opere scritte post res perditas. Non a caso gli esempi relativi alle fortezze, quelli di Niccolò Vitelli, Guidubaldo da Montefeltro e Francesco Sforza, ricompariranno nei più approfonditi contesti di Principe xx e Discorsi II xxiv.
Nella lettera a Giovan Battista Soderini questi sintetici paralleli, di vago sapore plutarchiano, sono preceduti e seguiti da due riferimenti alle «azioni» di Giulio II, il pontefice che sta sotto gli occhi di M. al momento della stesura: «Questo papa, che non ha né stadera né canna in casa, a caso conseguita, e disarmato, quello che con l’ordine e con l’armi difficilmente li doveva riuscire» (Lettere, p. 137). Il caso di Giulio II, come si vede, non è analogo ai precedenti, ma ci riporta piuttosto a quello del Soderini, a chi cioè agisce senza considerazione («sanza proposito») ottenendo ugualmente degli ottimi risultati. L’episodio paradigmatico del pontefice che entra a Perugia «disarmato» è svolto anche in Discorsi I xvii e nel cap. xxv del Principe la diagnosi sarà confermata: «Papa Iulio II procedé in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine» (xxv 18). Ma nel Principe l’esempio sarà per così dire regolarizzato, poiché Giulio II diventerà un esempio di «impeto» in alternativa al «rispetto», rientrando con ciò nello schema generale dei «varii governi» degli uomini e degli esiti imprevedibili del loro agire:
Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto. Perché, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai gli riusciva perché il re di Francia arebbe avuto mille scuse e li altri li arebbono messo mille paure (xxv 22-23).
La spiegazione del fenomeno, «donde nasca che le diverse operazioni qualche volta equalmente giovino o equalmente nuochino» (Lettere, p. 137), sarà formulata nello stesso capitolo del Principe («Concludo adunque che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme e, come e’ discordano, infelici», xxv 25), ma è già presente nei Ghiribizzi con un rinvio alle predisposizioni naturali e al carattere individuale:
Io credo che come la natura ha fatto a l’uomo diverso volto, così li abbi fatto diverso ingegno e diversa fantasia. Da questo nasce che ciascuno secondo lo ingegno e fantasia sua si governa. E perché da l’altro canto e tempi sono varii e l’ordini delle cose sono diversi, a colui succedono ad votum e suoi desiderii, e quello è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo, e quello, per opposito, è infelice che si diversifica con le sua azioni da el tempo e da l’ordine delle cose (Lettere, p. 137).
Come poi in Principe xxv, alla teoria del ‘riscontro’ si unisce qui un importante corollario (anch’esso naturalistico) che limita fortemente il potere d’intervento ossia la «virtù» dell’uomo. La natura umana è infatti immutabile, a differenza delle circostanze che mutano continuamente, ed è quindi impossibile adattarsi ai tempi se non per brevi periodi e a caso:
Ma perché e’ tempi e le cose universalmente e particularmente si mutano spesso, e li uomini non mutono le loro fantasie né e loro modi di procedere, accade che uno ha un tempo buona fortuna et uno tempo trista. E veramente chi fussi tanto savio, che conoscessi e’ tempi e l’ordine delle cose et accomodassisi a quelle, arebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista, e verrebbe ad essere vero che ’l savio comandassi alle stelle et a’ fati. Ma perché di questi savi non si truova, avendo li uomini prima la vista corta e non potendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la fortuna varia e comanda a li uomini, e tiegli sotto el giogo suo (Lettere, pp. 137-38).
Come ha rilevato opportunamente Eugenio Garin (1970), M. cita dunque la famosa massima di Tolomeo («sapiens dominabitur astris»), ma soltanto per capovolgerla, negando che l’uomo possa mai trasformarsi in un ‘savio’: la sua «natura» e la «vista corta» glielo impediscono. Diverso era stato il giudizio formulato in una lettera perduta a Bartolomeo Vespucci del 1504, ricostruibile dalla risposta del destinatario:
Sat est quod sententia tua verissima dicenda est, cum omnes antiqui uno ore clament sapientem ipsum astrorum influxus immutare posse: non illorum, cum in eternis nulla possit cadere mutatio, sed hoc respectu sui intelligitur, aliter et aliter passum, ipsum immutando atque alterando.
È sufficiente dire che è verissima la tua opinione, poiché tutti gli antichi proclamano concordi che lo stesso sapiente può mutare gli influssi degli astri, non – beninteso – rispetto a questi, dal momento che nelle cose eterne non può intervenire alcun mutamento, ma a sé, adattandosi ora in questo, ora in quel modo, mutando e alterando se stesso (Lettere, pp. 101 e 1492-93).
Nel 1504 M. ammetteva dunque la capacità di adattare il comportamento umano alla diversità dei tempi, accogliendo perciò la possibile esistenza di un ‘savio’. Un’eco di questa posizione risuona in chiave ottativa in Principe xviii, dove ci si augura che il principe «abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano» (xviii 15). Ma nei Ghiribizzi la diagnosi è radicalmente negativa, come osserva Gennaro Sasso (1988), che suggerisce anche un legame fra questo pessimismo sulla natura umana e le difficoltà incontrate dall’istituzione dell’ordinanza a Firenze per opposizione degli ottimati: la missiva a Giovan Battista sembra insomma riferirsi alla politica fin troppo moderata dello zio Piero Soderini in questo campo, alla prudenza del gonfaloniere che è tratto di carattere incorreggibile, destinato quindi a far fallire un’impresa che avrebbe richiesto non il «rispetto», ma l’«impeto», per dirla con il Principe. «Lo scoppio e il baleno» del fulmineo Segretario, insomma, non avrebbero potuto modificare una politica che preferiva procedere «a scaglione a scaglione» (Lettere, p. 135), come suggerisce lo stesso Giovan Battista nella sua lettera.
La teoria machiavelliana del ‘riscontro’ si trasferirà dai Ghiribizzi in Principe xxv, perfezionandosi e completandosi, ma senza subire modificazioni sostanziali.
Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con la qualità de’ tempi: e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi. [...] Da questo ancora depende la variazione del bene; perché se uno, che si governa con rispetti e pazienza, e’ tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando: ma se e’ tempi e le cose si mutano, rovina, perché e’ non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accomodare a questo: sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina, sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella (xxv 11 e 15-16).
Un mutamento di prospettiva, con parziale ritorno all’ottimismo manifestato nella lettera a Vespucci, si può trovare solo nel cap. ix del terzo libro dei Discorsi, che già nel titolo manifesta maggior fiducia: Come conviene variare co’ tempi, volendo sempre avere buona fortuna. Qui, infatti, M. sembra attribuire non all’individuo, ma allo Stato (e precisamente alla repubblica) la capacità di adattarsi ai tempi, sostituendo all’ipotesi di un mutamento della «natura» individuale (la «pazienza» di Piero Soderini, di nuovo citato, «non muta mai») quella dell’avvicendamento di individui per carattere differenti alla guida dello Stato: «una republica [...] la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali, per la diversità de’ cittadini che sono in quella, che non può uno principe» (III ix 11). Un simile trasferimento del ‘riscontro’ dal soggetto individuale alle entità collettive è già accennato in una delle glosse ai Ghiribizzi, che M. ha aggiunto nei margini del foglio durante la stesura:
Come la fortuna si straca, così si ruina l’uomo, la famiglia, la città; ognuno ha la fortuna sua fondata in sul modo del procedere suo, e ciascuna di loro si straca e quando la è straca bisogna racquistarla con un altro modo (Lettere, p. 137).
Ma anche la possibilità che ha una repubblica di «racquistare» la fortuna è quanto mai aleatoria, visto che l’avvicendamento di uomini adatti alle diverse circostanze dipende dal caso che li fa nascere oppure no nel luogo e nel tempo opportuno: analogamente, in Discorsi II xxix 16 «la fortuna [...] la elegge uno uomo quando la voglia condurre cose grandi, che sia di tanto spirito e di tanta virtù che ei conosca quelle occasioni che la gli porge» e in Discorsi I xviii 24-25 l’apparizione di «uno prudente» potrà salvare la città corrotta, ma «di questi tali è facilissima cosa che inuna città non ne surga mai nessuno». È la ‘fortuna’, insomma, ad avere l’ultima parola ed è giusto che i Ghiribizzi entrino in rima perfetta con quel capitolo “Di Fortuna” che M. dedica al medesimo Giovan Battista Soderini (con ogni probabilità poco dopo la stesura dei Ghiribizzi, se non pure in sostituzione dell’invio degli stessi). Anche qui, infatti, «colui con miglior sorte si consiglia / [...] / che ruota al suo valor conforme piglia», ma la sorte «la suol cangiar le volte a mezzo el corso / e, non potendo tu cangiar persona / né lasciar l’ordin di che ’l Ciel ti dota, / nel mezzo del cammin la t’abbandona» (“Di Fortuna”, vv. 100, 102, 111-14). La conclusione, ancora una volta, esclude un controllo costante della sorte evocando l’immodificabile natura umana:
Però, se questo si comprende e nota, / sarebbe un sempre felice e beato / che potessi saltar di rota in rota; / ma perché poter questo ci è negato / per occulta virtù che ci governa, / si muta col suo corso el nostro stato (vv. 115-20).
Nel finale i Ghiribizzi ritornano al primo esempio antico di Annibale e Scipione, che in Italia e in Spagna ottennero buoni effetti con metodi opposti («crudeltà, perfidia, irreligione» il primo, «pietà, fedeltà e religione» il secondo). E qui M. aggiunge alla spiegazione precedente del «riscontro» un’altra motivazione psicologica: «giova a dare reputazione ad uno dominatore nuovo» un comportamento diverso da quello adottato in precedenza, «perché, come le cose amare perturbano el gusto e le dolci lo stucano, così li uomini infastidiscono del bene, e del male si dolgono» (Lettere, p. 138). Il tema e il medesimo esempio saranno ripresi nel cap. xxi del terzo libro dei Discorsi: Donde nacque che Annibale, con diverso modo di procedere da Scipione, fece quelli medesimi effetti in Italia che quello in Ispagna. Ma le ultime parole dei Ghiribizzi lasciano il testo in sospeso, la lettera manca di sottoscrizione e le già ricordate glosse nei margini suggeriscono che si tratti di una minuta non portata a termine. Il fatto stesso di presentarsi come ‘ghiribizzo’, riflessione a ruota libera stimolata dalla missiva di Giovan Battista, sembra confermare la sua natura di appunto (sia pure elaboratissimo), prima e provvisoria registrazione di ipotesi teoriche destinate a ulteriori approfondimenti. Il recupero successivo dei Ghiribizzi in alcune pagine delle opere maggiori conferma questa ipotesi: la lettera al Soderini è una tappa fondamentale nell’elaborazione del pensiero politico machiavelliano.
Il testo era noto originariamente attraverso una trascrizione dell’autografo fatta da Giuliano de’ Ricci, nipote di M., nella seconda metà del Cinquecento. Come tale fu pubblicato per la prima volta nel 1786, compreso nel sesto volume delle opere machiavelliane stampate da Cambiagi a Firenze. Ricci lo aveva intitolato Ghiribizzi scritti in Raugia al Soderini, riferendolo così al gonfaloniere Piero, costretto a lasciare Firenze nell’agosto 1512 per rifugiarsi temporaneamente a Ragusa (od. Dubrovnik). Il contenuto della lettera, come si è visto, sembrava giustificare il nome del destinatario, a non volere tener conto dei rischi che avrebbe corso M. se avesse scritto (dalla Firenze medicea) a un personaggio così compromesso. Il ritrovamento dell’autografo in un codice della collezione del marchese Alessandro Gregorio Capponi, nella Biblioteca Vaticana, ha permesso tuttavia di eliminare qualsiasi riferimento a Raugia, indirizzando così gli studiosi al soggiorno perugino di M. nel 1506. In seguito l’identificazione nell’epistolario machiavelliano della missiva a cui i Ghiribizzi rispondono puntualmente, scritta non da Piero ma da Giovan Battista, ha permesso di chiarire molte allusioni del testo e di ribadire i collegamenti con il capitolo “Di Fortuna” rivolto al medesimo destinatario. L’ultima verifica paleografica (Ghiglieri 1980) esclude che l’intitolazione porti (come si legge in Ridolfi, Ghiglieri 1970) i resti del sintagma in Perugia. Resta ovviamente aperto il problema delle reali intenzioni di M., se scrivendo al nipote abbia pensato di rivolgersi allo zio gonfaloniere per interposta persona, o se (come sembra più probabile) la lettera del giovane corrispondente sia stata davvero l’occasione per comporre un primo bilancio teorico, a partire dalle difficoltà fiorentine dell’ordinanza e dalla già larga esperienza diplomatica: un bilancio teorico di così ampia portata da trascendere l’orizzonte della contingenza, trasformandosi nel primo abbozzo di una dottrina politica generale.
Bibliografia: G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Napoli 1958, Bologna 19802, pp. 192-95; J.-J. Marchand, L’autografo del “consulto per l’elezione del capitano delle fanterie” di Niccolò Machiavelli, «La bibliofilia», 1969, 71, pp. 243-52; M. Martelli, I Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini, «Rinascimento», II s., 1969 [ma 1972], 9, pp. 147-80; F. Masciandaro, I Castellucci e i Ghiribizzi del Machiavelli epistolografo, «Italica», 1969, 46, pp. 135-48; E. Garin, Aspetti del pensiero di Machiavelli, in Id., Dal Rinascimento all’Illuminismo, Pisa 1970, pp. 43-77; M. Martelli, Ancora sui Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini, «Rinascimento», II s., 1970 [ma 1972], 10, pp. 3-27; R. Ridolfi, P. Ghiglieri, I Ghiribizzi al Soderini, «La bibliofilia», 1970, 72, pp. 53-74; R. Ridolfi, Ancora sui Ghiribizzi al Soderini, «La bibliofilia», 1972, 74, pp. 1-7; P. Ghiglieri, Noterelle all’edizione dei Ghiribizzi, «La bibliofilia», 1980, 82, pp. 81-82; G. Sasso, Qualche osservazione sui Ghiribizzi al Soderino, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 3° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 3-56; F. Bausi, Due note machiavelliane: Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini e Decennale, I, 373-375, «Interpres», 1990, 10, pp. 289-93; G. Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza, Roma 2003.