GIACOMINO Pugliese
Con questo nome è conosciuto uno dei principali poeti della scuola siciliana, la cui identificazione è tuttora controversa e la cui attività poetica è da collocare nella prima metà del XIII secolo.
All'interno del ms. Vat. lat. 3793, conservato presso la Bibl. apost. Vaticana (siglato V o A), sono tramandate sotto la rubrica: "giacomino pulgliese" ("giacomi" in "Donna di voi mi lamento", n. 59 secondo la numerazione del ms. e, con maiuscola, "Giacomino" in "La dolce ciera", n. 60) complessivamente otto liriche (cc. 16r-18r, nn. 55-62). Una soltanto ("Tuttor la dolce speranza") è tràdita anche dal ms. Redi 9, c. 104v, n. 124 della Bibl. Medicea Laurenziana di Firenze (siglato L o B), con attribuzione a "Giacomo Pulliese". L'unica canzone di paternità controversa, "La dolce ciera", è trasmessa anche dai mss. Banco Rari 217, c. 21r, n. 35 della Bibl. naz. di Firenze, (siglato P o C) e Chigi L.VIII. 305, cc. 82v-83r, n. 241 della Bibl. apost. Vaticana (siglato Ch o D), con attribuzione comune a: "messer piero dalevigne".
L'ipocorismo è autorizzato dai testi, ove è iscritto come firma, secondo un uso noto, ma soggiace sempre alla costrizione della rima: "Tuttor la dolce speranza", v. 40 (Giacomino : fino); "Donna, di voi mi lamento", v. 70 (Giacomino : dimino); "Isplendiente", v. 64 (Giacomino : fino). Quanto alla relazione sintagmatica con "Pugliese" l'interpretazione rimane ancora complessa e controversa: semplice patronimico per taluni, è invece per altri da intendere piuttosto quale determinativo localizzante. A tal proposito è utile ricordare che, come già in latino (apulus), la qualifica di "pugliese" avrebbe potuto indicare nella geo-linguistica politica del Medioevo un non isolano e dunque, genericamente, un meridionale del continente (Varvaro, pp. 139, 220), con la conseguenza evidente che l'apposizione risulterebbe significativa solo fuori di tale regione, peraltro amplissima e differenziata (Capitanata, Principato, Terra di Lavoro, ecc.). Anche Dante, nel De vulgari eloquentia, distingue nell'intera Italia meridionale solo una varietà linguistica sicula e una varietà apula, salvo poi assimilarle nella ancora poco chiara ricomprensione del più esplicitamente siciliano, il Notaro Giacomo "da Lentini", fra gli "Apuli… prefulgentes" (De vulgari eloquentia, I, XII, 8). Proprio seguendo questa indicazione dantesca il Borgognoni (p. 49) aveva identificato G. con Giacomo da Lentini. Si attestano infine occorrenze di "pugliese" nell'accezione di "uomo sleale, bugiardo" (Coluccia, p. 382), qualifica che non risulterebbe sconveniente alla proposta di identificazione di G. con Giacomo di Morra (sulla quale vedi oltre), per il quale nel 1246, a seguito della congiura di Capaccio, Federico II usò l'epiteto di "proditor", lo stesso utilizzato qualche anno dopo per qualificare la condotta di Pietro Della Vigna.
Le ipotesi sul poeta coincidono dunque sostanzialmente con i tentativi di concretizzazione storica della rubrica dei manoscritti vaticano e laurenziano e con l'interpretazione di alcuni elementi topici iscritti nei testi, elementi questi ultimi assai rarefatti, come nell'opera di tutti i siciliani.
Secondo la tesi di Crescimbeni G. sarebbe stato originario di Prato: "pugliese", evidentemente, si intese come patronimico, ma la localizzazione non fu di fatto suffragata da alcuna prova concreta. L'ipotesi fu accolta senza discussione da tutti i primi editori e, in un primo momento, anche da Caix (che successivamente propose invece di assimilare a G. anche Cielo d'Alcamo) e da Monaci (1876, p. 240); recentemente la tesi è stata ripresa da Avalle (Concordanze, p. ccxxxii a).
Nel clima instaurato dal positivismo la ricerca d'archivio produsse numerosi "Jacobini" passibili di essere identificati con Giacomino. Per citarne solo alcuni si ricorderà Monaci (Crestomazia, 1889, p. 88), che, abbandonata l'idea del Crescimbeni, pensò, sulla scorta del congedo di "Lontano amore", a uno "Jacobinus negociator" presente in un atto rogato a Cividale il 28 febbr. 1235 (cfr. Joppi, p. 400). Successivamente, lo Zenatti (1894 e 1904) suggerì invece il "Jacobinus" custode della Camera di Melfi attestato da un documento del 1239; Scandone (p. 217) trovò un "Jacobus Apuliense" di Catania, morto agli inizi del 1300, e Garufi (1904-05, p. 117) infine segnalò un altro "Jacobinus," "baro in Terliccio, filius Siri Sansonis baronis".
Torraca per primo propose di identificare G. con Giacomo "de Morra", figlio del nobile campano e gran giustiziere Enrico, "magne imperialis curie magister" (Kamp, 1992, p. 845). Giacomo di Morra, dopo aver ricoperto diversi e importanti incarichi per conto di Federico II (fu, tra l'altro, podestà di Treviso, capitano generale del Ducato di Spoleto e generalvicario della Marca Anconetana), aveva partecipato, nel 1246, alla congiura di Capaccio. Passato dalla parte del papa, era ancora vivo probabilmente fra il 1249 e il 1251 (Novati, p. 44 n. 15). L'ipotesi di identificazione si basava da un lato sulla qualifica di "Apulus" data a "Jacobus" dal cronista Rolandino da Padova (ma parimenti "Apulus" è per Rolandino anche Pietro Della Vigna), dall'altro sul fatto che si assimilava allo stesso il "Iacobus de Mora", dedicatario (con Corraduccio da Sterleto) del Donat proensal, la grammatica scritta da quell'Uc Faidit identificato negli stessi anni dal Gröber col trovatore Uc de Saint Circ. La proposta di Torraca fu accolta da molti, mentre non fu accettata, fra gli altri, da Contini, il quale, dopo aver ricordato che le rubriche dei codici riportano solo "giacomino pugliese", concluse: "basterebbe questa circostanza, con l'assenza del titolo di "messere", a escludere che possa trattarsi del "Jacobus de Morra" per forza maggiore chiamato "Apulus"" (Poeti del Duecento, p. 145). Nella recente interpretazione di un affresco rinvenuto a Bassano del Grappa, rappresentante per taluni (ma la datazione è controversa) Federico II, la sua terza moglie Isabella d'Inghilterra e due figure maschili, si è ipotizzato che uno dei due personaggi raffigurati sia da identificare con Giacomo di Morra-G. (cfr. Meneghetti).
Gli elementi testuali che costituirono occasione di ipotesi su G. sono sostanzialmente due: le coordinate geografiche iscritte nel congedo della canzone "Lontano amore" e un paragone utilizzato nel compianto "Morte perché m'ài fatta sì gran guerra": "solea avere sollazo e gioco e riso / più che null'altro cavaliere che sia" (vv. 11-12). Già evidenziato da Angelo Colocci a margine della sua copia di V (Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat. 4823, c. 69r), "cavaliere" divenne riferimento alla condizione sociale di G. già per Allacci e per Scandone e fu poi decisamente rifiutato da M. Santangelo (p. 12) ma in nome di un pregiudizio, durevole, che etichettava la produzione di G. come giullaresca. In realtà l'apposizione, peraltro già attestata in tale funzione presso i trovatori, più che in direzione autobiografica è da intendersi quale prosecuzione topica del milieu cortese anticipato dal polinomio di matrice trobadorica.
Più complessa l'interpretazione del congedo di "Lontano amore": "Canzonetta va a quella ch'è dea, / che l'altre donne tene in dimino, / da Lamagna infino in Aghulea / di quello regno ch'è più fino / degli altri regni; a!, deo, quanto mi piace! / in dolze terra dimoranza face / madonna c'a lo fiore sta vicino" (vv. 29-35). Nell'invio ("canzonetta va…"), formula peraltro abbastanza circoscritta nella scuola (Monti, pp. 9-11 e Schulze, pp. 214 s.), si salda il motivo amoroso ("che l'altre donne tene in dimino") al Regno di Federico II che diventa l'unico vero luogo (e lontano) di amore ("dolze terra", v. 34) e di cortesia ("di quello regno ch'è più fino / degli altri regni", vv. 32 s.). Nel v. 31: "dalla Germania fino ad Aquileia" non si allude genericamente all'Italia settentrionale (o alla Marca Trevigiana, come per Scolari) ma, nei due membri individuati, si potrebbe più persuasivamente richiamare un'occasione storica precisa: l'importante incontro avvenuto nella primavera del 1232 ad Aquileia fra la corte tedesca di Enrico, primo figlio di Federico II e re di Germania dal 1220, e la corte meridionale dell'imperatore (Brunetti, 2000). Per le ipotesi interpretative precedenti, cfr. Monti e M. Santangelo, pp. 12-24.
L'identificazione di "aghulea" con Aquileia, la sede patriarcale (e ghibellina) del Friuli, è già dei primi editori e poi pressoché unanimemente accolta, con isolate eccezioni, fra le quali quelle di Restivo e Scandone, i quali ipotizzarono una corruzione dell'originario "Apulea", poi interpretato rispettivamente "Puglia" (Restivo) e "regno di Puglia e Sicilia" (Scandone); fu infine Bertoni (1939, p. 101) a identificare la "Magna" con la Capitanata. Quanto a "fiore", per taluni fu apposizione di lode a "madonna" (Torraca; Zenatti, 1914), per altri specificazione concreta della "dolze terra", identificata perciò con: Firenze (Monaci, Crestomazia; Casini), Fiorentino in Capitanata (Cesareo; Bertoni 1939, p. 102), la Valle Fiorentina, tra Sant'Angelo dei Lombardi e Bagnoli (Torraca, in connessione all'identificazione di G. con Giacomo di Morra), il quartiere messinese "de florentino" (Scandone), Fiore presso Cosenza (M. Santangelo, p. 23; Panvini, 1962, p. 188), genericamente l'Italia meridionale (Monti, Salinari). È da dire però che Firenze non si collocherebbe propriamente accanto al Regno (M. Santangelo, p. 19), anzi si ricordi in proposito il Notaro, "Ben m'è venuto", v. 34: "como Florenza - che d'orgoglio sente" (S. Santangelo), a meno di pensare a un impiego metaforico, connesso al Notaro, equivalente a: "Madonna c'a lo Fiore sta vicino" (quanto a orgoglio).
Il frammento zurighese recentemente rinvenuto pare costituire anche da questo punto di vista una sponda concreta ai versi di "Lontano amore". Su una carta di guardia del manoscritto C 88 della Zentralbibliothek di Zurigo, uno dei relatori del XII secolo delle Institutiones grammaticae di Prisciano, si è conservata la trascrizione di quattro strofe di una delle canzoni di G.: "[R]esplendiente stella de albur". La trascrizione segue a un Landfriede emanato dalla Cancelleria di Enrico, primogenito di Federico II, ed è databile agli anni 1234-35. L'amanuense che copiò il testo di G. a seguito di alcuni brani di carattere liturgico e della Constitutio di Enrico è un "tedesco", la varietà linguistica del testo esemplato (evidentemente sovrapposta alla lingua "siciliana" del poeta) è italiana settentrionale con elementi friulani (Brunetti, 2000). Il ritrovamento permette dunque di ancorare a una data e a una zona di prima ricezione il canzoniere di G. che nei primissimi anni del quarto decennio del Duecento doveva probabilmente aver già composto almeno due delle sue canzoni: "[R]esplendiente stella de albur" e "Lontano amore mi manda sospiri".
Il canzoniere di G. comprende in tutto otto testi: sette canzoni e un discordo, indicato dall'autore come "caribo" ("Donna, per vostro amore", v. 50). Da rilevare che se il discordo è forma antica (sperimentata, a parte gli indefinibili adespoti, dai soli G., "Re Giovanni" e Giacomo da Lentini), la mancanza nel corpus poetico di sonetti è di quasi tutti i siciliani. All'interno o in contiguità delle canzoni si individua un'estrema variabilità di soluzioni: un compianto in morte dell'amata ("Morte perché m'ài fatta sì gran guerra"), che è probabilmente, con "Amando con fin core" di Pietro Della Vigna, il più antico planh della lirica italiana, di valore modellizzante fino a Dante e Petrarca; una "canzonetta" di lontananza ("Lontano amore mi manda sospiri") sensibilmente collegata, non solo per ragioni metriche, a "S'io doglio" di Giacomo da Lentini; una a esordio primaverile ("Quando vegio rinverdire"), il cui incipit coincide con quello della canso redonda o retro(e)ncha: "Can vei reverdir les jardis", unico testo scritto in lingua d'oil dal trovatore Gaucelm Faidit; un contrasto ("Donna, di voi mi lamento") ove, secondo i canoni propri all'altercatio, la voce femminile (stanze pari) si alterna a quella maschile e comprende il sintagma "libro di Giacomino" ("che lo libro di Giacomino / lo dica per rimembranza", vv. 70 s.), spesso interpretato come sinonimo di "canzoniere" e dunque come riferimento esplicito all'aggregazione intenzionale dei testi (ma cfr. Brunetti, 1999, pp. 66-70).
Se si confrontano le forme metriche adoperate da G. è possibile riconoscere una predilezione precisa per alcuni schemi rimici, in particolare per la fronte abab (fissa in tutte e sette le canzoni); frequente è inoltre nella sirma l'attitudine a spezzare lo schema base con versicoli immeditamente rimanti o con semplici echi di rima, con un effetto complessivo di estrema musicalità, assai diverso perciò dai toni della canzone distesa e solenne. Altra caratteristica importante del canzoniere di G. è l'uso del decasillabo, assai raro nella poesia dei primi secoli, e delle rime sdrucciole.
Cifra stilistica significativa del canzoniere di G. è il tema del ricordo, della "rimembranza", che si combina efficacemente al "dire per rima" ("Tuttor la dolce speranza", v. 37) e in tal modo sia al mestiere, sia al "libro di Giacomino" (v. 40). Tale poetica del "dolce e confortante rimembrare, dell'urgenza della parola-ricordo" (Folena, pp. 301 s., 336) che rende unitario il canzoniere e stabilisce lo statuto stesso del suo autore, è declinata anche sui temi della gelosia, della "fallanza" e del mantenimento della fedeltà nell'assenza (interno quest'ultimo al topos della lontananza degli amanti). Talune espressioni realistiche presenti nel canzoniere di G. non allontanano di fatto lo stesso dalla poesia cosiddetta "aulica", ma devono essere valutate se non come espressioni originali (sono spesso infatti presenti in antecedenti trobadorici) quali elementi stilistici da giudicare nelle forme volta a volta sperimentate.
Collegamenti intertestuali tra le poesie di G. e quelle degli altri siciliani si individuano in particolare col Notaro ("S'io doglio", "Dolze coninzamento", "Madonna mia a voi mando", "Troppo son dimorato", "Meravigliosamente"), con Rinaldo d'Aquino ("In gioi mi tegno", "Gia mai non mi [ri]conforto", "Amor che m'à 'n comando"), con Pietro Della Vigna ("Amore in cui disio"), con Federico II ("Dolze meo drudo"). Fra gli emuli più prossimi si ricorderà Compagnetto da Prato che adoperò nei suoi due componimenti noti non solo lo stesso metro di G. (di "Quando vegio" e "Tuttor"), ma affiancò a una stretta contiguità di tema la ripresa delle caratteristiche e rarissime rime sdrucciole. Valutare la fortuna del canzoniere di G. rimane una ricerca da compiere. Nel XIX secolo G. fu oggetto di grande attenzione e persino di sopravvalutazione, ma in nome, in fondo, di un fraintendimento. Nella prospettiva romantica il realismo e l'"originalità" di taluni passi furono infatti giudicati espressione spontanea di poesia popolare, piuttosto che la sperimentazione artistica di un registro stilistico specifico. Lo slittamento definitivo fu poi compiuto nell'equivalenza stabilita fra "popolare" e "giullaresco": è la tesi sulla condizione di G. formulata compiutamente da M. Santangelo e rafforzata dal fatto che i testi del poeta si trovano copiati nel quarto fascicolo del ms. vaticano (presunta sezione giullaresca del codice), fra il contrasto di Cielo d'Alcamo e Ruggieri Apugliese. Il pregiudizio giullaresco si riflette in qualche modo anche nella selezione dell'antologia curata da Contini, e ancora per Panvini, nella raccolta del 1994 (p. 16), G. è un giullare.
Dopo le opportune e inevitabili revisioni delle tesi ottocentesche, la critica più avvertita (Folena, p. 302; Monteverdi, p. 297) ha riconosciuto senza equivoco al canzoniere di G. un valore affatto speciale, che se trova una cifra connotante nella sperimentazione di un peculiarissimo "trobar leu" (Brugnolo, p. 298) permette di riconoscere già nella fase più antica della scuola federiciana una sostanziale polifonia di posizioni (Dronke, p. 63; Antonelli, pp. 334, 339; Brunetti, 2000), un'articolazione complessa che, ed è il caso di G., anche attraverso l'elaborazione personale di modelli d'Oltralpe, probabilmente non solo trobadorici, permise maestrie diversamente individuate, dialogiche e talvolta alternative alle forme più canoniche del grande canto cortese.
Edizioni: L. Allacci, Poeti antichi raccolti dai codd. Vat. 3793 e Barber. XLV, Napoli 1661, p. 50; Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice Vaticano 3793, a cura di A. D'Ancona - D. Comparetti, I, Bologna 1875, pp. 379-403; E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, Città di Castello 1889, pp. 88-93; G. Carducci, Antica lirica italiana (canzonette, canzoni, sonetti dei secoli XIII-XV), Firenze 1907, pp. 11-14, 31 s.; E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, a cura di F. Arese, Roma-Napoli-Città di Castello 1955, pp. 120-126; G.M. Monti, G. P. e le sue rime, in Id., Studi letterari, Città di Castello 1924, pp. 139-161; M. Santangelo, Le poesie di G. P., Palermo 1937; G. Lazzeri, Antologia dei primi secoli della letteratura italiana, Milano 1942, pp. 615-637; La Magna Curia. La scuola poetica siciliana, a cura di C. Guerrieri Crocetti, Milano 1947, pp. 197-219; M. Vitale, Poeti della prima scuola, Arona 1951, pp. 261-283; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960, pp. 145-148 (pubblica solo la canzone "Morte, perché m'hai fatta sì gran guerra"); II, p. 814; B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 179-195; La poesia lirica del Duecento, a cura di C. Salinari, Torino 1968, pp. 123-139; Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, a cura di d'A.S. Avalle, I, Milano-Napoli 1992, p. ccxxxiia e passim; H.C. Skubikowski, A critical edition of the poetry of G. P., Ann Arbor, MI, 1984. È in corso una nuova edizione commentata delle poesie di G., a cura di G. Brunetti, che sarà compresa nella edizione nazionale dei poeti siciliani patrocinata dal Centro di studi linguistici e filologici siciliani.
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