GALLINA, Giacinto
Nacque a Venezia il 31 luglio 1852 da Giuseppe, medico, e da Anna Rota. I genitori si separarono ben presto e il piccolo G. andò, con il fratello Enrico (n. nel 1854), a vivere con il padre.
Questi, che come medico municipale doveva essere presente in una sala di teatro tutte le sere, prese l'abitudine di farsi accompagnare dal figlio, il quale così acquistò una precoce dimestichezza con l'ambiente teatrale. Ricevuta una prima formazione dall'abate T. Cestari, frequentò il ginnasio e il liceo, ma quando venne bocciato il padre decise di fargli interrompere gli studi e mettere a frutto la competenza che aveva acquisito nel suonare il pianoforte, la viola e il violoncello. A sedici anni, dunque, il G. entrò come violoncellista nell'orchestra del teatro La Fenice, dando contemporaneamente lezioni private di musica. Ma la sua vera passione erano la letteratura e il teatro: "A sedici anni io aveva già la smania di scrivere non so bene se il romanzo, il dramma o, Dio ne liberi, la tragedia" (prefazione a G. Gallina, Teatro veneziano, VII, Padova 1887, p. IV). Sono di questo periodo una novella, Le confessioni di una donna (rimasta inedita), un gruppo di sonetti (manoscritti in un quaderno con il titolo Versacci) e un dramma dal titolo Ipocrisia (in seguito rinominato Uno zio ipocrita) che, rappresentato al teatro Rossini il 22 ott. 1870, ottenne un buon successo, ancor più straordinario data la giovanissima età dell'autore.
Iniziò così la carriera teatrale del G. segnata da fortune alterne di pubblico e di critica, ma anche dalla insoddisfazione costante nel rilevare il divario tra quanto avrebbe voluto e quanto di fatto scriveva. È solo apparentemente paradossale che il G. si sentisse più a disagio di fronte ai successi che ai fallimenti. Il suo secondo lavoro, infatti, intitolato inizialmente Amore e onestà, poi ribattezzato L'ambizione di un operaio (1871, più tardi ridotto in dialetto dallo stesso G. con il titolo Un pare disgrazia'), fu un vero fiasco, ma non lo prostrò quanto l'ottimo esito della sua terza commedia, Le barufe in famegia (1872), e il vero e proprio trionfo riscosso lo stesso anno da Una famegia in rovina, scritte entrambe su sollecitazione dell'attore e capocomico Angelo Moro-Lin che insieme con la moglie Marianna Torta era impegnato in un programma di rilancio del teatro veneziano, propiziato dall'eccezionale favore con cui era stata accolta la commedia La bozeta de l'ogio (febbraio 1871) di Riccardo Selvatico, divenuto poi uno dei migliori amici del Gallina. Il contratto che il giovanissimo G. strinse con la compagnia Moro-Lin (mantenendo ancora per qualche anno anche l'impiego in orchestra) lo impegnava a produrre, con una cadenza obbligata dalle stagioni teatrali, testi in dialetto che fossero, naturalmente, modellati sulle caratteristiche di quegli attori e che sapessero corrispondere alle aspettative del pubblico.
La percezione di una certa angustia della utenza e della committenza (che pure era di buon livello professionale) influenzarono la creatività del G. sul quale certamente pesò l'apprezzamento manifestato da una comunità di spettatori e di critici che in lui aveva salutato fin dall'inizio il migliore erede del teatro goldoniano. Non riuscì, insomma, fino alla fine a sfuggire al confronto con Carlo Goldoni, tanto meno gradito in quanto ad altro mirava il suo esercizio letterario, e rimase sempre oscillante tra l'aspirazione a un esercizio alto, "eroico", dell'arte e una pratica di buon mestiere, fortemente legata alle aspettative degli spettatori e, quindi, degli attori. Per un verso esprimeva un'ideologia fortemente intrisa di quel romanticismo italiano che aveva trovato massimamente rappresentato da S. Pellico, G.B. Niccolini o F.D. Guerrazzi e che si riverberava in lui come "sovreccitazione di tutte le facoltà" (Fradeletto, p. 113); per l'altro avvertiva la limitatezza di queste sue facoltà che considerava soggette a "un carattere fermo e marcato; ma vacillante, indeciso, fiacco, come è fino ad oggi il mio" e si sentiva schiavo "della disposizione fisica, della temperatura, delle circostanze e che so io!" (in data 2 ott. 1873, cit. da Alberti, p. 115); di qui la malattia che lo afflisse tutta la vita: "non so se chiamarla ipocondria, pazzia, isterismo, ma in proporzione più grande […] non ho più né forza, né coraggio, né volontà di far niente. Non ho più né desideri, né passioni" (ibid., pp. 117 s.).
Era il G. stesso a riconoscere però l'importanza del teatro goldoniano per tutta la prima fase della sua attività, sia in quanto modello dal quale trarre personaggi, intrecci e situazioni comiche, sia anche per la sua funzione esemplare in senso drammaturgico e letterario. Esplicita imitazione goldoniana era stata Le barufe in famegia (da La famiglia dell'antiquario), che fu ridotta in italiano dallo stesso G. (e rappresentata nel 1873) e in bolognese da A. Fiacchi (El diavel in ca', 1893), come pure El fragion (1872, da Il prodigo), mentre Una scimia coi fiochi (1874) rinviava al Tartuffe di Molière; di derivazione goldoniana anche Le serve al pozzo (1873, ispirata a Le massère e Il campiello), che puntava decisamente sul registro comico come Tuti in campagna (1876) e soprattutto Zente refada (1875) che, come avvenne quasi costantemente, fu rimaneggiata in modo consistente dopo la prima rappresentazione, passando in questo modo dall'accoglienza fredda o addirittura negativa all'esito buono o, come in questo caso, eccellente, a conferma di un metodo di lavoro sensibile alle leggi del mercato ma sempre attento a conciliarle con i propri intenti, anche quando non erano molto chiari. Ben poco di goldoniano tuttavia si trovava già in Una famegia in rovina (1872), orientata piuttosto verso l'abile mescolanza di comico e di patetico che caratterizza molti suoi lavori di quegli anni. Su questa linea, con una accentuazione sempre più marcata della vena sentimentale e patetica sono El moroso de la nona (1875), uno dei maggiori successi del G. (tradotta in piemontese e rappresentata a Torino nel 1879), La chitara del papà (1875), Telèri veci (1877), Mia fia (1878), tra quelle più rappresentate, I oci del cuor (1879, tradotta in italiano dallo stesso G., tradotta forse in francese, certamente in tedesco da J. Stinde per una rappresentazione a Berlino, 1891), La mama no mor mai (1880, ridotta in italiano dall'autore). Sono da ricordare, per completare il quadro della sua produzione fino a questo punto, Un monologo per la serveta (1872, scritto appositamente per Laura Zanon Paladini, "l'ultima servetta del teatro veneziano"), le farse Nissun va al monte (1872) e Gnente de novo (1873), La scuola del teatro (1879, "prologo ed epilogo delle Barufe in famegia"), Il primo passo. Una pagina delle memorie di Carlo Goldoni (1876, sulla scia di Goldoni e le sue sedici commedie nuove di P. Ferrari); dello stesso genere sarà Epilogo (I fioi al pare), omaggio a Goldoni nel centenario della morte (1893), Adio de Anzolo Moro-Lin ai Triestini (1879) e Così va il mondo, bimba mia (1880, scritta in italiano per la bambina prodigio Gemma Cuniberti; tradotta, poi, in francese).
Dunque, a parte le composizioni occasionali e di circostanza, si vede bene anche solo dai titoli come si andasse intensificando la tonalità sentimentale e patetica, in direzione di una sempre più spiccata convenzionalità. La morte nel 1879 di Marianna Torta Moro-Lin, che era servita da modello per tanti personaggi femminili delle sue commedie, accelerò, probabilmente, la crisi che nel G. covava da anni e che rese più acuta la sua "ipocondria"; è significativo che una delle sue manifestazioni consistesse nella aspirazione ad allontanarsi da Venezia, proposito che, per quanto a lui ossessivamente presente, il G. non attuò mai (tranne che nel 1874, quando si arruolò volontario per evitare la leva al fratello), dibattendosi in uno stato di profonda depressione che si protrasse per un lungo periodo, durante il quale si dedicò quasi esclusivamente alla stampa del suo Teatro veneziano (Padova 1877-87) in sette volumi, l'ultimo dei quali contiene una nota autobiografica. Tentò in questi anni di terminare una commedia, La madre del grand'uomo, ma invano; collaborò assieme a R. Selvatico alla composizione di Pessi fora d'acqua, ma finì in un insuccesso. In realtà sentiva sempre più acutamente l'insoddisfazione per la maniera che caratterizzava molti suoi lavori e, insieme, la suggestione delle nuove tendenze della letteratura e del teatro. Accanto, dunque, a H. Ibsen, che proprio in quegli anni invadeva le scene europee, il G. riconosceva la novità di G. Giacosa e del suo applauditissimo dramma Tristi amori (1887), come poi di M. Praga e de La moglie ideale (1890), di H. Becque e de La parisienne (1885) e, insomma, era spinto verso un teatro che abbandonasse il moralismo sentimentale e manierato per una prospettiva morale più autentica, scaturita dal ritratto partecipe ma lucido delle debolezze e delle insicurezze di personaggi che con difficoltà vivono le proprie esistenze. È questo lo sfondo che accomuna gli ultimi titoli della produzione del G. a partire da Esmeralda (1888, in italiano), per la quale ottenne un premio governativo di 4000 lire, fino a tutte le altre in cui tornò al dialetto, Serenissima (1891; "… il lavoro è del genere e dell'ambiente del Moroso, c'è la stessa semplicità di esposizione, ma è senza paragone più vigorosa", lettera al direttore del teatro Nazionale di Roma, in G. Damerini, 1941, p. 75), Fora dal mondo (1892; un ritratto a sfondo autobiografico dell'artista in crisi), La famegia del santolo (1892), indicata concordemente come il suo capolavoro, La base de tuto (1894) che ritrae senza alcuna benevolenza ambienti e figure in dissoluzione. Ed è sintomatico che protagonista dell'ultimo suo lavoro (rimasto incompiuto), Senza bussola, rappresentata nel dicembre 1897 dalla sua compagnia, sarebbe dovuto essere "un uomo il quale non sa adattarsi alle cose del mondo come sono nella società attuale" (Teatro, ed. Treves, XVIII, p. II), secondo un'ispirazione letteraria ma certamente, almeno in parte, anche autobiografica. Il G. dovette sopportare per tutta la vita una condizione di disagio economico che non si attenuò con gli anni, ma anzi andò accentuandosi, dopo che ebbe assunto (dal 1890) la direzione della compagnia formata dal fratello Enrico assieme con E. Zago, A. Borisi e, più tardi, F. Benini. L'amico R. Selvatico, divenuto sindaco di Venezia, gli fece assegnare nel 1894 una pensione come corrispettivo della cessione di tutti i suoi manoscritti al Museo Correr; nello stesso 1894 fu eretto un suo busto nell'atrio del teatro Goldoni. Ma le sue condizioni di vita e di salute non migliorarono.
Morì a Venezia il 13 febbr. 1897, dopo avere legalizzato l'unione con Paolina Campsi, la compagna di tanti anni che aveva conosciuto quando recitava nella compagnia Moro-Lin.
Oltre l'ed. del Teatro veneziano curata dallo stesso G. e citata nel testo, Il Teatro completo di G. Gallina è stato pubblicato in 18 voll. a cura di D. Varagnolo (Milano, Treves, 1922-30); diverse commedie sono state riproposte in volumetti singoli per la cura di G. Marangoni (Venezia 1976-79) e si trovano anche in numerose raccolte antologiche.
Fonti e Bibl.: Presso la Casa Goldoni di Venezia sono conservati mss. del G., parzialmente riportati dai suoi biografi e da numerosi critici: A. Gentile, La giovinezza di G. G., in Ateneo veneto, XXIII (1900), pp. 260-288; L. Filippi, G. G. Studio critico, Venezia 1913; Id., Le orme del pensiero. Lettere e manoscritti inediti di G. G., Ferrara 1919; C. Antona-Traversi, Studi. Ricerche e bagattelle letterarie, Sanremo 1922, pp. 101-164; A. Fradeletto, G. G., Venezia 1929; S. Basilea, L'opera di G. G. nel teatro italiano. Con un breve epistolario inedito del poeta, Bologna 1936; G. Damerini, G. G., Torino 1941 (con bibliogr. integrale fino al 1941); A. Gentile, G. G., Trieste 1953; C. Alberti, in G. G. dai turbamenti del cuore al mestiere del teatro (con Appendici di riflessioni inedite), in Quaderni veneti, II (1986), 3, pp. 113-147. Inoltre: R. Barbiera, Mondo sereno: G. G., Cesena 1883; U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati, Milano 1895, pp. 263-274; A. Santini, Per G. G., Venezia 1897; G. Gallina, Dal Goldoni al G., Cividale 1904; G. Damerini, Il teatro veneziano, in Il Dramma, 15 apr. 1948, pp. 176-181; E.F. Palmieri, introduz. a Il teatro veneto, Milano 1948, pp. 7-68; B. Croce, G. G., in Letteratura della nuova Italia, III, Bari 1949, pp. 148-156; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, IV, Firenze 1950, pp. 280-287; G. Damerini, Il centenario di G., in Il Dramma, 15 giugno 1952, pp. 44-47; I. Sanesi, La commedia, II, Milano 1954, pp. 385 ss.; G. Pullini, Il teatro veneto di G. G., in Teatro italiano tra due secoli, Milano 1958, pp. 51-88; G. Damerini, G. G., in Enc. dello spettacolo, V, Roma 1958, coll. 861-863; G. Mazzoni, L'Ottocento, II, Milano 1964, pp. 247 s.; G. Pullini, Teatro ital. dell'Ottocento, Milano 1981, pp. 184-188.