DRAGONETTI, Giacinto
Nato a L'Aquila nel 1738 dal marchese Gianfilippo, studiò a Roma nel collegio "Nazareno", dove si mise in mostra come scrittore di eleganti versi italiani e latini. Nel 1760 si trasferì a Napoli per avviarsi alla carriera del foro. Qui seguì le lezioni di A. Genovesi, divenendone uno dei discepoli più capaci e attivi. Nel 1765 vi pubblicò, anonimo, il Trattato delle virtù e de' premi, scritto "per seguire il Trattato dei delitti e delle pene", come si legge nel titolo.
Grandissima fu la fortuna di quest'operetta che ebbe varie edizioni in molte città italiane e numerose traduzioni: in francese, inglese, russo e spagnolo. In essa il D. volle sviluppare, ma in senso positivo, la teoria utilitaristica contenuta nell'opera del Beccaria; quindi non più i delitti e le relative pene sono l'oggetto della sua analisi, bensì le virtù e i premi necessari a svilupparle.
L'operetta è un piccolo trattato di economia politica, in cui prendono forma una compiuta proposta di riforma economica di indirizzo genovesiano e una concezione politica contrattualistica con forti toni egualitari di ispirazione roussoiana. Le virtù di cui l'autore tratta non sono quelle "dell'animo", bensì quelle "politiche", le quali per essere rafforzate hanno bisogno di un premio, il "vincolo necessario per legare l'interesse particolare col generale"; nessuno infatti trascura un bene "senza speranza di uno maggiore". 1 premi devono però valorizzare le virtù utili alle società e non quelle che mirano a soddisfare i capricci dei singoli. L'utilità il D. la misura sui bisogni reali dell'uomo. Prima viene quindi la virtù "che procaccia il sostentamento per la vita", poi: quella che "tende al distruggimento de' mali"; "la virtù a cui gli uomini devono i comodi utili"; quella che produce i veri piaceri. L'"ultima è colei che appresta beni di opinione agli uomini già pieni di sazietà".
L'autore, passando poi a esaminare le attività dell'uomo secondo la scala di utilità sopradetta, trova che l'agricoltura è la più importante. Per stimolare con dei premi l'attività dei coltivatori, propone una maggiore libertà di corrimercio delle terre e una distribuzione delle terre dei Comuni ai contadini poveri, in modo da aumentarne le risorse senza toccare i grandi possedimenti dei "potenti"; da sviluppare con premi adeguati è anche lo studio delle tecniche agricole.
Importante è anche lo sviluppo della navigazione e lo studio dei problemi nautici, per i quali il D. propone di creare un banco pubblico, finanziato con i contributi della navigazione, per aiutare le famiglie dei naufraghi.
Particolare attenzione è dedicata al commercio, misurabile attraverso la quantità di beni circolanti e la velocità con cui girano. P, il commercio che fa la ricchezza di una nazione e non il possesso di "mucchi d'oro". Nella situazione di equilibrio in cui si trovano gli Stati europei del Settecento, per il D. non esiste la possibilità di una guerra che porti a vantaggi territoriali di uno Stato ai danni di un altro.
Per il Regno di Napoli sarebbe utile sfruttare la sua favorevole posizione geografica e sviluppare il commercio con l'Oriente. Inoltre bisognerebbe "allettare", con premi adeguati, l'immigrazione di artigiani stranieri capaci di lavorare la lana e la seta, di cui il Regno aveva una notevole produzione, che doveva, però, essere esportata come prodotto grezzo, visto che non c'era chi sapesse lavorarla adeguatamente. Il premio per attirare sempre più gente verso il commercio è quello di nobilitare i maggiori commercianti, come avveniva presso i Romani, i quali ammettevano all'ordine equestre chiunque avesse acquistato un patrimonio superiore a una determinata cifra. Premi adeguati dovevano essere previsti anche per lo sviluppo delle scienze e delle lettere, le quali, soddisfacendo la naturale curiosità dell'animo umano, sviluppano numerose conoscenze pratiche utili alla società.
Il sovrano, legittimo depositario del potere politico - creato con la somma delle porzioni di libertà di cui tutti i cittadini hanno fatto a meno - deve tendere ad aumentare la "porzione di felicità a ciascuno attribuita" e a diminuire la "quantità di libertà da ciascuno depositata". Egli deve diventare virtuoso attraverso il miglioramento della legislazione; in cambio "i suffragi degli uomini formano il premio della virtù de' sovrani".
Il 1765 fu anche l'anno in cui il D. iniziò la sua carriera forense difendendo, contro le pretese ecclesiastiche, i diritti della Corona sul regio patronato della badia di S. Maria della Valle Porcanete. Per questa causa pubblicò una Difesa del regio patronato di S. Maria della Valle Porcanete (s.n.t., ma Napoli 1765) e l'anno successivo una Risposta alle obbiezioni fatte contro il regio padronato di S. Maria della Valle Porcanete (s.n.t., ma Napoli 1766).
In seguito alla cacciata dei gesuiti dal Regno di Napoli - nel novembre del 1767 - il D. collaborò con il Genovesi alla riorganizzazione dell'ordinamento scolastico. A lui furono affidati l'incarico di scegliere i maestri delle scuole inferiori e - nel febbraio del 1768 - la sovrintendenza del collegio del "Salvatore", l'ex collegio "Massimo" dei gesuiti. L'incarico di sovrintendente del collegio era legato all'insegnamento degli Offici di Cicerone, che il D. doveva commentare alla luce di tutta "l'antica e nuova dottrina corrispondente ai doveri dell'uomo e del cittadino", come era scritto nella lettera di nomina di B. Tanucci. Per questo incarico gli era stato assegnato il ricco stipendio di 600 ducati l'anno.
Nel 1770 entrò nella magistratura, dove ricoprì numerose cariche di notevole importanza. Al suo primo incarico fu mandato come uditore e avvocato fiscale a Chieti; occupava ancora questa carica quando nel 1772 si trovò di nuovo impegnato in tribunale per difendere i diritti della Corona. In questa occasione pubblicò un'interessante allegazione intitolata Difesa del regio padronato della collegiata di Copertino ... (s.n.t., ma Napoli 1772).
Nel 1777 passò alla carica di assessore a Teramo, dove, come magistrato, intervenne a favore del sacerdote Berardo Quartapelle.
Questi insegnava, nella sua scuola privata, filosofia e fisica secondo le più moderne teorie e senza pregiudizi e per questo era stato attaccato dai frati e denunciato di numerosi capi d'accusa. L'intervento procurò al D. numerosi nemici: fu denunciato alla Real Camera per ventiquattro capi di accusa e circolarono opuscoli pro e contro il suo operato; alla fine il re impose il silenzio su questa controversia.
In seguito - dal 1784 al 1788 - fu segretario della Real Camera di S. Chiara. Si trovava in questa carica quando, nel luglio del 1786, la denuncia del consultore di Sicilia, Saverio Simonetti, apriva la discussione sul diritto di devoluzione e sull'interpretazione del capitolo Volentes. Scopo della polemica era quello di sapere se con questo capitolo, con il quale il re Federico d'Aragona nel 1296 aveva dispensato i feudatari siciliani dall'assenso regio nell'alienazione dei loro feudi, li avesse anche trasformati in allodi.
Il re fece esaminare la questione dalla Real Camera di S. Chiara, riunita in un consesso straordinario di dieci magistrati e - nel luglio del 1787 - per rafforzare il gruppo filogovernativo, minoritario all'interno della commissione, nominò altri quattro magistrati, tra cui il D., che fecero prevalere l'interpretazione governativa.
La corte volle in seguito orientare l'opinione pubblica, che aveva seguito con particolare interesse la questione, e ne diede l'incarico al D. il quale in questa occasione pubblicò l'Origine de' feudi ne' Regni di Napoli e Sicilia loro usi, e leggi feudali relative alla prammatica emanata dall'augusto Ferdinando IV per la retta intelligenza del capitolo Volentes (Napoli 1788).
L'opera riassume tutta la storia e i vari punti di vista della polemica e resta il documento più importante sulla questione. Il suo scopo è di smontare le argomentazioni dei difensori dei baroni siciliani. Questi sostenevano la particolarità del diritto feudale dell'isola rispetto al Regno di Napoli; inoltre, basandosi su una diffusa interpretazione del capitolo Volentes, affermavano che essi non erano soggetti alla devoluzione del proprio feudo al Fisco nel caso di mancanza di discendenti in grado, ma che potevano alienarlo liberamente, in quanto lo stesso capitolo li aveva trasformati in allodi.
Il D. affrontò il problema dal punto di vista storico, seguendo - come egli stesso afferma - il metodo di F. D'Andrea. Convinto che gli abusi erano nati da una serie di stravolgimenti della legislazione feudale, volle ricostruirne lo spirito originario da cui nacquero; a questo scopo utilizzò numerose fonti, antiche e moderne, ma fu soprattutto il Muratori che gli fornì il materiale per le sue analisi storiche. Ricostruì così la nascita dei feudi e la loro introduzione in Italia e nel Regno di Napoli, con particolare attenzione alle vicende politiche della Sicilia, dimostrando una solida conoscenza storica e giuridica.
Egli sostenne che i feudi erano di origine germanica e che furono introdotti in Italia dai Franchi e non dai Longobardi, come affermavano Giannone, F. D'Andrea e Pecchia. Con ciò il D. aveva sottratto la legislazione feudale al diritto privato romano; anzi, attribuendone l'introduzione ai Franchi, la legislazione feudale appariva di fatto sottoposta alla legislazione pubblica. Infatti egli affermava che la natura e le origini del diritto feudale erano nella costituzione e nell'organizzazione dello Stato, e quindi i feudi erano regolati dal diritto pubblico, e non potevano mai diventare proprietà privata ma appartenevano sempre allo Stato che li concedeva ai baroni solo a titolo di usufrutto. L'estensione del beneficio ai successori del feudatario, successivamente avvenuta, riguardava quindi questo diritto all'usufrutto e non il diritto di proprietà, che rimase come prima al sovrano. Non a caso i feudi furono introdotti dai popoli germanici in cui si praticava il potere monarchico e non si conosceva il diritto di proprietà, essendo essi popoli guerrieri. Risultava quindi falsa l'opinione di coloro che riconoscevano nei feudatari il diritto di "proprietà e dominio" sui feudi, i quali risultavano per la loro stessa natura inalienabili e indivisibili senza il consenso del re che li aveva concessi.
A proposito del capitolo Volentes, il D. affermava che la maggior libertà nell'alienazione dei feudi concessa ai baroni siciliani dal re Federico non era da intendersi come un'estensione qualitativa dei loro diritti, ma come un semplice beneficio avente lo scopo di rendere più mobile e commerciabile la terra. Quindi il capitolo in questione non aveva mutato la natura dei feudi siciliani trasformandoli in allodi, cosa che del resto sarebbe stata in contraddizione con il capitolo Sialiquem.
Il D. nella sua argomentazione era rimasto tuttavia estraneo alle teorie economiche che caratterizzavano la polemica antifeudale dei maggiori riformatori del Regno, muovendosi invece in piena coerenza con la linea antifeudale di tradizione giuridica.
Nel 1789 egli ebbe l'incarico di conservatore generale di Azienda in Sicilia e nel 1792 sostituì il Simonetti nell'incarico di consultore ordinario della monarchia nell'isola, carica seconda solo a quella di viceré. Anche nello svolgimento di questo incarico si dimostrò nemico degli abusi dei feudatari locali e rifiutò persino gli omaggi che il baronaggio soleva offrire in alcune occasioni.
Nel 1795 entrò a far parte della Suprema Giunta inquisitoria con le funzioni di avvocato fiscale, mentre nell'aprile del 1798 fu nominato consigliere ordinario della Real Camera di S. Chiara e caporuota del Sacro Regio Consiglio, nonché sovrintendente economico dei Presidi della Toscana e delle Università di Volturara, Torre del Greco, Portici e Resina. Nel novembre dello stesso anno lasciò la Giunta inquisitoria perché promosso a presidente della Gran Corte della Vicaria e nominato ministro della Suprema Giunta decretoria di Stato.
Intanto esauritosi il periodo del riformismo borbonico e instaurata nel 1799, con l'avvento dei Francesi nel Regno, la Repubblica Partenopea il D. aderi al nuovo regime e fu membro della commissione militare e della commissione di legislazione. Al ritorno dei Borboni fu sottoposto al giudizio della Giunta di Stato e fu costretto all'esilio in Francia, dove rimase fino al 1803. Tornato nel Regno, si ritirò a L'Aquila, dove si diede allo studio e alla diffusione dell'agronomia, a cui si era avvicinato durante il suo soggiorno in Provenza.
Dopo il ritorno dei Francesi a Napoli (1806) il D. fu richiamato a coprire nuovi incarichi. Fu quindi regio consigliere, governatore politico di Capua e presidente del Tribunale del commercio. Dal novembre del 1807 svolse poi un importante ruolo come presidente della commissione feudale, che aveva il compito di risolvere le cause tra i baroni e i Comuni. Concluse la sua carriera con la carica di presidente della Gran Corte di cassazione. Al nuovo ritorno dei Borboni chiese lui stesso di ritirarsi dagli incarichi pubblici per la età avanzata.
Il D. mori a Napoli nel settembre del 1818 e fu sepolto nella chiesa di S. Domenico Soriano.
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