VIGNOLA, Giacomo Barozio da
Architetto, nato in Vignola nel 1507, morto in Roma nel 1573. È stato forse l'architetto più noto e più rappresentativo, pur non essendo il maggiore per altezza d'arte, di quel periodo intorno la metà e la fine del Cinquecento che suole designarsi col nome di tardo Rinascimento: periodo di maturazione di concetti teorici e insieme di ricerca di espressioni nuove che preludono alla più decisa evoluzione del secolo successivo. E nella figura del Vignola convergono appunto il fecondissimo autore di varie e complesse opere architettoniche e il trattatista, cui si deve il formulario di teoria artistica che ha avuto diffusione e influenza veramente enormi nei periodi successivi.
A questa importanza dell'artista e della sua opera mal corrispondono i dati biografici che ce ne rimangono. Sicura è la data della nascita. Da Vignola il giovane passò a Bologna a studiare pittura e prospettiva e a iniziare il suo tirocinio nell'arte; ed è assai probabile che in questa sua preparazione abbia avuto grande influenza Sebastiano Serlio. Ma invero di questo primo periodo formativo si hanno pochissime notizie, che si riferiscono alla protezione accordata al giovane artista da Francesco Guicciardini, allora governatore papale di Bologna, e all'esecuzione di alcuni lavori d'intarsio in legno per alcune chiese di Firenze e di Bologna. Intorno al 1534 il V. venne a Roma, forse chiamatovi da quel ferrarese Iacopo Meleghino, che si trova spesso un po' come architetto, un po' come amministratore delle fabbriche papali. E a Roma, mentre seguitava la sua modesta attività nel campo della pittura, dovette iniziare in modo serio e organico la preparazione in quello dell'architettura.
Le fonti di studio erano in quel tempo per gli architetti i rilievi dei monumenti antichi, le interpretazioni dell'oscuro testo di Vitruvio, la ricerca di leggi e norme di proporzioni in cui l'esperienza e la teoria si potessero applicare ai nuovi temi contingenti. Per il V. questo lavoro di fondamento fu non individuale e incidentale, ma sistematico. Lo si trova infatti intorno al 1540 segretario di quella Accademia vitruviana romana, di cui facevano parte Marcello Cervini (poi papa Marcello II), Pier Angelo Manzolli, il Maffei e tanti altri umanisti, e di cui era ispiratore Claudio Tolomei, il quale ne tracciò il programma d'indagini e di pubblicazioni con una vasta concezione che prelude agl'intenti e ai metodi dell'archeologia moderna. Poco altro si conosce dell'operosità del V. in questo suo primo periodo romano; ma certo dovettero in esso iniziarsi rapporti di collaborazione con Antonio da Sangallo e con quella che il Vasari chiama la "setta sangallesca", cui forse va collegata la successiva opera per la casa Farnese; e anche si dovette svolgere, auspice F. Primaticcio, quel lavoro di riproduzione in gesso e in bronzo di antiche statue per abbellire il parco di Fontainebleau, lavoro col quale è in relazione l'andata del V. in Francia, dove stette dal 1541 al 1543 al servizio di Francesco I.
Nel 1543 lo ritroviamo a Bologna, occupato in lavori di carattere essenzialmente tecnico, come il ponte sul Samoggia e il canale del Navile, e in progetti per il completamento della chiesa di S. Petronio, favoriti dal Pepoli, presidente dell'opera e contrastati dall'architetto Ranuzzi; e un suo disegno si conserva della facciata ideata per la chiesa, di un carattere stilistico non felicemente goticheggiante. Di quel tempo è il portico dei Banchi, la cui paternità si può sicuramente attribuire al V., mentre incertissime sono le attribuzioni relative ai palazzi Bocchi e Boncompagni, diversissimi tra loro di tipo architettonico, e al palazzo Isolani di Minerbio, che il padre Danti gli assegna, mentre recenti studî lo darebbero, come il palazzo Malvezzi, a B. Triachini.
Ed ecco alfine giungere, col ritorno a Roma nel 1546, la fine di questo lungo e penoso periodo di peregrinazioni e di lotte, e l'inizio di un altro lieto di prosperità e di successi; ma anche in esso l'opera vastissima e multiforme affannosamente svolta dall'architetto non sempre è ben definita, o perché s'innesta (come per Caprarola o per il palazzo Farnese) su costruzioni già condotte avanti, o perché è rimasta incompleta e altri l'hanno poi continuata (come per la chiesa del Gesù e per S. Anna dei Palafrenieri), o infine perché si è espressa tra intromissioni e collaborazioni.
Certo dovette il V. succedere al Sangallo nella "clientela" della famiglia Del Monte, da cui uscì papa Giulio III, e della casa Farnese.
Nella villa di papa Giulio, nel suburbio di Roma, è certamente suo il palazzo principale che si svolge con una grande esedra verso il giardino privato e il ninfeo. Tutti i caratteri dell'architettura vignolesca vi si riscontrano: la grande scala a chiocciola che segue il modello di quella vaticana di Bramante e prelude a quella di Caprarola, la forte zona basamentale in cui si accentua il grande portale che sorregge il balcone, il tipo delle finestre, a piattabanda bugnata nel piano inferiore, a ricco sopraornato nel superiore, quello della cornice di coronamento a doppia mensola disposta nel fregio, quale si ritroverà nel palazzo di Caprarola e nei disegni dei Cinque ordini. Allo stesso tempo e allo stesso ciclo di lavori appartiene la chiesetta di S. Andrea sulla Via Flaminia, una delle opere più significative del maestro. Il grande modello del Pantheon è qui tradotto in forma semplice e di piccola mole, ma piena di nobiltà e di grazia, e la pianta ci offre il primo esempio costruito di schema pseudocentrale dovuto all'adozione dell'ellisse in luogo del cerchio, secondo un tipo che era stato preceduto da disegni di B. Peruzzi e di S. Serlio e che troverà poi applicazioni in S. Anna dei Palafrenieri dello stesso V. e in tanti edifici sacri seicenteschi. Anche al pontificato di Giulio III (1550-1555) appartengono i portici del Campidoglio, a severo motivo di triplici arcate, che mirabilmente chiudono, sulle scalee lateralmente disposte, la grande composizione urbanistica della piazza inaugurata dal genio di Michelangelo.
Nel periodo immediatamente seguente, tra la produzione vignolesca, sempre più numerosa e intensa, si levano i due capolavori cui la fama dell'architetto è principalmente affidata, cioè il palazzo di Caprarola e la chiesa del Gesù in Roma, l'uno e l'altra a lui commissionate dal cardinale Alessandro Farnese.
Del palazzo di Caprarola, tipo complesso di villa e di castello, magnifica mole che corona in alto la piccola borgata, appartengono al V., non lo schema planimetrico a esterno perimetro pentagono racchiudente un cortile circolare, che è ormai dimostrato essere del Sangallo, ma tutta l'elevazione dell'edificio, la confomazione e la decorazione architettonica. Sua è l'architettura armoniosa e forte dell'esterno, in cui le pareti, ravvivate dalle finestre e dai loggiati, si alzano dalle scalee e dai baluardi; e del cortile dalla linea potentemente classica, e della scala circolare e delle sale e del vestibolo. La costruzione del palazzo di Caprarola fu ripresa dal V. nell'aprile del 1559, ed egli vi accudì con grande cura rimanendo quasi costantemente sul posto fino al 1564. Coadiutori e continuatori gli furono l'architetto parmigiano G.B. Fornovo e il figlio Giacinto.
Della chiesa del Gesù in Roma la prima pietra fu solennemente posta il 26 giugno 1568; ma nel 1573, anno della morte del V., non era ancora giunta alle vòlte, che furono terminate tre anni più tardi, e solo nel 1584, dopo un confuso periodo in cui vi lavorarono insieme ben quattro architetti, ebbe il suo completamento per opera di Giacomo della Porta, con la cupola e con la facciata a doppio ordine, notevolmente diversa da quella che aveva disegnato il V. Invero per l'organismo del grande edificio chiesastico aveva già la Compagnia di Gesù tracciato un preciso programma, ehe il cardinale Farnese trasmise all'architetto: la chiesa non avrà tre navi, ma una sola vasta, con cappelle ai lati e sarà coperta a vòlta. Ma è merito del V. di aver tratto da queste idee generali una concezione salda e concreta, disponendo i muri divisorî delle cappelle a contrafforti della vòlta, e ritornando, con una rispondenza veramente significativa, alle grandi soluzioni spaziali e costruttive che l'architettura imperiale romana aveva lanciato nello spazio con le sale delle grandi terme e con la basilica massenziana. Egli ha plasmato così il definitivo modello della chiesa della Controriforma.
Delle altre opere prodotte dal V. in quest'ultimo periodo della sua vita daremo qui brevi cenni. Nella fabbrica di S. Pietro è provato che egli fu collaboratore di Michelangelo dal 1552 al 1554, e che dopo la morte di questo ebbe la direzione dei lavori, la quale però gli fu ufficialmente conferita solo nel 1571. Opera sua in questo tempo può dirsi la cupola minore elevata sulla Cappella gregoriana, pur essendone dovuto a Michelangelo il concetto e l'inizio.
Due grandi ville hanno avuto il V. per autore: la villa Gambara, poi Lante, a Bagnaia, e la Farnesina sul Palatino a Roma. In ambedue egli segue per la parte centrale, costituita dagli edifici, dal giardino, dalle terrazze, dalle fontane, nuovi concetti di regolarità geometrica, che maggiormente verranno sviluppati nelle ville della fine del secolo e del Seicento.
Grandioso come mole è il palazzo Farnese di Piacenza iniziato nel 1559 per il duca Ottavio e per Margherita d'Austria; ma non bene possiamo ancora determinare quale parte spetti al Vignola, quale al suo concorrente Francesco Paciotti e quale ai tardi continuatori; ché l'edificio attuale, non finito, presenta singolari contrasti tra la magnificenza della corte e del teatro all'aperto ivi inserito e la povertà dell'esterno, simile più che altro a un moderno casamento a molti piani sovrapposti.
Frammentaria è l'opera del V. nella cancelleria e nel palazzo Farnese di Roma; modesta e affrettata in molte chiesette del Viterbese e del Lazio settentrionale, a S. Oreste, Mazzano, Capranica, nell'isola del lago di Bolsena: associata ad altri architetti nella chiesa del Gesù di Perugia e in S. Maria degli Angeli di Assisi (con G. Alessi) in S. Anna dei Palafrenieri di Roma (col figlio Giacinto), nel palazzo comunale di Velletri (con Giacomo nella Porta). Documentata è la sua paternità per la Castellina di Norcia (1554) e per la fontana della Rocca di Viterbo (1566); attribuita per raflronti stilistici quella della porta Faulle di Viterbo e della facciata di S. Maria dell'Orto (1566) in Roma; incerta o dubbia, malgrado le numerose asserzioni, quella dell'oratorio del Crocefisso e del palazzo Mattei in Piazza Paganica in Roma, del palazzo Tarugi in Montepulciano, del palazzo Della Cornia in t. astiglione del Lago.
L'ultimo grande lavoro del V., che ci dà la misura della grandissima fama da lui acquistata, fu il progetto della chiesa dell'Escoriale, immaginata come centro della gigantesca costruzione. Filippo ll fece richiedere, con una singolare forma di concorso disegni per l'edificio ai maggiori architetti italiani e li fece consegnare al V. perché ne traesse quanto v'era di meglio in un progetto definitivo, il che fu fatto. Ma la morte del maestro subito sopravvenuta e la perdita dei suoi disegni c'impedisce di sapere quanto ne sia rimasto nella chiesa eseguita, o quanto vi abbiano arrecato alterazioni emuli e continuatori.
Come per molti altri architetti del Cinquecento - Bramante, il Sangallo, B. Peruzzi, G. Alessi - la figura artistica del V. non si disegna in tutto schietta e unitaria; e alla discontinuità e alla molteplicità della produzione si aggiunge come causa d'incertezza quella del periodo di transizione che si andava attraversando. E così vediamo l'architettura vignolesca alternare la ricerca di novità nel giuoco delle grandi masse, specialmente con le ingegnose e nuove inserzioni della curva nei rigidi schemi parallelepipedi, con stereotipata applicazione degli ordinamenti e delle sagome, e la nobiltà e la chiarezza dei concetti dare il posto alla confusione e alla banalità quando il tempo, i mezzi, le intrusioni esteriori gl'impedivano di curare tutto l'enorme lavoro affidatogli.
Invece sul V. trattatista i concetti possono stabilirsi in modo direttamente sicuro.
Il trattato delle Due regole della prospettiva pratica, col definire il valore e la funziope dei punti di distanza, viene a completare le nozioni teoriche sulla prospettiva che avevano iniziato gli studî di Paolo Uccello, di Pier della Francesca, di Luca Pacioli (vedi prospettiva); e il disegno prospettico sarà così pronto per le grandi applicazioni seicentesche quali quelle del padre A. Pozzo.
Più importante è il significato della Regola delli cinque ordini d'architettura. Il Rinascimento con la sua fede nell'antico che intendeva imitare anche quando preparava opere originali e nuove, con la sua concezione essenzialmente estetica dell'architettura, in cui ricercava anzitutto la proporzione perfetta, il ritmo chiaro e sereno, doveva studiarsi di trarre dai monumenti classici non soltanto il sentimento, ma l'insegnamento f0rmale; e lo studio sugli oscuri libri di Vitruvio considerati come Bibbia architettonica si associò con la determinazione sperimentale tratta da misure e da rilieli, e ricercò ingegnosi adattamenti tra il testo e la realtà nei casi frequenti in cui non andavano d'accordo. Il V. è giunto ultimo dei commentatori di Vitruvio e appunto perciò ha potuto valersi della esperienza degli altri e ha potuto riassumere il lavoro di tutto un periodo ormai volto al termine; ma ha avuto il grande merito della semplicità e del buon senso. Ha lasciato da parte i discorsi filosofici e ha spogliato le regole di quanto poteva esservi di astruso e d'ingombrante, giungendo a pochi rapporti, chiari, sobrî e facilmente applicabili; ha consentito una certa libertà di applicazioni, ammettendo che secondo le condizioni prospettiche si possa "crescere o scemare delle proporzioni dei membri delli ornamenti"; e, ciò che più importa, non ha inteso vincolare la composizione, imponendo idee e motivi, ma si è limitato alle norme per l'elemento, alla grammatica che regge il periodo, alla metrica che dà un ritmo formale, ma non impedisce lo sviluppo dell'idea poetica. Queste condizioni di limite giusto e discreto hanno fatto la fortuna del trattato del V.; ma reciprocamente il trattato è stato la fortuna del periodo immediatamente successivo, cioè il periodo barocco, che lo ha assunto come libro di testo. Gli architetti del Seicento e del Settecento, fantasticamente liberi nella composizione architettonica e nell'associazione di linee e ornati, hanno tuttavia rispettato i profili e i moduli vignoleschi, che nello sbrigliamento rappresentarono una provvidenziale remora (v. ordini).
La prima edizione del trattato dei Cinque ordini è del 1562 (Regola delli cinque ordini di architettura di M. Jacomo Barozzio da V., Roma 1562; Le due regole della prospettiva di J. B. da V. coi commenti del p. Egnatio Danti, ivi 1583) e ad essa hanno seguito per tre secoli centinaia di edizioni in tutte le lingue, quasi ad accompagnare nel mondo la diffusione dell'architettura italiana. (V. tavv. LXXXI e LXXXII).
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