FRANCESCHI, Giacinto
Nacque a Firenze nel 1596 da famiglia di agiate condizioni. Nonostante l'opposizione della sua famiglia, ottenne di partire per Roma, dove il 16 ott. 1614 iniziò il noviziato gesuitico in S. Andrea al Quirinale. Lì manifestò il desiderio di partire per la missione in Giappone. La richiesta fu accolta quando il F. era alla metà del corso di filosofia presso il Collegio Romano, che proseguì nel collegio di Goa, dove studiò anche teologia e lingua giapponese, ricevendo l'ordinazione sacerdotale.
I padri di Goa appresero dalla missione d'Etiopia che l'imperatore Susenyos aveva fatto professione ufficiale di fede cattolica, chiedendo l'invio di duecento missionari nel suo paese. Né a Goa né in Portogallo era possibile trovarne un numero così alto. Il F. si offrì volontario e chiese ai superiori la revoca della destinazione in Giappone: nel 1623 entrò nel gruppo di otto gesuiti che in dicembre, seguendo itinerari differenti, partirono per l'Etiopia. Il 12 maggio 1624 raggiunse Massaua con i suoi compagni. Scoperti dal governatore turco della città, Ahamed pascià, furono trattenuti per due mesi e mezzo.
In autunno il F. arrivò nel villaggio di Fremona (Maygogà), nel Tigrè, sede principale della missione gesuitica in Etiopia e sua prima destinazione. L'arrivo coincideva con un momento decisivo della missione: convertiti al cattolicesimo gran parte della corte e molti ras locali, i missionari progettavano di estendere la predicazione al popolo fondando nuove case nei territori dell'Impero.
Il 12 maggio 1626 il F. scrisse una lettera al granduca di Toscana, chiedendo aiuti per la missione, che non aveva i mezzi necessari né a soddisfare le pretese del patriarca Alfonso Mendes (un uomo intransigente e ostile alla cultura locale, nominato dai Portoghesi, che avevano il patronato sulla missione) né a mantenere i padri nelle zone più lontane. Lo stesso F., terminato il periodo di apprendistato a Fremona, durante il quale aveva imparato bene la lingua amhara, conobbe personalmente quelle condizioni nel 1628, quando fu mandato nella regione del Dambyā e da lì a fondare, nel Begameder, la nuova casa di Atqhanā.
Nel 1629 conobbe Se'ela Krestos, il potente fratello di Susenyos, capo dell'esercito e cattolico convinto, che gli fornì il sostegno materiale di cui aveva bisogno. Il F. si legò a lui con sincera amicizia, accettando di accompagnarlo nella campagna militare che conduceva nell'Amhara. Nel 1630 ritornò nel Begameder, dove venne ricevuto dallo stesso Susenyos, con una certa freddezza, che egli non riuscì a capire, ma che derivava dal crescente disappunto dell'imperatore per dover imporre il suo nuovo credo ai sudditi con la forza delle armi e non con quella della persuasione, dalla quale egli stesso era stato convinto. Né Mendes né gli altri gesuiti compresero che correvano il rischio di perdere il favore del sovrano.
Alla fine di quell'anno, comunque, il F. ritornò a Fremona, perché era stato nominato segretario di uno dei due coadiutori del Mendes, il vescovo di Nicea A. D'Almeida, appena arrivato in Etiopia, con il quale trascorse un periodo sereno presso Asca Ghiorghis, lavorando nelle province dell'Ambasenet e dell'Endertâ. Del tutto inaspettatamente nel 1632 gli giunse notizia che Susenyos (nel 1626 obbligato dal Mendes a dichiarare solennemente l'adesione al cattolicesimo, provocando con questo gesto l'ostilità della popolazione) il 24 giugno aveva deciso di permettere la libertà di culto (preludio al ritorno alla confessione copta) per poi abdicare, e che era morto poco dopo la cessione del trono al figlio Fâsiladas. La nuova situazione permise a Fâsiladas di proibire il culto cattolico e di ordinare l'espulsione dei gesuiti.
Il F. e il vescovo riuscirono a trovare un rifugio a Bür, ospiti di Kefla Mâryâm, che si era offerto di proteggerli. Costui decise di consegnare i due missionari ai Turchi di Defalô, sulla costa eritrea, nel 1633. Il F. riuscì a sottrarsi alla prigionia (non troppo dura, il D'Almeida fu liberato dopo tre mesi e mezzo), dandosi alla macchia. Sarebbe sopravvissuto poco se nel 1634 non lo avesse ritrovato per caso, nascosto in una grotta e gravemente debilitato, lo stesso Kefla Mâryâm. Impietositosi, questi lo ospitò ancora per il tempo necessario a fargli riprendere le forze. Quindi il F. si rifugiò a Salôt nella capanna di Abetô Janis, dove rimase nascosto per quasi un anno tra il 1635 e il 1636. Costretto ancora ad andarsene, nel 1636 raggiunse Aderatâ (Addi Radâ), dove si mise sotto la tutela di Giovanni Akai, un amico dei gesuiti da lunga data, che nascondeva nel Tigrè anche il D'Almeida e altri quattro religiosi, tra i quali un altro italiano, Bruno Bruni.
Da Aderatâ il F. scrisse e spedì una relazione al Mendes - che si trovava a Goa - sullo stato, ormai giudicato misero, della missione. Con accenti accorati negò di essersi dichiarato contrario a una spedizione militare portoghese in soccorso dei gesuiti (che il Mendes cercava di sollecitare dopo che già alla fine del 1634, su suo invito, una flotta lusitana aveva compiuto una dimostrazione di forza su Mombasa), invocandone invece uno sbarco, anche simbolico, a Massaua. Secondo il F., la sola minaccia da parte del Portogallo sarebbe bastata a far tornare la fede cattolica o almeno la libertà di culto. Invece le voci di tale spedizione, che non si realizzò mai, eccitarono ancora di più l'animo degli Etiopi contro i padri gesuiti. Così nel 1637 l'Akai consegnò a Fâsiladas il F., il D'Almeida e il padre F. Rodriguez nel campo imperiale di Dambyâ, vicino all'odierno lago Tana. Quando il tribunale, sotto la spinta del clero locale copto (l'"abuna" di Alessandria mantenne un atteggiamento più benevolo) li condannò a morte, Fâsiladas avocò a sé il giudizio, commutando la pena dapprima in carcere duro, quindi in esilio perpetuo nel territorio degli Agaôs. Poiché anche tra questi ultimi i gesuiti ricominciarono a esercitare il loro ministero, Fâsiladas ordinò di confinarli in un'isola del lago Tana, dove sorgeva un monastero copto.
Tra il 14 e il 16 giugno 1638 giunse l'annuncio della condanna a morte. Il F. e i suoi due confratelli si confessarono a vicenda, vennero impiccati a un albero, lapidati e i loro cadaveri furono dati in pasto ai cani.
Fonti e Bibl.: Histoire de ce qui s'est passé au Royaume d'Ethiopie les années 1624, 1625, 1626, Paris 1629, pp. 59, 78, 87, 248-251; C. Beccari, Rerum Aethiopicarum scriptores, Romae 1903-17, ad Ind.; Id., Notizia e saggi di opere e doc. ined. riguardanti la storia di Etiopia durante i secoli XVI, XVII e XVIII…, Roma 1903, pp. 85, 107, 132, 142, 155, 158, 306; Bibliotheca missionum, a cura di R. Streit - J. Dindinger, XVI, Freiburg 1952, pp. 119 ss.; The "Itinerário" of Jeronimo Lobo, a cura di C.F. Beckingham - D.M. Lockhart, London 1977, p. 48 n. 4; P. Galletti, V. p. G. F., in Florilegio apostolico, I, Venezia 1916, pp. 71-77; T. Somigli di S. Detole, Etiopia francescana, I, 1, Firenze 1928, pp. CVIII, 105, 129, 131, 157.