NAMIAS, Giacinto
– Nacque a Venezia il 10 aprile 1810, da Marco e da Susanna Bianchini, discendente da famiglia ebrea di origine spagnola, rifugiatasi in Italia nel XVI secolo per sfuggire alle persecuzioni dell’Inquisizione.
A Venezia frequentò la scuola ebraica e la scuola rabbinica per poi essere ammesso alla Facoltà di medicina dell’Università di Padova, dove si laureò nel 1834 con una tesi De singultu idiopatico che già delineava la sua passione per la medicina fisica, allora ben distinta dalla chirurgia. Un anno dopo la laurea, impedito dal suo stato di ebreo di frequentare l’ospedale Grande di Venezia, andò a lavorare in quello sussidiario di San Daniele, dove rimase due anni (1835-36), dando inizio a sperimentazioni e lavori che inviò regolarmente all’Ateneo veneto, allora la più prestigiosa istituzione scientifica della regione. I lavori vennero molto apprezzati dai soci dell’Ateneo, che nel 1837 lo cooptarono e lo nominarono segretario per le scienze. Ma l’espressione costante delle sue simpatie politiche, contrastanti con la dominazione austriaca di Venezia, e le simpatie per Niccolò Tommaseo e Daniele Manin lo fecero inserire in un elenco di ‘sgraditi’ dell’Ateneo, così che il rinnovo della sua carica venne bocciato. Avviò allora una frenetica attività scientifica, presentando numerosi lavori all’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, tanto che nel 1846 non fu possibile rifiutare la sua domanda di iscrizione all’Istituto e nel 1847 gli dovette essere restituita la carica di segretario per le scienze dell’Ateneo veneto; nel 1855 fu nominato segretario dell’Istituto, di cui nel 1865 divenne presidente. Cadute le discriminazioni antiebraiche, era intanto riuscito a entrare nell’Ospedale Grande di Venezia, dove divenne primario di medicina nel 1851, carica che tenne fino alla morte.
Sposato nel 1838 con Rosa Corinaldi, non ebbe figli, ma adottò con amore Moisè Raffael Levi, figlio di sua sorella Dolcetta, che divenne medico famoso a Venezia.
L’attività professionale di Namias si divise tra la medicina clinica e la ricerca. Come medico si distinse per una speciale capacità di intuizione clinica, ma anche per l’amore verso gli ammalati, in particolare quelli poveri e derelitti. Spese molto del suo tempo nell’insegnamento ai giovani medici e fondò all’uopo una scuola pratica ospedaliera. Esercitò la sua professione di primario in modo innovativo, in contatto con i più importanti centri clinici dell’epoca (Vienna, Parigi, Napoli), sperimentando continuamente nuove terapie, non senza difficoltà e critiche dei colleghi. In tempi in cui la cura era interamente basata sull’esperienza del singolo medico, divenne l’alfiere dello sperimentalismo, tentando di offrire agli ammalati il meglio che al momento la scienza medica e le sue stesse sperimentazioni consigliavano. Molte delle sue applicazioni cliniche sarebbero state successivamente sorpassate dai progressi della medicina, ma alcune sue intuizioni ancora reggono il confronto scientifico: il chinino nella cura della malaria, la propaganda della vaccinazione antivaiolosa, le applicazioni elettrofisiologiche. Avendo una profonda preparazione di chimica farmaceutica fu in grado di creare farmaci che testava prima sull’animale e poi sull’uomo, applicando schemi sperimentali molto avanzati per l’epoca, quali ripetute indagini campionarie e inserimento di controlli.
Per quanto riguarda la ricerca, fin dagli anni della laurea si appassionò agli studi dello scienziato tedesco Rudolf Virchow, fautore della teoria «omnis cellula a cellula» secondo la quale le malattie derivano da alcuni tipi di cellule o modificazioni fisiologiche delle stesse e non sono conseguenza di miasmi ambientali, come sosteneva la teoria umorale fino ad allora in voga. La sua attività di ricerca spaziò in tre grandi campi: la terapia delle malattie epidemiche che flagellavano Venezia in quegli anni, le applicazioni dell’elettrofisiologia e l’influenza della meteorologia sulle patologie umane.
Tra gli anni Trenta e Settanta del XIX secolo l’Europa fu scossa da terribili epidemie: colera, vaiolo, tubercolosi, morbillo posero il corpo medico davanti a compiti improbi, privi com’erano di qualunque strumento per fermare o attutire l’impatto di queste malattie. I rimedi in uso erano quanto di più fantasioso e terapeuticamente inefficace si possa immaginare: nella cura del colera si somministravano complicate misture di erbe, sostanze chimiche, agenti fisici quali freddo e calore; la valutazione dell’efficacia di questi rimedi era individuale e l’insuccesso facilmente attribuibile alla mancata risposta dell’organismo colpito. Namias introdusse un approccio epidemiologico, iniziando a valutare l’effetto di terapie su gruppi di pazienti e a confrontarle con altri gruppi, in ricerca di significative differenze, precorrendo così il metodo del trial clinico odierno (Storia naturale e cura del colera: due letture tenute nel 1867 all’ospedale civile di Venezia, Milano 1873).
In particolare Namias si trovò nel pieno della grande epidemia di colera che colpì tutta l’Europa nella prima metà dell’Ottocento. Il primo focolaio della malattia in Europa si sviluppò a Nizza nel 1835 e di lì passò in Toscana e in Piemonte nel giro di pochi mesi, mostrando grande virulenza già in luglio e agosto. Nei primi giorni del novembre 1835 alcuni ammalati di vomito e diarrea violenta furono identificati a Venezia, dove l’epidemia si diffuse rapidamente e in modo classico: «Rare volte mancarono in Venezia i sintomi prodromi; pochi individui nel vigore della salute colti ad un tratto da fulminante cholera perirono in circa otto ore» (scriveva Namias in Esculapio napoletano, anno 1836, p. 211).
Nell’ottobre 1835 Namias fu destinato a curare i colerosi nell’ospedale di San Daniele. Sostenitore della teoria del contagio tra vivi (successivamente dimostrata vera con la scoperta del Vibrio cholerae da parte di Filippo Pacini nel 1855) per rinforzare le sue convinzioni condusse una serie di esperimenti biologici in vivo: iniettò su conigli sangue di pazienti morti di colera e trasferì sangue di conigli morti da quest’esperimento in altri conigli sani, dimostrando che il morbo era biologicamente trasmissibile e causato da sostanze contenute nel sangue. Fece anche importanti osservazioni sul sangue degli esemplari colerosi, di fatto anticipando il concetto moderno di disidratazione: «la qualità del sangue ci assicura che, tranne poche eccezioni, lo ho trovato mutato nella sua crasi, varia la proporzione del siero, ed il crassamento più nero e più molle di quello che solevasi riscontrare» (ibid.). Ripeté questi esperimenti sui conigli ben nove volte, una decima volta iniettò su un altro coniglio sangue proveniente da un morto di gangrena intestinale e riscontrò che l’animale dopo un mese era in buona salute, contrariamente ai nove precedenti, tutti periti in circa una settimana. Al di là della validità scientifica di questi esperimenti (oggi è dimostrato che il colera si trasmette non per via ematica, ma oro-fecale), Namias offrì un grande sostegno alla teoria del contagium vivum, che pochi anni dopo fu definitivamente dimostrata dagli studi di Pacini e di Louis Pasteur. Le sue scoperte furono vivacemente contestate da molti studiosi dell’epoca, ancora convinti della teoria della trasmissione miasmatica della malattia. A queste critiche Giacino Namias rispose citando i lavori di altri ricercatori che erano riusciti a trasmettere il vaiolo e il carbonchio iniettando sangue di malati su soggetti o animali sani (in queste malattie, infatti, è efficace la trasmissione ematica perché nel sangue dei malati è presente l’agente infettante).
Namias fu entusiasta assertore dell’impiego dell’elettricità per la cura di numerose malattie: sperimentò l’applicazione di basse dosi di elettricità continua, somministrata anche usando macchine da lui inventate e fatte costruire, in numerosi casi di paralisi neurologica di arti, di nevralgie e nevrosi, di dolori persistenti e perfino di malattie croniche quali la cirrosi epatica e l’idrocele (Nuovi studii esperimentali d’elettricità nelle sue applicazioni alla medicina, Venezia 1865). Nella lotta al dolore fu, insieme con famosi dentisti dell’epoca, fra i primi utilizzatori dell’etere e del cloroformio per anestetizzare il paziente. Sperimentò l’agopuntura e pubblicò alcuni lavori sul successo di terapie agopunturali in molte patologie, perfino in casi di pertosse (tosse convulsiva), da lui definita malattia neurologica. Per le patologie neurologiche si avvalse anche di terapie chimiche, promuovendo l’uso del bromuro di potassio e della canfora nella cura dell’epilessia.
Numerose furono inoltre le sue pubblicazioni sull’influenza delle condizioni meteorologiche sulla salute umana (cfr. Relazioni meteorologiche e mediche, con Antonio Berti, Venezia 1862): lo studio sistematico di statistiche di mortalità delle malattie epidemiche lo convinse della loro stagionalità e ricorrenza periodica, legata a fenomeni meteorologici e ambientali. Le acque destinate al consumo umano attrassero sovente la sua attenzione: nel suo laboratorio ospedaliero analizzò molte volte l’acqua potabile di Venezia, denunciandone l’alto contenuto in arsenico e convincendo il governo della Serenissima a importanti opere di depurazione.
Namias pubblicò oltre cento lavori scientifici, in gran parte sugli Atti dell’Istituto veneto delle scienze, lettere ed arti di Venezia, ma anche sulla rivista Giornale per servire ai progressi della patologia e della terapeutica, da lui stesso fondata, con altri, nel 1834. Fu membro di numerose società scientifiche, fra cui la Società medica di Vienna, la Reale Accademia delle scienze di Torino, l’Accademia Pontaniana di Napoli, l’Accademia di Padova, l’Accademia di Treviso, la Società Medica di Firenze e la Società medica di Ferrara.
Morì il 1° gennaio 1874 a Venezia, dopo una lunga malattia, che non gli impedì di restare accanto ai suoi malati fino agli ultimi giorni.
Fonti e Bibl.: Elenco delle memorie lette negli anni accademici 1835-36 e 1836-37, inAteneo veneto: revista di scienze, lettere ed arti, III (1839) p. 284; I. Cantù , L’Italia scientifica contemporanea: notizie sugli italiani ascritti ai cinque primi congressi, III, Milano 1844, p. 342; Ateneo veneto: Indici dei lavori comparsi nelle sue pubblicazioni dal 1812 a tutto il 1900, a cura di C. Musatti, Venezia 1902; L. Premuda , Storia della medicina, Padova 1975, ad ind.; G. Cosmacini, L’arte lunga, storia della medicina e della sanità in Italia: dalla peste europea alla guerra mondiale, Bari-Roma 1987, ad ind.; G. Gullino, L’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Dalla rifondazione alla seconda guerra mondiale (1838-1946), Venezia 1996, ad ind.; S. Pizzocaro, Un medico veneziano dell’Ottocento, tesi di laurea, Università di Milano, facoltà di lettere e filosofia, anno accademico 2000-2001.