CERUTTI (Ceruti), Giacinto
Nacque a None (Torino) nel 1735 in una famiglia piccolo borghese (il padre era uno stimato chirurgo). Spinto dal desiderio di evadere da un ambiente provinciale, prese l'unica decisione possibile per un giovane di mediocre fortuna e, fidando sulle proprie doti intellettuali per emergere, nel 1751 vestì l'abito clericale per poter intraprendere gli studi superiori a Torino (più tardi il più giovane fratello Giuseppe Antonio scelse la strada più impegnativa dell'ingresso nella Compagnia di Gesù). Intorno ai vent'anni, per ottenere l'indipendenza economica, divenne precettore dei due nobili fratelli Morozzo di Bianzè, Carlo Fortunato, poi matematico e presidente dell'Accademia delle scienze, e Giambattista. Frattanto proseguiva gli studi nei campi più disparati: teologia, filosofia, matematica, scienze naturali, lingue orientali, letteratura greca e latina, lingue moderne. Il 30 maggio 1756 egli si laureò in teologia presso l'università di Torino, dove il 13 luglio 1758 conseguì anche la laurea in filosofia. L'anno seguente pubblicò la sua prima opera, Il libro di Giobbe recato dal testo ebreo in versi italiani ... (Torino 1759), una dignitosa traduzione che il C. volle dedicare al principe ereditario, il duca di Savoia Vittorio Amedeo (dal 1773 re di Sardegna) nella speranza, poi rivelatasi fallace, di poter acquistare benemerenze presso la corte.
Alla traduzione egli aveva premesso un'ampia prefazione che aspirava ad essere un saggio sulle origini della poesia, in particolare sulla poesia ebraica, contenente alcuni brani della versione del Cantico dei cantici. La tesi fondamentale del C. era la priorità della letteratura poetica in versi rispetto alla prosa e la sua origine religiosa: quanto al libro di Giobbe, egli sosteneva l'opinione allora dominante che lo considerava contemporaneo o più antico del Pentateuco e ipotizzava che l'originale fosse stato scritto in lingua idumea e tradotto successivamente in ebraico, in quanto notava la presenza di numerosi vocaboli di origine non ebraica. D'altronde, lungi dall'essere originale, il C. seguiva in gran parte delle sue argomentazioni le tesi sostenute da Robert Lowth nelle De sacra poësi Hebraeorum praelectiones academicae Oxonii habitae ..., Oxonii 1753.
A Torino il C. non trovava lo spazio sufficiente per realizzare le sue ambizioni. Perciò nel 1760 lasciò la capitale subalpina (un distacco che, contro le sue intenzioni, doveva essere definitivo) per trasferirsi a Roma. Già il viaggio fu molto disagevole, essendo egli pressoché privo di mezzi di sostentamento: a Roma visse anni di estrema miseria e "privo d'ajuto, quasi lacero, indigente nell'indigenza, confinato per lo più nella volontaria sua solitudine viveva cheto, e contento de' suoi pochi amici, e de' molti suoi libri" (Andrà, p. 38). Ma, in realtà, ostentando una falsa umiltà e nello stesso tempo facendo conoscere il suo discreto valore di letterato, cominciava l'"assedio delle anticamere" dei potenti onde acquistare fama e danaro. Aiutato da alcuni amici, poté entrare in alcune "adunanze" romane e pubblicare alcuni scritti: a Lucca nei Miscellanei di varia letteratura videro la luce nel 1763 Della romana eloquenza. Ragionamento (II, pp. 91-112) e De l'usage de la raison et de l'autorité des gens de lettres dans les matières de religion (II, pp. 113-143).
Nel primo scritto, dedicato a Vittoria Corsini Odescalchi, il C., sfruttando un tema alla moda in alcuni ambienti culturali, esaltava l'antica Roma repubblicana non senza epidermici ammiccamenti a motivi illuministici: in essa - secondo il C. - trionfavano sia la libertà, fondamento della buona eloquenza, sia l'eguaglianza "regolata, e savia" basata sui diritti del cittadino; un omaggio particolare è rivolto ai Gracchi (e non a caso è ignorata l'eloquenza ciceroniana) capaci di "sollevare, ed incoragiare la Plebe per punire la tirannia de' Grandi, trasformare gli schiavi timidi in Cittadini liberi, e generosi, e sciogliendo ad una parte di Roma le catene, ridurre l'altra alla severa dipendenza delle Leggi" (p. 106). Il secondo scritto, dedicato a monsignor Cacherano di Bricherasio, sostenendo la perfetta conciliabilità della ragione con la rivelazione, svolge un'aspra requisitoria contro i "philosophes" che avevano usato la scienza contro la religione, essendo incapaci di leggere con umiltà i Vangeli e i Padri e non comprendendone quindi il vero significato.
Nello stesso anno, sempre a Lucca, il conte Francesco E. Guasco faceva stampare un Saggio di traduzioni del Sig. Abate Giacinto Cerutti, con brani dal libro di Giobbe e dal Cantico dei cantici, i salmiXLIV e CXXXVI del testo ebraico, brani dal libro di Isaia, sette odi di Pindaro, brani dall'Alceste di Euripide e dall'Edipo re di Sofocle, l'ode III del libro I di Orazio, i canti VII e IX dell'Henriade di Voltaire. A parte videro la luce la traduzione in versi sciolti della Fedra di Racine (Lucca 1763) e Le disgrazie di Ecuba (ibid. 1763) "tragedia scritta, secondo il sistema e le nuove idee del famoso sig. Diderot", in prosa armonica, tratta dall'Ecuba e dalle Troiane di Euripide.
Queste modeste fatiche letterarie non furono sufficienti a far ottenere al C. il successo cui egli aspirava: egli si affidò quindi, con progressiva mancanza di scrupoli, agli espedienti e ai raggiri. Di uno, non il più clamoroso, c'informa il Casanova. Il C., dopo aver confidato a un gentiluomo inglese, innamorato della principessa Lante, che essa aveva urgente bisogno di 200 zecchini, si era offerto di trasmetterglieli con discrezione e se n'era quindi appropriato; disgraziatamente per lui una spiegazione sopravvenuta tra l'ignara principessa e il suo spasimante fece scoprire l'inganno. Se in quest'occasione la pena fu soltanto quella dell'esclusione da palazzo Lante, ben più gravi furono le conseguenze di una truffa perpetrata ai danni di persone più potenti. Il C. con la sua affettazione era riuscito a conquistare la fiducia del nipote del papa, Abbondio Rezzonico. Questi, nel prendere possesso della carica di senatore (1765), aveva fatto coniare una medaglia commemorativa; il C. lo informò che il duca di Savoia Vittorio Amedeo sarebbe stato lieto di averne qualcuna in dono per il suo medagliere. Il Rezzonico ne fece prontamente battere tre d'oro, consegnandole al C. che, invece di inviarle all'ignaro duca, le depositò al Monte di pietà ricavandone settanta scudi. Nel marzo 1767 il ministro sardo a Roma, conte Balbis Simeoni di Rivera, interpellato dal Rezzonico, il quale era stupito per non aver ricevuto alcun cenno scritto di ringraziamento, scoprì l'inganno del C. e, riscattate le medaglie, le inviò al legittimo destinatario. Mentre il duca di Savoia ringraziava il Rezzonico con una lettera e una tabacchiera d'oro, da Torino giunse per il C. un ordine di rimpatrio. Egli invano impetrò il perdono dalla corte sabauda, affermando di dover rimanere a Roma in quanto stava lavorando insieme con Gaspare Saccarelli alla compilazione di una monumentale Historia ecclesiastica, che da molti mesi assorbiva tutto il suo tempo, i suoi libri e il suo denaro: di fronte alla irremovibilità del governo di Torino, si ribellò e rimase a Roma, pur sapendo che ciò gli avrebbe impedito di ottenere incarichi ufficiali e collazione di benefici. In questo stato lo incontrò il Casanova a Roma alla fine del 1771 e all'inizio del 1772, avendolo come vicino di stanza in una casa di piazza di Spagna.
L'avventuriero veneziano lo descrive non senza simpatia: "Cet abbé piémontais etait beau, savant, et tout ensemble bel esprit; mais il était pauvre, chargé de dettes, et perdu de réputation dans Rome". Divennero amici: il C. ne approfittò per ottenere in prestito per una settimana venti scudi, che dopo tre mesi non aveva ancora restituito; quando, spinto da cieca gelosia, denunciò alla padrona di casa l'abitudine del Casanova di intrattenersi di notte con la giovane figlia di lei Margherita, lamentando che i "badinages" e i "joyeux entretiens" dei due gli impedivano di dormire. Dopo aver placato le rimostranze della madre di Margherita, il Casanova impose al C. di andarsene o di restituirgli i soldi; ma l'abate piemontese, per acconsentire, riuscì a spillargli altri venti scudi necessari per pagare l'affitto di un'altra stanza per un mese. La loro amicizia comunque non si ruppe, tanto che poco tempo dopo il C. suggerì al Casanova un ingegnoso espediente per liberarsi della fastidiosa presenza di un fratello prete privo di mezzi di sussistenza, provvedendo a sistemarlo presso una chiesa di francescani.
Nel 1772 il C. riprese a lavorare con lena: pubblicò lo Specimen analyticum de viribus centralibus de corporibus,quae moventur in sectionibus conicis,de centro gravitatis et aequilibrii,et de motu corporum inter se connexorum (Romae 1772), che dimostrava il suo interesse per gli studi di fisica; fu con Giovanni Ludovico Bianconi uno dei fondatori delle Efemeridi letterarie di Roma, divenendone per qualche anno uno dei principali redattori; e soprattutto iniziò un'intensa attività di apologista della religione cattolica allo scopo di ottenere dalla Curia romana qualche lucroso impiego. Tradusse dal francese La novella protesa filosofia degl'increduli rea di lesa maestà divina,ed umana ... (Roma 1772) di Pierre-Olivier Pinault, corredandola di note e di una prefazione che rincaravano le violente accuse dell'originale contro le Système de la nature del Mirabaud, accomunando nella condanna anche i seguaci del deismo, primo fra tutti il Rousseau, il cui Contrat social veniva definito il libro "più temerario contro i diritti della legittima autorità"; in appendice veniva riportata la Memoria del clero gallicano alla Maestà del Re Cristianissimo sopra la pubblicazione de' libri empi presentata nel MDCCLXX. Videro poi la luce nello stesso anno, entrambe a Roma, altre due versioni: La religione vendicata e difesa colle armi stesse dell'incredulità di monsignor Le Franc de Pompignan e l'Istruzione del clero di Francia adunato in Parigi ai fedeli del Regno sopra i danni,e i pericoli dell'incredulità. L'anno successivo il C. pubblicò la maggiore delle sue opere di apologetica, il Ragionamento teologico sopra la evidente credibilità della cattolica religione (Roma 1773), una modesta e frettolosa epitome divulgativa delle ben più valide opere del Gerdil, del Valsecchi e dell'Abbadie. Egli vi dimostrava la superficialità della sua preparazione teologica, che invano tentava di coprire ricorrendo a tutte le astuzie della retorica, tuonando contro Voltaire e l'idea di tolleranza ed esaltando il potere papale.
Ma evidentemente l'aver posto la sua penna in sintonia con le direttive della Curia pontificia, sia in questi scritti sia nella compilazione delle Efemeridi letterarie (anche se in privato, scrivendo al conte G. Vernazza, lamentava ipocritamente che queste sarebbero risultate migliori "se non fossimo barbaramente schiavi e legati": Ademollo, p. 550), fu una decisione fruttuosa se nel 1773 ottenne dal maestro del S. Palazzo la nomina a segretario del Collegio dei teologi della Sapienza con una prebenda di 100 scudi annui.
Morto Carlo Emanuele III, il C. nel marzo 1773 presentò alla corte di Torino tramite il Rivera una supplica per ottenere il sospirato perdono necessario perché gli fosse assegnata una cattedra al Collegio romano: "Io non so più come vivere: l'impiego della Sapienza frutta più onore, che lucro: le Effemeridi sono un pane precario, meschino ed incertissimo ... L'età si avanza, la sanità se ne va, non sono più in grado di seppellirmi fra religiosi: che ho da fare? Ho da perire d'afflizione e di stento? sono disperato" (Ademollo, pp. 155 s.). Ma, benché il ministro sardo l'avesse accompagnato con una relazione favorevole, l'accorato appello del C. venne respinto e solo per l'intercessione dell'arcivescovo di Torino, Rorengo di Rorà, il 1º sett. 1773 il ministro degli Esteri Aigueblanche comunicò al Rivera che il re concedeva al C. il permesso di procurarsi a Roma qualsiasi impiego purché non dipendesse dal regno sardo e non tornasse in patria. Frattanto il C. era entrato al servizio del principe Luigi Gonzaga, che seguì a Firenze dal settembre 1773 alla metà del 1774: alla fine di quest'anno, ancora a Firenze, i due convinsero a seguirli a Roma Corilla Olimpica, decisi a farle ottenere la corona poetica in Campidoglio e a presentarla come simbolo della lotta antigesuitica. Il progetto riuscì: il 12 genn. 1775 Corilla fu acclamata in Arcadia; il 16 febbr. il C. (pastore arcade con il nome di Cronasto Barchiniano) vi recitò il Discorso accademico per la sua incoronazione (Opuscoli, Il, pp. 37-49), zeppo di lodi grottescamente iperboliche nei confronti di Corilla, definita "la più celebre donna del nostro secolo, cui natura fè dono del vero estro, e di quell'entusiasmo, che vantavano già la illustre Saffo, e 'l gran Pindaro" e "non inferiore ad Omero".
Frattanto, con l'elevazione al soglio pontificio di Pio VI, il clima politico a Roma era mutato e il C., sbilanciatosi negli ultimi anni verso la fazione antigesuitica, capì l'opportunità di cambiare aria e, grazie a una raccomandazione della granduchessa di Toscana Maria Luisa all'infante di Spagna Gabriel Antonio, ottenne un incarico di insegnamento presso l'accademia militare di Madrid con lo stipendio di 843 scudi con vitto e alloggio gratuiti. Egli contraeva l'obbligo di rimanere almeno cinque anni e di risiedere durante l'anno sei mesi a Madrid e sei mesi ad Avila, impartendo tre lezioni settimanali di matematica, storia e belle lettere. Il C. contava in tal modo di raggranellare 3.000-4.000 scudi da impiegare, una volta tornato a Roma, in uffici vacabili. Così, verso i primi di maggio del 1775, egli lasciava l'Italia, come avvertiva il Rivera, "dopo aver fatto un'infinità di stocchi, e lasciato una quantità di debiti" (Ademollo, p. 159).
Poco si sa del suo lungo soggiorno spagnolo. Secondo l'Andrà "le sue lezioni furono applaudite, e trionfò particolarmente dopo aver dileguati moltissimi pregiudizi religiosi, rovesciate le are del Pedantismo, ed abbattuto l'idolo della scolastica superstizione" (p. 43). Nel 1779 era divenuto direttore e primario professore di matematica nella Reale Accademia dei cavalieri guardie marine di Cartagena, come è confermato dal frontespizio dei due volumi di suoi Opuscoli (Siena 1779), dedicati al principe Gonzaga.
Il primo volume, oltre alle opere teologiche già pubblicate, conteneva due dissertazioni, Della eternità delle pene dell'inferno (I, pp. 1-42) e Del purgatorio (I, pp. 43-72), scritte "per alto comando" mentre si trovava ancora a Roma, prive di originalità in quanto dichiaratamente ispirate alle ben più solide opere dei domenicani Patuzzi e Porta. Nel secondo volume, dedicato ai discorsi accademici e alle opere poetiche, spiccano Il trionfo delle lettere sopra l'abuso dei duelli (pp. 3-20) e la traduzione del Cantico de' cantici di Salomone recato dal testo ebreo in versi toscani (pp. 233-250). Nel primo è notevole l'esaltazione che egli fa, con accenti illuministici, della funzione civile degli intellettuali per il progresso della civiltà, svalutando la capacità del potere e delle sole leggi di agire in tal senso. La seconda è senza dubbio la migliore traduzione del C., in versi sciolti aderenti al testo e pieni di calore e sentimento.
Dalla Spagna cercava di mantenere i contatti con il mondo delle lettere: tramite i suoi amici piemontesi Vernazza, Durando, Cochis, Geschi, Morozzo, Boccardi tentò nel 1783 di essere ammesso all'Accademia delle scienze di Torino; nello stesso anno inviò le sue opere a Federico II, sperando, per mezzo del Denina, di essere ascritto all'Accademia di Berlino. Ma le sue speranze andarono deluse.
Alla fine del 1786, ottenuto un congedo di un anno, si imbarcò su una fregata napoletana e si stabilì per qualche tempo nella capitale del Regno. Nell'aprile 1787 sperava di ottenere il posto di insegnante dei figli di Ferdinando IV di Borbone con lo stesso stipendio che percepiva a Cartagena. Perciò chiese a Madrid la giubilazione, che gli venne concessa. Frattanto avrebbe voluto compiere un breve viaggio a Torino per rivedere i suoi parenti, ma il permesso gli fu ancora negato dal governo sabaudo e anche la speranza di ottenere il posto alla corte napoletana svanì. Ritornò quindi a Roma nell'estate del 1787 e fece il suo reingresso in Arcadia con il discorso accademico, La dignità dell'uomo letterato ... (Roma 1788), pronunciato il 19 ag. 1787.
In esso, pur cautamente, dimostrava quanto si era andato accostando alle idee illuministiche, esaltando la fecondità del "dubbio indagatore" che le "lettere" e gli "scienziati" instillavano nella "nuova generazione" e nell'"immediato Secol nascente": "a questo nuovo spirito, a queste nuove idee, a queste migliori forme e concetti tutti un giorno ubbidiscono, piegansi lor malgrado i Grandi, i Principi ed i Monarchi" (pp. 19 s.). Non a caso in questi ultimi anni di vita il C. aveva ripreso un'assidua corrispondenza epistolare con il fratello Giuseppe Antonio, testimone e attore di lì a poco degli avvenimenti rivoluzionari in Francia.
Frattanto anche la versione in versi italiani dell'Iliade, che fece stampare in due volumi a Torino (1787-89), si risolse in un insuccesso. Il C. l'aveva iniziata in Spagna e nel momento in cui, nel 1786, aveva inviato allo stampatore Briolo di Torino la prima parte ignorava sia la traduzione del Ridolfi sia i primi due volumi di quella del Cesarotti. L'Iliade ebbe un'accoglienza fredda negli ambienti letterari: l'Arteaga lo accusò di scarsa conoscenza del greco; l'editore Tommaso Masi, pur scegliendola per la sua "Collana de' poeti greci" (Iliade..., Livorno 1805), denunciò la presenza di numerosi versi tolti dalla versione di A. M. Salvini; il Monti la giudicò "tutta zeppa di ... lascivie drammatiche, che Dio perdoni a chi se le gusta". Non aveva neppure ottenuto che il re di Sardegna accettasse la dedica del secondo volume dell'opera.
Nel 1788, dopo l'espulsione del nunzio pontificio da Napoli, essendo anche nelle grazie del segretario di Stato, il C. brigò invano presso la corte borbonica per essere accettato in quella carica. Gli riuscì invece di divenire agente del duca di Brunswick a Roma. Ma i suoi introiti non erano sufficienti a permettergli di condurre la vita che desiderava. Già gravemente malato dal 1790, poco prima di morire pregò il ministro sardo Priocca di aiutarlo a pagare un debito di 55 scudi. Questa volta la corte piemontese accolse la preghiera, ma prima che l'ordine giungesse a Roma, il C. era morto il 24 genn. 1792 "senza neppur lasciare denaro bastante per la sepoltura" (Ademollo, p. 405).
Fonti e Bibl.: Notizie per l'anno 1773, Roma1773, p. 42; ... 1778. Roma 1778. p. 42 (risultafino a tale anno segr. dei teologi della Sapienza); J. Casanova de Seingalt, Histoire de ma vie, VI, t. 12, Wiesbaden 1962, pp. 13-17, 20, 101, 243; G. G. Andrà, Elogio di G. C., Carmagnola 1793; V. Monti, Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell'Iliade, I, Milano 1832, p. 327; T.Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, II, Torino 1841, pp. 128-130, 344 s.; A. Ademollo, Corilla Olimpica, Firenze 1887, pp. 146, 149-161, 171, 402-406; L. Piccioni, Il giorn. letter. in Italia, I, Torino 1894, pp. 182 ss. (su cui vedi V.Cian, in Giorn. stor. della lett. ital., XXV [1895], pp. 104 s.); V. Cian, Italia e Spagna nel sec. XVIII. Giovambattista Conti e alcune relazioni letter. fra Italia e Spagna nella seconda metà del Settecento, Torino 1896, pp. 209-222; A. Farinelli, Italia e Spagna, II, Torino 1929, pp. 298, 310;G. Natali, Il Settecento, Milano 1935, ad Indicem.