Giacinto Dragonetti
L’importanza dei premi per sostenere e alimentare le virtù civili (insieme, e prima delle pene) nasce da un’antropologia sociale e ottimistica che nel Settecento prende il posto (sebbene per poco tempo) di quella pessimistica che aveva caratterizzato il pensiero sociale e politico precedente (e non solo quello di Thomas Hobbes). L’idea principale, di derivazione aristotelico-tomistica, è quella di una dominanza della virtù sul vizio, che rende logico il ricorso ai premi in quantità e misura almeno pari a quelle delle pene. Questo progetto della modernità è stato totalmente tradito, anche a seguito della vicenda napoleonica (e dei suoi codici penali, e non premiali), e della restaurazione europea. L’autore che affrontò più seriamente il tema dei premi alle virtù, all’interno della tradizione dell’economia civile, fu l’aquilano Giacinto Dragonetti.
Di nobile e antica famiglia, Giacinto Dragonetti nacque a L’Aquila nel 1738. Si trasferì prima a Roma, e poi, dal 1760, a Napoli, dove studiò giurisprudenza e divenne allievo di Antonio Genovesi.
Nel 1766 pubblicò anonimo un breve trattato, Delle virtù e de’ premj: un titolo in parte infelice e corrispondente probabilmente a una scelta di ‘marketing’ del libraio ed editore Gravier, desideroso di lanciare il nuovo libro sulla scia del già ben noto pamphlet (anch’esso apparso anonimo) Dei delitti e delle pene del coetaneo Cesare Beccaria, uscito solo due anni prima. L’operazione ebbe successo e del volumetto vennero fatte varie edizioni e numerose traduzioni: in francese, inglese, russo e spagnolo.
Così scrive nella sua prefazione alla ristampa modenese (1768) del libro di Dragonetti lo stampatore Giovanni Montanari: «L’autore di questo libretto, che io ti presento, o Lettor cortese, è il Sig. Dragonetti, giovane scolare del Sig. Genovesi, bravo filosofo napoletano». E Genovesi in una lettera privata definisce Delle virtù e de’ premj «opera di un mio amico» (1767, 1962, p. 205). Alfonso Dragonetti, nipote di Giacinto, così scriverà:
Nel 1760 venne ad erudirsi in Napoli alla carriera del foro ed intese alla giurisprudenza con uno spirito di filosofia […] L’illustre Genovesi era in quel tempo il principe del pensiero, non solo in Napoli, ma anche nell’Italia e sotto la disciplina di lui compì il giovane aquilano di educare la sua mente a mature riflessioni ed esatti raziocini (1847, p. 113).
Come dietro Dei delitti e delle pene del giovane Beccaria vi è la mano di Pietro Verri e del gruppo del «Caffè», così dietro il libro del giovane Dragonetti c’è molto probabilmente la mano di Genovesi e dell’Accademia delle scienze di Bartolomeo Intieri. È anche probabile che la scelta del titolo gli fosse stata suggerita dall’editore Gravier, come già detto, o forse dallo stesso Genovesi (come ipotizza Ajello 2009), anche perché, come si è messo in luce pubblicando recentemente alcune lettere di Dragonetti al fratello (Bruni 2010), quando ormai il suo libro era quasi terminato Dragonetti non aveva ancora neanche letto il libro di «Beccheria», come lo chiama in una lettera.
Dragonetti lasciò presto l’attività di ricerca per entrare, nel 1770, nella magistratura dove raggiunse le più alte cariche, e realizzò soltanto un secondo volume sull’origine dei feudi in Sicilia (1788), nel quale continuò la sua battaglia contro le istituzioni feudali che lo porterà a prender parte alla Rivoluzione napoletana del 1799 e a subire poi l’esilio in Francia dove resterà per alcuni anni, fino al 1803. Dal 1765 aveva anche iniziato la carriera forense.
In seguito alla cacciata dei gesuiti dal Regno di Napoli – nel novembre del 1767 – Dragonetti aveva collaborato con Genovesi alla riorganizzazione dell’ordinamento scolastico. Intanto, esauritosi il periodo del riformismo borbonico e instaurata nel 1799 la Repubblica partenopea, aderì al nuovo regime e fu membro della commissione militare e della commissione di legislazione. Altri incarichi egli ebbe anche durante il periodo napoleonico. Morì a Napoli nel settembre del 1818.
Nell’introduzione di Delle virtù e de’ premj, si legge: «Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù» (1768, p. 3). In realtà, il tema dei premi era presente, sebbene non centrale, anche in Dei delitti e delle pene di Beccaria. Il biografo Alfonso Dragonetti così commenta: «Chi affermò che quel trattato fosse composto per contraddire e confutare il Beccaria, certamente avvisò di avventurare un tal giudizio sul solo apparente contrariarsi dei titoli» (1847, pp. 113-14). E Benedetto Croce in una sua nota (critica e ingenerosa) scriveva:
Ebbe qualche fortuna in Italia e fuori un libretto pubblicato in Napoli nel 1766, non a contrasto ma a completamento di quello famoso del Beccaria, col titolo Delle Virtù e dei Premi (Il libro “Delle virtù e dei premi” del Dragonetti [1947], in Nuove pagine sparse, 2° vol., 1959, p. 235).
Dragonetti, quindi, in un certo senso continua il discorso sul diritto riprendendolo là dove l’aveva lasciato Beccaria il quale, come altri autori (tra cui Montesquieu, più tardi Denis Diderot e Jeremy Bentham, o i filosofi e giureconsulti romani, come lo stesso Dragonetti ricorda), aveva accennato al tema senza svilupparlo. Ma Dragonetti, sulla scia di Genovesi e di Jean-Jacques Rousseau, intendeva fare anche diversamente e di più di Beccaria, immaginando cioè una vera e propria legislazione dei premi alle virtù, addirittura un codice delle virtù che si affiancasse al codice penale: «I Legislatori Romani conobbero la necessità delle ricompense, le accennarono, ma non ebbero il coraggio di formarne il codice». E poi aggiunge che «il parlare dunque dei premi alle virtù dovuti non farà opera perduta in questo Secolo, che si crede destinato a rende la nativa efficacia ai rispettivi dritti degli uomini» (Delle virtù e de’ premj, cit., pp. 2-3).
Dragonetti non nega l’importanza delle pene, anzi ne riconosce, sulla scia di Genovesi, il ruolo essenziale; crede però che puntare solo sulla punizione dei delitti non sia sufficiente per far avviare il Regno di Napoli su una via di sviluppo civile ed economico. In altre parole, mentre l’impianto di Beccaria è sostanzialmente in linea con la filosofia sensista e utilitarista, Dragonetti si muove invece all’interno della tradizione classica, quella aristotelica, ciceroniana e tomista dell’etica delle virtù. In Beccaria troviamo alcuni passaggi che ricordano da vicino l’idea di stato di natura hobbesiano:
Le leggi sono le condizioni colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra, e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità (Dei delitti e delle pene, [1764], 1821, p. 13).
Da questo punto di vista (idea di socialità e natura del contratto sociale), Dragonetti si pone invece in forte continuità con Genovesi. L’idea centrale dell’opera Delle virtù e de’ premj consisteva nell’attribuire un ruolo essenziale al «premio» delle virtù, a un’etica delle virtù, che quindi è antihobbesiana e in linea con una visione aristotelico-tomista, e da questo punto di vista con la tradizione romana del repubblicanesimo, di Cicerone e Plutarco, e in parte lockiana, come emerge anche dall’idea di patti sociali che ritroviamo in Genovesi (Lezioni di commercio o sia di economia civile, I, cap. 1, 1765-1767), e poi in Gaetano Filangieri (La scienza della legislazione, libro III, 1780), che comunque non fa riferimento a Dragonetti.
Ma come premiare le virtù? Si capisce subito che il «premio» per la virtù non può essere qualcosa di simile a ciò che oggi chiamiamo incentivo: l’incentivo, infatti, è una pena con il segno più, e ha la stessa natura e funzione estrinseca, ottenere qualcosa da chi non lo farebbe spontaneamente o sinceramente.
Che cos’è allora, almeno nel pensiero di Dragonetti, il premio della virtù? Ma, ancora prima: che cosa intende Dragonetti per virtù? Egli l’associa alla ricerca diretta e intenzionale del bene pubblico (come distinto da quello privato, e non necessariamente allineato con questo). Dragonetti descrive la società civile, e la sua costruzione, in continuità con John Locke, Ugo Grozio e Rousseau: la persona umana per natura è socievole e amorevole, ma sono le scarsità delle risorse e il disordine nelle passioni a produrre conflitti: da qui nascono razionalmente il contratto sociale e le relative leggi. Quando qualcuno agisce per «l’altrui vantaggio» abbiamo a che fare con le virtù: «si diede il nome di virtù a tutte le azioni, che riguardavano interesse degli altri, o a quella preferenza del bene altrui sopra il proprio» (Delle virtù e de’ premj, cit., p. 7). È quindi certo che per Dragonetti la ricerca dell’interesse personale, sebbene sia naturale, non è azione virtuosa. La virtù richiede sforzo, sacrificio:
Noi chiamiamo Dio buono più che virtuoso, perché non ha egli bisogno di sforzo per far del bene […]. Altro dunque non è la virtù che un generoso sforzo indipendente dalla leggi, che ci porta a giovare altrui. I suoi estremi sono il sacrificio, o scapito del virtuoso, e l’utile che ne risulta al pubblico (p. 7).
Ecco dunque l’altro elemento o condizione sufficiente per la virtù (la condizione necessaria è il sacrificio e lo sforzo): l’utilità per il pubblico, o bene comune. E aggiunge:
molti con equivoco danno il nome di virtù alle azioni, le quali sono un puro effetto della legge naturale, divina, o civile, e che dovrebbero con più giusto vocabolo chiamarsi doveri (p. 8).
Melchiorre Gioia, l’autore che nella prima metà dell’Ottecento riprese – unico in Italia – il tema di Dragonetti nel suo trattato Dei meriti e delle ricompense, riconoscendone il primato a Dragonetti, aggiunge altri due elementi oltre al sacrificio e all’utilità: «il fine disinteressato, e la convenienza sociale» (t. 1, [1818], 1848, p. 27), due elementi che erano ben presenti nel testo di Dragonetti. Ecco quindi chiarita la distinzione tra premio e incentivo: l’incentivo è mirato all’interesse privato, il premio è legato al bene comune.
In questo modo Dragonetti spiega il rapporto tra virtù e premi:
Essendo la virtù un prodotto non del comando della legge, ma della libera nostra volontà, non ha su di essa la società diritto veruno. La virtù per verun conto non entra nel contratto sociale; e se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quella di chi defrauda l’altrui sudore (pp. 11-12).
Il premio quindi è una ricompensa per l’azione che va ‘oltre’ i contratti e le leggi: è una ricompensa per un atto sostanzialmente di gratuità:
È vero, che tutti i membri dello stato gli debbono i servigj comandati dalle leggi, ma è altresì fuor di dubbio, che i Cittadini debbono esser distinti, e premiati, a proporzione de’ loro servigi gratuiti. Le Virtù sono tanti servigj considerabili, e arbitrari, che si prestano allo stato. Sono più che umane quelle Virtù, che bastano a se stesse (p. 12, corsivo aggiunto).
Le espressioni «servigi gratuiti» e «bastano a se stesse» ci svelano un ingrediente chiave di una teoria delle virtù civili: la ricompensa delle virtù è la virtù stessa. Quindi, anche se la collettività deve ricompensare dall’esterno, in qualche modo, le virtù, la ricompensa esterna si appoggia ed è complementare alla prima forma di remunerazione che è intrinseca, interna al soggetto virtuoso. In altre parole, perché un’etica delle virtù funzioni e si implementi nella società vi è bisogno di educazione e di cultura. Ma subito dopo, come era d’aspettarselo, Dragonetti si pone una questione cruciale in un discorso sui premi alle virtù: «non oppongasi, che quando le virtù abbian proposta la loro mercede, si riguarderanno non più come azioni generose, ma mercenarie» (p. 12). Come è possibile però che ciò accada? Come poter remunerare le virtù civili in modo che il premio ‘esterno’ non trasformi la gratuità della virtù in scambio commerciale, che comporterebbe la perdita di quella spontaneità e libertà della virtù?
Dragonetti non presenta in realtà una vera e propria teoria su questo, ma accenna ad alcune intuizioni interessanti che sono espressione della visione generale dell’economia civile genovesiana, nella quale non vi è opposizione tra le varie forme di reciprocità, tra virtù e interessi. Innanzitutto egli afferma che l’amore per il bene comune non differisce dall’amor proprio: riferendosi ai tempi della repubblica romana e della polis greca, Dragonetti afferma che
la pubblica grandezza non era condensata in pochi, ma talmente si dilatava sopra i Cittadini, che i pubblici interessi si confondevano con i privati. Que’ Repubblicani, mentre in apparenza s’immolavano alla Patria, servivano ai loro personali vantaggi (pp. 13-14).
Da qui deriva la sua definizione di premio che egli descrive in questo modo:
Il premio è il vincolo necessario per legare l’interesse particolare col generale, e per tenere gli uomini sempre intenti al bene. Lande le Virtù, che per patto sociale non si appartengono alla società, non debbono restar defraudate de’ premj loro dovuti (pp. 14-15).
Il resto del pamphlet di Dragonetti è ricco di spunti importanti (come quello sul commercio citato in precedenza). La conclusione merita di essere riportata: «quello è il più felice Stato, dove la precedenza si misuri con la virtù» (p. 102). La parte centrale dell’opera elenca alcuni criteri per rapportare correttamente le ricompense (premi) alle virtù, per evitare che alte ricompense vadano ad azioni poco virtuose (e utili alla società), e basse ad azioni virtuose, poiché «si nuoce di più con situar male le ricompense, che col sopprimerle» (p. 19).
In sintesi, potremmo così riassumere la differenza tra l’idea di premio in Dragonetti e quello che la teoria economica contemporanea chiama incentivo.
Il premio è pubblico: la premiazione deve accadere in pubblico, altrimenti perde quasi tutto il suo valore; la cerimonia di premiazione è parte notevole del valore del premio (si pensi all’enorme diminuzione di valore che subisce una medaglia, persino olimpica, quando, in seguito a squalifiche per doping di uno dei premiati, il vincitore si vede recapitare la medaglia dal postino in una busta); di basso valore estrinseco (medaglia, coppa, targa e così via); di alto valore intrinseco per chi lo riceve, dato il suo valore simbolico; è ex post rispetto all’azione incentivata, e crea legame sociale all’interno della comunità (civile, educativa, economica, religiosa).
L’incentivo è invece privato (non è bene che i colleghi sappiano quanto è stato il bonus di fine anno), di solo valore estrinseco (denaro o benefit materiali), di nullo o di basso valore intrinseco – anche se va specificato che il denaro, in casi particolari, può essere utilizzato come premio (e non solo come incentivo): a volte un aumento dello stipendio può essere letto da un lavoratore esattamente come un premio con molte delle altre caratteristiche che stiamo sinteticamente esponendo. Una più estesa teoria del premio/incentivo si trova in Bruni (2012). Inoltre, l’incentivo è ex ante rispetto all’azione premiata (non si fa normalmente un articolo scientifico buono per vincere il premio Nobel, mentre si fa un’ora di straordinario in più perché si riceve un incentivo), tende a rafforzare il legame tra l’individuo e l’azienda, non il legame sociale tra i vari componenti dell’azienda (che anzi spesso entra in conflitto con l’uso eccessivo di incentivi individuali).
A ispirare l’opera culturale, giuridica e civile di Dragonetti (e di tutto l’Illuminismo napoletano, fino a Filangieri e a Francesco Mario Pagano), vi era una forte polemica antifeudale che Dragonetti sviluppò nel trattato Sull’origine dei feudi, la sua seconda opera che lo rese famoso in tutta Europa (delle altre pubblicazioni di Dragonetti sono conservate nella Biblioteca dell’Aquila due opere minori, per le quali v. oltre Opere). La società feudale non produce ricchezza, e quindi sviluppo civile, perché ricompensa sulla base di privilegi acquisiti e non sulla base della virtù:
La distinzione degli ordini fu inventata per premiare i Virtuosi; si è poi continuata ne’ loro discendenti colla credenza, che non degenerassero dai progenitori. Nella supposizione è agevole il passaggio da una proposizione probabile ad una falsa. Onde la prevenzione, che si ha per la virtù de’ Nobili, fa che sovente si distribuiscano grazie considerevoli alla sola nascita. L’esperienza tuttodì ci dimostra, che i titoli, le dignità, gli onori, e tutti i vantaggi di splendore meritati dagli Avi servono alla posterità come scudo de’ loro vizi. Dovrebbe dunque l’Europa uscire d’illusione, e non permettere, che virtù supposte tolgano la mercede alle virtù reali (Delle virtù e de’ premj, cit., p. 20).
Un discorso che a distanza di due secoli e mezzo non ha perso nulla della sua potenza rivoluzionaria. Da questa polemica antifeudale nasce anche la lode per il commercio e per le arti, che tuttavia va letta correttamente soltanto se rapportata all’intero progetto dell’Illuminismo napoletano: costruire una società postfeudale nella quale, grazie alla giusta ricompensa per le vere virtù, si avviasse una nuova fase di vita civile.
Ecco perché il discorso culturale di Dragonetti, come quello di Genovesi o di Filangieri, è direttamente un discorso sul mercato, una teoria di sviluppo economico, e non un discorso morale o solo giuridico. Come possiamo immaginare allora il premio alle virtù come via allo sviluppo economico e civile? In generale, e come nota comune all’intera tradizione dell’economia civile, il senso di tutta l’opera educativa e riformatrice di Genovesi, Dragonetti, Filangieri e, in un certo senso, dell’intera Scuola napoletana dell’economia civile, è un tentativo di formare i suoi studenti a essere ‘sinceramente’ amanti della virtù, ad attribuirle anche un valore intrinseco, sulla base del tentativo di mostrare loro che la virtù, soprattutto quando è reciproca (dirà Genovesi), ha una sua logica, una razionalità. E le argomentazioni giuridiche e politiche di Dragonetti vanno nella stessa direzione: trovare dei meccanismi che possano ‘premiare’ la virtù, facendo però in modo che questi premi ‘rafforzino’ e non ‘spiazzino’ le virtù. Come il mercato non si oppone alla società civile, per Dragonetti i premi per le virtù non si oppongono alle remunerazioni normali di mercato, purché queste siano giuste e civili.
Il libro di Dragonetti ebbe una buona fortuna nell’Europa del Settecento, tra cui Polonia e Russia: fu pubblicato a Venezia, Modena, Palermo, ma anche in francese (1767) e in inglese (1769). Fu citato polemicamente (e si capisce) dalla scuola di Bentham (Wootton 2000), e con entusiasmo da Thomas Paine.
Riguardo l’influenza che Dragonetti ha avuto nella cultura moderna, una menzione speciale la merita il riferimento al libro di Dragonetti contenuto proprio in alcune opere di Paine, un autore centrale per la Rivoluzione americana. Ritroviamo Delle virtù e de’ premj nel Common sense, il best seller di Paine uscito nel 1776, lo stesso anno di pubblicazione anche di An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations di Adam Smith e, soprattutto, della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America. La frase di Dragonetti che Paine cita nel suo Common sense (in Selections from the works of Thomas Paine, 1923, p. 30) è la seguente:
Alla virtù dei sovrani sarebbe in certo modo vicina quella di chi ritrovasse una forma di governo, in cui la felicità di ognuno sia massima, e la contribuzione minima. La scienza dei politici consiste in trovare il vero punto, fin cui gli uomini possano essere felici e liberi (Delle virtù e de’ premj, cit., p. 154, la frase in corsivo è solo nel testo di Paine, a indicarne l’importanza).
Questo episodio è particolarmente significativo non solo perché riguarda uno degli autori più importanti della storia americana, ma perché apre una pista per rintracciare un altro ponte tra la Rivoluzione americana e l’Illuminismo europeo. La felicità è una parola chiave sia della tradizione europea sia di quella nordamericana, e non è da escludere che proprio lo scritto di Dragonetti, esponente di quell’economia civile costruita attorno alla pubblica felicità (un tema a cui si dà ampio spazio in Delle virtù e de’ premj), sia stato uno dei canali che portò tale concetto in quel testo posto nel cuore della modernità occidentale, accanto alle note influenze che esercitarono Locke e Samuel Johnson su Thomas Jefferson.
Nella prima metà dell’Ottocento vi furono alcune ristampe di entrambi i suoi principali libri, dopo di che, anche a causa della ripresa del tema da parte di Gioia, che associò alla sua personalità poliedrica e un po’ dispersiva le virtù e le loro ricompense, sia l’argomento sia il suo autore caddero nel dimenticatoio teorico e civile. Oggi si torna a parlare di nuovo di motivazioni intrinseche, di ricompensare le virtù civili, e anche di premi (Frey 2005; Bruni 2012). Le intuizioni e la figura di Dragonetti, però, attendono ancora di essere riscoperte e rivalutate.
Difesa del Regio Padronato di S. Maria della Valle Porcanete, Napoli, s.n. 1765?
Risposta alle obbiezioni fatte contro il Regio Padronato di S. Maria della Valle Porcanete, Napoli, s.n. 1766?
Delle virtù e de’ premj, Modena 1768 (prima edizione napoletana, anonima, 1766).
Origine de’ feudi ne’ regni di Napoli, e Sicilia, Napoli 1788.
A. Dragonetti, Le vite degli illustri aquilani, Aquila 1847.
L. Cepparoni, Dragonetti Giacinto, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 41° vol., Roma 1992, ad vocem.
B.S. Frey, Not just for money. An economic theory of personal motivation, Cheltenham 1997 (trad. it. Milano 2005).
D. Wootton, Helvetius. From radical enlightenment to revolution, «Political theory», 2000, 28, 3, pp. 307-36.
R. Ajello, Verso una giustizia non soltanto formale. La critica di Rousseau, Beccaria, Dragonetti all’idealismo giuridico formalistico, in «Frontiera d’Europa», 2009, XV, 1-2, pp. 9-425 (in appendice si trova riprodotta la prima edizione integrale di Delle virtù e de’ premj di Dragonetti).
L. Bruni, Il “Delle virtù e dei Premi” di G. Dragonetti (e una polemica di B. Croce), «Storia del pensiero economico», 2010, 1, pp. 33-49.
L. Bruni, Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni, Roma 2012.