GHISLANDI, Vittore (al secolo Giuseppe), detto Fra Galgario
Figlio di Domenico, pittore, e di Flaminia Mansueti, nacque a Bergamo e, insieme con la sorella gemella Beatrice, venne battezzato il 4 marzo 1655 con il nome di Giuseppe, poi mutato in quello di Vittore allorché nel 1675 a Venezia entrò nell'Ordine dei frati minimi, o paolotti (Tassi, p. 59), facendo il suo ingresso come frate laico nella comunità del locale convento di S. Francesco di Paola. Il fortunato appellativo di Fra Galgario trova origine nel nome del convento (del Galgario) dove egli risiedette durante la sua permanenza a Bergamo.
Se si eccettua il documento relativo alla cresima, avvenuta sempre a Bergamo il 25 luglio 1665, nessuna attestazione archivistica aiuta a fare luce sulle vicende biografiche del G. fino al 1701, anno al quale risalgono due lettere che egli scrisse da Venezia a Bergamo (tutte le notizie d'archivio e le testimonianze epistolari sono raccolte nello studio monografico della Gozzoli, cui si rimanda, ove non diversamente indicato, anche per le schede e le riproduzioni delle opere). Ne consegue che la definizione del percorso giovanile del G. debba basarsi quasi esclusivamente sulle informazioni raccolte nel ricco medaglione biografico sull'artista redatto da F.M. Tassi (pp. 57-74), da considerarsi, nonostante qualche divagazione romanzesca, fonte sostanzialmente affidabile, anche in considerazione del fatto che l'autore aveva conosciuto personalmente il G. (del quale era stato allievo dilettante) e che la stesura del testo avvenne in anni decisamente precedenti alla pubblicazione, tra il 1740 e il 1760 circa.
Secondo Tassi il G. si formò come pittore a Bergamo, dapprima frequentando la bottega di G. Cotta, quindi fermandosi per quattro anni in quella di B. Bianchini, pittore fiorentino trasferitosi poco dopo il 1668 nella città lombarda, dove si distinse anche per una cospicua produzione ritrattistica oggi non più reperibile. Già in questo periodo il G. manifestò, sempre secondo Tassi, quella decisa e pressoché esclusiva propensione per il ritratto che scandirà tutta la sua carriera e a documentare la quale l'erudito bergamasco ricorda in particolare un perduto Ritratto del padre del pittore, eseguito a quindici anni.
Il G., racconta Tassi, giunse a Venezia nel 1675 e vi rimase tredici anni. Fatto un breve ritorno a Bergamo nel 1688, poco dopo si trasferì nuovamente in laguna, attratto dalla fama di S. Bombelli, presso la cui bottega avrebbe lavorato per dodici anni. È ancora Tassi a segnalare che in questo periodo l'artista fu chiamato a Roma dal cardinale Pietro Ottoboni, il cui invito venne però ricusato per ragioni di salute dal G. che, in compenso, all'aprirsi del Settecento, decise di fare definitivo ritorno a Bergamo, in seguito all'alterarsi dei suoi rapporti col Bombelli, invidioso del suo successo.
A fornire un'importante conferma del discepolato del G. a Venezia presso il Bombelli contribuiscono innanzitutto le testimonianze dell'Orlandi (1719) e di G.B. Angelini (circa 1720), che definiscono esplicitamente il pittore friulano maestro del G.; i rapporti tra i due artisti emergono quindi con chiarezza dalle due lettere scritte da Venezia al nobile bergamasco Pietro Paolo Tassi e risalenti rispettivamente al 22 aprile e al 23 nov. 1701. Da esse si arguisce infatti che il G. aveva fatto da tramite tra Tassi e Bombelli per far eseguire a quest'ultimo un ritratto di un gentiluomo suo amico residente a Venezia.
Le due lettere contengono ulteriori informazioni significative. Nella prima di esse, infatti, il G. dichiara esplicitamente di godere di una grande notorietà a Venezia e attribuisce proprio ai numerosi impegni nella città l'impossibilità di realizzare i ritratti richiestigli dal suo corrispondente e da altri committenti: un'affermazione che costituisce un importante indizio dei rapporti intrattenuti dall'artista con la committenza bergamasca anche durante il soggiorno veneziano. Nella seconda lettera, inoltre, il G. annuncia a Tassi la possibilità di trasferirsi dopo l'inverno per qualche tempo a Bergamo per mettersi al suo servizio: tale notizia fornisce una significativa conferma dell'indicazione di F.M. Tassi relativa alle circostanze del ritorno dell'artista nella città natale.
Il rientro a Bergamo, forse anticipato dal breve soggiorno di cui dà conto la lettera del novembre 1701, dovette in realtà di lì a breve configurarsi come un definitivo trasferimento, dal momento che le numerose opere superstiti del G. attestano con continuità la sua attività per la committenza bergamasca, a partire proprio dai primi anni del Settecento.
Assai problematica appare la ricostruzione della vicenda giovanile del pittore, in corrispondenza cioè dell'apprendistato bergamasco e delle due lunghe permanenze veneziane. Riguardo all'attività svolta dal G. nei suoi primi anni, la biografia tassiana si rivela infatti piuttosto laconica, limitandosi ad accennare ai ritratti eseguiti dal pittore nel corso dei suoi anni di formazione trascorsi a Bergamo e quindi agli studi sulle opere di Tiziano e del Veronese che l'artista avrebbe compiuto in occasione del suo primo soggiorno veneziano (1675-88). Più consistenti appaiono invece le informazioni relative al secondo soggiorno a Venezia (1688 - dopo il 1701), in merito al quale Tassi sottolinea l'assoluto adeguamento del G. al linguaggio di Bombelli ("sì perfettamente apprese quella maniera, che esposte alcune teste da lui fatte, furono dai primi professori dell'arte prese assolutamente per di mano del maestro": p. 59), individuando in questa circostanza la causa della "gelosia" del pittore friulano. Se la verosimiglianza di quest'indicazione, corrispondente al consueto topos storiografico dell'allievo che uguaglia i meriti del maestro, appare difficile da precisare, certamente più utili sono le informazioni fornite da Tassi riguardo alle opere realizzate dal G. durante la sua seconda permanenza a Venezia. L'erudito bergamasco ci informa infatti che il pittore in quegli anni realizzò, oltre a un Autoritratto, i ritratti di Niccolò Olmo, governatore della Scuola grande di S. Marco, di un "Senatore in piedi in casa Giustiniani", dell'avogadore Lauro Querini, quindi quelli del duca di Fiano Marco Ottoboni (fratello del cardinale Pietro) e della moglie: un ristretto nucleo di opere, che pare comunque sufficiente, considerato il prestigio dei committenti, a confermare la considerevole affermazione ottenuta dal G. a Venezia.
A fronte di queste notizie, la definizione dell'intera produzione del G. prima del ritorno a Bergamo è resa decisamente ardua sia dall'impossibilità di identificare i ritratti ricordati da Tassi sia dalla carenza di opere databili con certezza o con buona probabilità entro gli anni veneziani dell'artista.
A tale riguardo occorre segnalare che, se il riferimento al G. del Ritratto di Filippo Farsetti, podestà veneziano di Crema, conservato presso il municipio di Crema e datato 1691 (Alpini), appare difficilmente accertabile a causa delle mediocri condizioni del dipinto, maggiore consistenza sembra rivelare la proposta, già avanzata nella letteratura di inizio secolo (Un ritratto…, 1916) e quindi accettata più recentemente dalla Gozzoli (p. 124 n. 152), di assegnare al pittore il Ritratto di Bartolomeo Manganoni del Musée des beaux-arts di Narbonne, quasi certamente databile, in base a dati relativi alla carriera militare del personaggio, tra il 1693 e il 1696. Oltre a un carattere fortemente bombelliano il dipinto esibisce, specie nella definizione dell'abito, una stesura pastosa e un'esattezza naturalistica che rendono plausibile ascriverlo agli anni veneziani del Ghislandi.
Sempre riguardo alla decifrazione dell'attività lagunare del pittore un importante contributo è quindi offerto da due ritratti, il Ritratto di senatore veneziano, già nella collezione Beltrami a Bergamo, e il Ritratto di senatore veneziano in collezione cremasca (Frangi, 1997): due dipinti caratterizzati da una condotta pittorica di straordinaria intensità che ne stabilisce in modo incontestabile l'attribuzione al G., come da sola basterebbe a dimostrare, in entrambe le tele, la resa sontuosa della toga senatoriale. Le due opere dovrebbero collocarsi verso la fine del soggiorno veneziano del G., dal momento che i loro caratteri di stile già in parte collimano con quelli dei dipinti eseguiti dopo il ritorno del pittore a Bergamo.
Diversamente da quella veneziana, l'attività bergamasca dell'artista, protrattasi per circa un quarantennio, appare ricostruibile con un certa chiarezza in virtù dell'abbondante patrimonio di dipinti superstiti, indizio della notevole fortuna goduta dal pittore anche al di fuori del contesto cittadino. Nel dar conto dell'attività del pittore "appena giunto" nella città natale Tassi (p. 60) fornisce un breve ma circostanziato elenco di ritratti che si rivela di straordinaria utilità, in quanto alcuni dei dipinti menzionati dal biografo risultano certamente identificabili con opere tuttora esistenti. Si tratta, rispettivamente, del Ritratto di Ludovico Rota padre del Museo di belle arti di Budapest, del Ritratto di Ludovico Rota figlio e del Ritratto di Giuseppe Maria Rota con il capitano Antonio Brinzago da Lodi, entrambi in collezione privata a Bergamo, e quindi della Testa dell'imperatore Vitellio dell'Accademia Carrara di Bergamo (inv. 44/157). Più incerto risulta essere, invece, il caso del Ritratto di anziano sacerdote, firmato (Ibid., inv. 45/46), la cui identificazione con la "mezza figura" rappresentante un "Prete", ricordata presso i conti Carrara da Tassi (e anch'essa annoverata tra le opere realizzate dal G. poco dopo il rientro a Bergamo), non appare accertabile in modo definitivo, sebbene il dipinto si mostri coerente, da un punto di vista stilistico, a quelli prima ricordati.
I ritratti dei Rota e il Vitellio vengono così a proporsi come fondamentale testo di riferimento per comprendere i contenuti della pittura del G. in seguito al lungo soggiorno veneziano, le cui tracce emergono soprattutto nell'evidente intonazione bombelliana dei due Ludovico Rota, padre e figlio. Un carattere più schiettamente autonomo rivela invece il notevolissimo Ritratto di Giuseppe Maria Rota col capitano Antonio Brinzago, forse leggermente successivo e contraddistinto da una vivida individuazione naturalistica dei personaggi, cui contribuisce l'utilizzo di una stesura sensibile e obiettiva (certamente maturata anche grazie al rinnovato contatto con gli esempi di G.B. Moroni), attenta a indagare tanto la fisionomia dei volti quanto la consistenza delle stoffe degli abiti.
Sulla base delle affinità stilistiche con il nucleo di opere individuato da Tassi, e in particolare con il doppio ritratto di Giuseppe Maria Rota e di Antonio Brinzago, si possono riferire a questo primo momento dell'attività del G. anche altri suoi ritratti, tra i quali meritano di essere ricordati almeno la Cecilia Colleoni (Bergamo, collezione privata), la cui data 1705, benché inserita in un'iscrizione apocrifa, si rivela sostanzialmente verosimile, e il Ritratto di gentiluomo, forse un membro della famiglia Albani, già nella raccolta Roncalli di Montorio a Bergamo e ora in una collezione romana.
Di notevole interesse si rivela il passo di Tassi successivo all'elenco delle prime opere bergamasche, nel quale si riferisce come in quel tempo il G. si fosse recato a Milano per frequentare la bottega di Salomone Adler (morto in quella città nel 1709) e studiarne le opere.
Benché il ruolo di allievo di Adler giocato dal G. nella ricostruzione dei fatti proposta da Tassi poco si adatti a un artista ormai quarantenne, la notizia appare nella sostanza affidabile e induce a riflettere sulla possibilità che proprio la conoscenza di Adler poté incentivare il G. a dedicarsi al genere delle teste di carattere e dei ritratti in costumi orientali, che costituirà un settore significativo della sua produzione negli anni bergamaschi. Va inoltre sottolineato che il rapporto tra i due artisti sembra trovare conferma nel presunto Ritratto di Salomone Adler del G. conservato in collezione privata bergamasca (Gozzoli, p. 111 n. 66).
Una fase di poco successiva nel percorso del pittore è rappresentata da una serie di opere per varie ragioni collocabili negli anni a cavallo tra primo e secondo decennio del Settecento e comprendente il Ritratto di Giovan Francesco Albani del Museo Poldi Pezzoli di Milano, databile per ragioni che si deducono dall'iscrizione che incornicia il dipinto tra il 1708 e il 1711 (cronologia che collima con quella implicitamente proposta da Tassi); il Ritratto di Gerolamo Secco Suardo dell'Accademia Carrara, la cui data autografa va probabilmente letta 1710; il Ritratto di un gentiluomodi casa Finardi in collezione privata bergamasca, pendant di un Ritratto di Clara Benaglia Finardi, firmato e datato da Pierre Roumier nel 1710 e dunque da immaginarsi all'incirca coevo; il Ritratto di Giovan Battista Vailetti delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, menzionato da Tassi poco prima del perduto Ritratto del capitan grande Agostino Barbarigo, eseguito nel 1711; e quindi l'Autoritratto in collezione privata bergamasca, datato sul retro 1712. Assai problematico appare invece l'inserimento in questo contesto del notevole Ritratto di Bartolomeo Secco Suardo in collezione privata bergamasca, solitamente datato prima del 1710, anno di morte dell'effigiato, ma i cui caratteri di stile sembrano suggerire una collocazione più avanzata e quindi un'esecuzione post mortem.
Questi dipinti, ai quali si possono affiancare su base stilistica altri eccellenti esemplari come il presunto Ritratto di Andrea Asperti con il figlio (collezione privata) e il Ritratto di un gentiluomo di casa Marenzi (Bergamo, Accademia Carrara, inv. 1143/1230), si pongono nel loro complesso come seguito diretto dell'esperienza avviata con il doppio ritratto di Giuseppe Maria Rota e di Antonio Brinzago, del quale ribadiscono il lucido sguardo naturalistico e la propensione per una presentazione semplificata e antiretorica delle figure. Tali requisiti consentono di accostare queste opere agli esiti contemporanei della ritrattistica milanese e in particolare ad Andrea Porta e ad Antonio Lucini, con i quali il G. dovette intessere, fin dal momento del suo ritorno a Bergamo, un dialogo proficuo che si pone come significativa conferma dei rapporti intrattenuti dal pittore con Milano. A questo riguardo va rilevato che se da un lato le prime opere bergamasche del G. sembrano rivelare la conoscenza dei ritratti eseguiti da Porta negli anni Novanta del Seicento e di quelli del primo periodo di Lucini, come il Ritratto di Orazio del Conte (Milano, Ca' Granda) del 1705, risulta d'altro canto altrettanto evidente l'influsso esercitato dalle prove del G. sugli esiti più maturi di Lucini, quali il Ritratto di Giulio Cesare Pessina, del 1715, conservato alla Ca' Granda e palesemente suggestionato da modelli galgarieschi sul tipo del Ritratto di Gerolamo Secco Suardo.
Specie a partire dal secondo decennio del secolo la vicenda del G. appare scandita da una serie di impegni di prestigio attraverso i quali si può seguire la crescita notevole della fama dell'artista, che oltre a imporsi come il ritrattista decisamente più ambito dalla nobiltà bergamasca, si dimostrò in grado di ottenere importanti riconoscimenti anche al di fuori della propria città. Come si deduce ancora da Tassi, infatti, nel 1711 e nel 1714 il G. fu incaricato di eseguire, rispettivamente, i ritratti - da collocare in sede pubblica - del Capitan grande Agostino Barbarigo e del suo successore Carlo Zenobio, oggi perduti. Nel 1717, quindi, il pittore venne invitato dal cardinale Giacomo Boncompagni a Bologna - l'arrivo in città è confermato anche da Orlandi - e in quell'occasione, oltre a realizzare il ritratto del porporato, anch'esso disperso, fu accolto nel novero degli accademici d'onore dai membri dell'Accademia Clementina, che sancirono questa attestazione di stima con un documento del 17 ott. 1717, firmato in qualità di viceprincipe della congregazione da Donato Creti e integralmente pubblicato da Tassi (p. 63). Ancora Tassi rende note due lettere di poco successive inviate al pittore, una da padre Alessandro Visconti (Bologna, 6 apr. 1718), l'altra dal monaco vallombrosano Ferdinando Orselli (Forlì, 9 apr. 1719), dalle quali si deduce la profonda familiarità del G. con alcuni esponenti di spicco della contemporanea pittura bolognese, vale a dire Aureliano Milani e Carlo e Felice Cignani, verosimilmente conosciuti in occasione del suo soggiorno bolognese.
È sempre Tassi a informarci della prestigiosa commissione al G. dei ritratti, oggi perduti, di tre governatori austriaci dello Stato di Milano, Massimiliano Carlo di Löwenstein, Gerolamo di Colloredo e Wirico Filippo Lorenzo di Daun, in carica rispettivamente nei periodi 1717-18, 1719-25 e 1725-33, anni che dovettero evidentemente coincidere con la realizzazione delle loro effigi da parte del pittore. Fu in occasione di queste imprese per la corte milanese che il G. eseguì, secondo Tassi, anche altri ritratti per la nobiltà cittadina e in particolare per gli Angelini, gli Stoppani e i Visconti di Brignano, nessuno dei quali è oggi identificabile.
Concentrando l'attenzione sulle opere superstiti, occorre innanzitutto segnalare come la definizione del percorso del G. nel secondo e nel terzo decennio del secolo, successivamente al già citato Autoritratto del 1712, sia sorretta da un numero estremamente esiguo di riferimenti cronologici, circoscrivibili alla data autografa del 1717 leggibile nel non eccelso Ritratto del dottor Bernardi, eseguito per i canonici lateranensi di S. Spirito a Bergamo (oggi in collezione privata), al sicuro termine ante quem del 1720 circa per il notevolissimo Ritratto di giovinetto, detto l'Allegrezza, del Museo Poldi Pezzoli a Milano (ricordato nel poema Bergamo descritto, iniziato da Giovan Battista Angelini in quell'anno), e alla data del 1724 leggibile nei cartigli che corredano il Ritratto di Giovanni Domenico Albani e quello della moglie Paola Calepio Albani (Milano, collezione privata), sebbene Tassi (p. 69) menzioni i dipinti dei due coniugi tra le opere estreme del Ghislandi. A queste indicazioni vanno aggiunte quelle deducibili dall'età dei personaggi effigiati, di cui conosciamo gli estremi biografici, sulle base delle quali risulta possibile situare ancora entro il secondo decennio o poco oltre il Ritratto di Ottavia Furietti Moroni (1692-1769) e il Ritratto di Antonio Cifrondi (1656-1730), entrambi in collezione privata, nonché l'Autoritratto entrato nel 1737 nella collezione Schulenburg (Binion, 1990, p. 154) e recentemente riapparso sul mercato milanese (Fra Galgario…, 1995, n. 10). Al terzo decennio dovrebbe invece spettare il Ritratto del maresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, generale al servizio di Venezia, conservato in collezione privata (Barigozzi Brini); mentre per quanto riguarda il ben noto Ritratto di Giovanni Secco Suardo con un servitore (Bergamo, Accademia Carrara, inv. 47/759), l'età dimostrata da Giovanni (1678-1733) sembra indurre a una datazione dell'opera in prossimità del 1720.
Proprio quest'ultimo dipinto costituisce un documento del tutto eloquente per comprendere gli sviluppi della ritrattistica galgariesca successivamente alla fase ancorabile agli anni tra primo e secondo decennio. Elogiato con entusiasmo da Tassi, il ritratto bene esemplifica infatti l'abbandono da parte del pittore della condotta sorvegliata e descrittiva delle opere precedenti, in favore di una stesura più libera e vibrante, di straordinaria ricchezza materica e cromatica, che si ritrova in tutti gli altri i ritratti scalabili, sulla base dei dati di stile, nel secondo decennio inoltrato e in quello seguente.
Rientrano in questo gruppo, oltre alle opere già ricordate, alcuni dei vertici della produzione del G. come i magnifici tre ritratti di gentiluomini in costume orientale già nella collezione Barbò a Milano (Gozzoli, pp. 121 s., nn. 130-132), il Ritratto di Filippo Marenzi dell'Accademia Carrara di Bergamo (inv. 1142/1231), il suo pendant con il Ritratto di giovane con turbante e il Ritratto di giovane gentiluomo del North Carolina Museum of art di Raleigh: tali opere sono accomunate da una spettacolare tessitura pittorica che trova i propri momenti salienti nella definizione palpitante e atmosferica degli incarnati e nella resa spumeggiante dei dettagli del vestiario, quasi sempre resi vivaci dalla scelta di toni accesi, tra i quali prevalgono le sontuose lacche rosse apprezzabili per esempio nel Giovanni Secco Suardo col servitore e nell'Allegrezza del Poldi Pezzoli.
Nel commentare, in anni che all'incirca coincidono con quelli di questi dipinti, i caratteri della pittura del G., Orlandi pone l'accento sulla qualità tizianesca di questi effetti cromatici: "il suo forte però è nel dipignere, e ritrarre dal naturale, con tanta buona grazia, e forte colore, che dà nel gusto tizianesco" (Orlandi). Il riferimento a Tiziano sarà ripreso anche da Zanetti, quindi più estesamente da Tassi (p. 60), che riferisce l'aneddoto secondo cui il G. avrebbe raschiato con un coltello un dipinto del pittore veneziano in suo possesso, nel tentativo di scoprire i segreti della sua tecnica. In realtà la comprensione delle precise suggestioni che poterono sollecitare il raggiungimento di questo "forte colore" si rivela ancora oggi piuttosto ardua e, se indubbio appare il ruolo giocato in tal senso dalla meditazione sui grandi testi della pittura veneziana cinquecentesca, così come su certi esiti del barocco veneziano, da J. Liss a B. Strozzi, non va trascurato il possibile apporto fornito al G. dalla conoscenza delle opere di G.M. Crespi, da lui forse già incontrato a Venezia e quindi certamente frequentato al momento del soggiorno bolognese del 1717. Va in ogni caso precisato che l'acquisizione di queste preziosità pittoriche non può essere intesa come una diretta conseguenza della giovanile stagione veneziana dell'artista, in quanto essa si manifesta solo a partire dalle opere del secondo decennio del Settecento, rivelandosi pertanto il risultato di una personale ricerca da parte del G., perseguita ormai nel pieno degli anni bergamaschi.
A questo riguardo occorre sottolineare come gli strepitosi effetti cromatici esibiti dalle opere del pittore fossero anche frutto dell'impiego di lacche che egli preparava personalmente e la cui inimitabile preziosità è attestata chiaramente sia dalla lettera di Orselli del 1719, nella quale si invita il G. a inviargli un po' della sua lacca, sia soprattutto dalle due celebri lettere, rispettivamente del 4 e del 14 luglio del 1731, scritte a Venezia da Sebastiano Ricci e indirizzate a Giacomo Tassi a Bergamo. In esse Ricci, oltre a definire il G. "molto mio amico", prega Tassi di procurarsi presso il frate pittore "cinque o sei once, o se potesse, ancora una libbra di quella lacca fina che il detto Padre sa comporre, ma la vorrei avere della più bella che mai sapesse fare. So che ne fa per adoperarla lui medesimo di una estrema bellezza…". La preghiera andò immediatamente a buon fine e per sdebitarsi Ricci inviò al G. 6 libbre di biacca.
A di là delle disquisizioni sulle fonti figurative del G., è bene peraltro tenere presente, sulla scorta delle fondamentali aperture di Longhi e di Testori (1953; 1970), come la prerogativa più significativa della vicenda del pittore risieda nella capacità di far coincidere il libero e compiaciuto dispiegarsi della tavolozza con una sensibilità naturalistica sorprendente, già acutamente percepita, all'altezza circa del 1720, da G.B. Angelini. È proprio in virtù di questo raro connubio, sostanziato da una grande finezza nell'individuazione psicologica del personaggio, che il G. si propone, specie con le opere eseguite nel secondo e nel terzo decennio del secolo, come una delle voci più alte della contemporanea ritrattistica europea.
Fin dai suoi primi anni bergamaschi, e soprattutto a partire dal secondo decennio del secolo, il G. affiancò costantemente alla propria attività ritrattistica una cospicua produzione di teste e ritratti di carattere, del cui vasto successo collezionistico forniscono precise indicazioni le parole di Tassi che, oltre a segnalare la loro presenza nelle "principali gallerie d'Italia", elenca dettagliatamente tra gli acquirenti di queste opere "bizzarre e capricciose" sir Marmaduke Constable, di York, il maresciallo Ch. Fouquet de Belle-Isle a Parigi, il principe Eugenio di Savoia e il conte di Collalto a Vienna. Stranamente Tassi non segnala in questo contesto il maresciallo von der Schulenburg, nella cui raccolta veneziana figuravano undici "teste" e "mezze figure" del G. (Binion, 1990) che dovevano in larga parte corrispondere al genere di dipinti cui sopra si accennava.
Una prova in questo senso è fornita dagli esemplari di quella serie riapparsi più o meno recentemente, vale a dire il Giovane con turbante già in deposito al Landesmuseum di Hannover (Gozzoli, p. 133 n. 221), il Ragazzo con bicchiere di vino in collezione privata (Binion, 1990, tav. 18) e quindi il Ragazzo con turbante esitato presso Sotheby a Londra (9 dic. 1987, lotto 22) e il dipinto di analogo soggetto recentemente esposto presso la galleria Rob Smeets a Milano. Tutti questi dipinti della collezione Schulenburg risultano acquisiti nel 1737.
I numerosi esemplari superstiti rivelano il particolarissimo approccio del G. a questo specifico genere che, com'è noto, ottenne una notevole fortuna, non solo in Italia settentrionale, a partire soprattutto dall'inizio del Settecento. Oltre a privilegiare decisamente la rappresentazione di ragazzi, spesso raffigurati con vistosi turbanti, sciarpe colorate o giocosamente atteggiati da artisti, le invenzioni "di carattere" del pittore si rivelano infatti nella maggior parte dei casi ispirate a modelli reali di cui è facile riconoscere le rispettive fisionomie, più volte replicate dal G.: una circostanza, già precisata da Tassi e che, oltre a differenziare le opere del pittore bergamasco da quella degli altri specialisti in questo campo, contribuisce a rendere nella sostanza molto sottile il confine tra questa produzione del G. e quella esplicitamente ritrattistica. Una conferma eloquente in tal senso è offerta dal fatto che molto spesso le rappresentazioni di tali giovani in abiti stravaganti non si limitano alla raffigurazione del volto ma si rivelano impaginate alla stregua di veri e propri ritratti a mezzo busto, come si vede in alcuni dei più alti esempi della serie, dall'Allegrezza del Poldi Pezzoli al più tardo Ritratto di giovane con scultura - già nella collezione Pesenti a Bergamo (Gozzoli, p. 112 n. 69), collocabile nella seconda metà degli anni Venti - e al Ritratto di giovane pittore dell'Accademia Carrara (inv. 35/241), databile ormai all'aprirsi degli anni Trenta, dal momento che l'immagine replica fedelmente quella del dipinto visibile nell'Autoritratto del G. eseguito nel 1732 e conservato esso pure all'Accademia Carrara.
Al di là di questa precisazione va comunque rilevato come la fortunatissima galleria di teste e di mezze figure "di carattere" del pittore si riveli un buon viatico per ripercorrere la maturazione stilistica intervenuta nel percorso del G. a partire dal secondo decennio e di cui danno conto, oltre alle tre opere sopra citate, il Giovane in rosso del Fitzwilliam Museum di Cambridge, il Giovane col tricorno in collezione privata bergamasca, già nella raccolta di Pietro Ginoulhiac a Milano (Gozzoli, p. 109 n. 48), oppure il Giovinetto scultore delle Civiche Raccolte d'arte del Castello Sforzesco di Milano, tutte opere databili nel secondo e nel terzo decennio del secolo e immancabilmente contraddistinte da quegli spettacolari effetti cromatici e da quella seducente ricchezza materica che caratterizza il linguaggio del pittore in questi anni.
A fornire un prezioso supporto nella definizione dell'ultima fase della vicenda del G., oltre il crinale del terzo decennio del secolo, contribuiscono innanzitutto tre opere fortunatamente accompagnate da date del tutto affidabili, vale a dire l'Autoritratto dell'Accademia Carrara (inv. 41/245), firmato e datato 1732, il Ritratto di Francesco Biava, parroco di Taleggio, firmato e datato 1736, e il Ritratto del frate Giovanni Battista Pecorari degli Ambiveri, datato sul retro 1738 (entrambi a Bergamo, in collezione privata). Integrando le indicazioni di Tassi con quelle offerte dalle biografie dei personaggi effigiati, si possono inoltre ricavare altri punti fermi per la cronologia, per esempio individuando un sicuro termine ante quem al 1734 per il Ritratto di Andrea Fantoni (Bergamo, collezione privata), lo scultore di Rovetta (1659-1734) raffigurato dal G. in età molto avanzata, all'incirca sui settant'anni. Restando in tema di ritratti di artisti va poi considerato il Ritratto di Giambattista Tiepolo dell'Accademia Carrara di Bergamo (inv. 30/165), eseguito con ogni probabilità in corrispondenza del soggiorno bergamasco di questo, avvenuto tra il 1732 e il 1733; mentre sempre agli anni Trenta dovrebbe risalire il Ritratto di Giovan Battista Caniana (1671-1754) conservato nella basilica di S. Martino ad Alzano Lombardo (Bergamo). Da Tassi (p. 68) si deduce inoltre che nel 1737 il pittore ultimò il Ritratto di Paolo Querini, podestà di Bergamo, e "gli otto ritratti de' suoi religiosi" destinati a decorare la sagrestia del convento del Galgario: si tratta di opere perdute che, nel racconto del biografo, sono però ritenute all'incirca coeve di altre imprese superstiti, e cioè il rifacimento del Ritratto di Francesco Maria Bruntino, oggi all'Accademia Carrara di Bergamo (inv. 37/676), evidentemente iniziato dal G. qualche tempo prima, e il Ritratto di Giacomo Carrara (Ibid., inv. 33/385), per il quale l'indicazione di Tassi trova conferma nel fatto che proprio nel 1737 l'illustre collezionista portò a termine la propria educazione in collegio. Lo stesso 1737 costituisce, infine, un sicuro e ravvicinato termine ante quem per il Ritratto di Alberto Grataroli (morto in quell'anno), del Luogo pio Grataroli di Bariano (Frangi, 1991, p. 280).
La sequenza delineata da queste opere lascia intendere, in termini piuttosto chiari, l'evoluzione dello stile del G. nella stagione finale della sua carriera, caratterizzata da un progressivo abbandono della rigogliosa tessitura pittorica delle opere dei due decenni precedenti, in favore di un impasto più franto e sgranato, dai toni spesso decisamente ribassati, i cui esiti estremi sono da individuare in capolavori ormai tendenti a un registro quasi monocromo, come il Ritratto di Giovanni Battista Pecorari degli Ambiveri o il Ritratto di frate domenicano in collezione privata (Gozzoli, p. 116 n. 96). Anche in questi anni il pittore seppe tuttavia dare vita a opere di splendente virtuosismo pittorico, tra le quali merita di essere menzionato il ben noto Ritratto di cavaliere dell'Ordine costantiniano del Museo Poldi Pezzoli di Milano, che nell'inaudito petrissage materico con cui sono restituiti i tratti del volto si rivela una delle prove più significative di tutta la vicenda dell'artista.
La lettura della produzione tarda del G. non può evidentemente non tener conto dell'indicazione fornita nuovamente da Tassi (p. 68) secondo la quale, a partire del 1732, il pittore "avendo la mano alquanto tremante cominciò a dipignere col dito anulare tutte le carnagioni, la qual cosa continuò sino alla morte": una notizia che consente di meglio intendere certe soluzioni esecutive messe in opera dal G. nei suoi dipinti più avanzati e che trova conferma, ancora vivente l'artista, in una nota dei libri cassa dello Schulenburg risalente al 16 giugno 1737, nella quale il pittore è indicato come "Padre Pauloto che pinse col dito" (Binion, 1990, p. 154).
Il G. morì a Bergamo all'inizio di dicembre del 1743 (Tassi, p. 69).
Non sono rimaste tracce delle poche opere non ritrattistiche del G. menzionate senza particolare entusiasmo da Tassi (p. 67), che ricorda degli affreschi giovanili nella casa Zanchi a Rosciate e quindi alcuni dipinti religiosi nelle chiese di Longuelo, Sforzatica e nel convento del Galgario.
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