CA' ZORZI, Giacomo (Giacomo Noventa)
Nacque il 31 marzo 1898 da Antonio e da Emilia Ceresa a Noventa diPiave (Venezia); dal paese natale prese il più noto dei suoi pseudonimi (l'altro, Emilio Sarpi, fu quasi subito abbandonato), che aveva il duplice senso sia di fedeltà alla tradizione patriarcale della sua famiglia, di antica nobiltà veneta, sia di fiducia in una cultura alternativa rispetto a quella ufficiale contemporanea, per esprimer la quale scelse come mezzo quella "lengua mia" (Mi me son fato...,in Versi e Poesie. Edizione definitiva, Milano 1975, p. 82) che fu per lui il dialetto nativo. L'altro polo della sua formazione fu l'ambiente di Torino, dove compì gli studi universitari dopo gli anni passati sotto le armi (andò volontario nella guerra mondiale).
Si laureò con G. Solari in filosofia del diritto (con una tesi su "Ricerche sulla forma migliore di governo") sostenendo opinioni che gli saranno poi peculiari: quella che non si può configurare astrattamente una forma ottima di governo, prescindendo dall'effettiva convenienza dei cittadini, o anche - attraverso l'analisi della figura di Masaniello - che la dittatura del proletariato va intesa in senso aristocratico e spiritualistico. Entrò negli stessi anni in rapporto col gruppo di Gobetti, e strinse amicizie letterarie cui resterà sempre fedele (G. Debenedetti, M. Soldati). Anche il suo pensiero, si potrebbe dire la sua "passione" filosofica, quale si venne elaborando negli anni successivi, mantenne come termine di confronto-scontro necessario e ineliminabile la scuola torinese, come ha dimostrato A. Del Noce, fino a intuire un nodo teoretico che, anche mediante Gobetti, legava le filosofie di Croce e Gentile in una "quasi identità": e non gli fu estranea la lezione di Pareto.
Sul problema del superamento di questa linea di pensiero farà perno il suo maggior sforzo di riflessione degli anni successivi: benché oggi ricordato quasi esclusivamente come poeta, il C. ebbe invece come suoi primi e principali interessi proprio la filosofia e la politica, sulla quale credette anche, ma senza successo, di poter intervenire direttamente. Prima tuttavia di giungere ad una coerente elaborazione filosofica (pur espressa sempre in brillanti intuizioni frammentarie piuttosto che in un sistema organico), affrontò una serie di intense esperienze intellettuali. Dopo qualche mese nello studio di un penalista a Roma, unico suo tentativo di inserirsi nella vita pratica, aiutato dalla famiglia che gli toglieva ogni preoccupazione materiale, si dedicò per una decina d'anni ad un suo personalissimo programma di educazione permanente, con lunghi viaggi all'estero (Parigi, Saint-Jean-de-Maurienne, la Corsica, Grenoble; e poi la Germania, con semestri di studio a Heidelberg e Marburg, e infine la Spagna, nel '32-33), intervallati da massicce letture ("orge di libri", come le definì) e da stretti collegamenti con gli ambienti dei fuorusciti antifascisti, fra cui C. Rosselli. Conobbe personalmente Maritain; curiosamente, il lungo soggiorno in Germania non lo portò ad avvertibili influssi della filosofia tedesca contemporanea. Lesse invece con particolare passione, oltre a Croce, Gentile e Pareto, Blondel e Bergson, e anche Marx. L'amicizia con alcuni antifascisti, fra cui A. Garosci e C. Levi, lo stimolava da un lato alla composizione delle prime poesie (il C. preferiva recitarle agli amici piuttosto che scriverle, salvo poi continuare a limarle e rivederle oralmente), e dall'altro gli procurò fastidi col regime fascista. Durante uno dei frequenti ritorni in Italia, nel 1931, sposava a Torino un'antica compagna d'università, Franca Reynaud: fu lei che lo persuase a dettarle le sue poesie, che poi conservava in quaderni.
Nel '29 aveva pubblicato, su La Libra di Novara, un poemetto eroicomico in ottave, Il Castogallo, scritto in collaborazione con Soldati, ma fu attraverso la conoscenza con A. Carocci che la decisione di scrivere, come scopo di vita e mestiere, gli si impose. Dopo la pubblicazione su Solaria, la rivista di Carocci, di una noterella su un traduttore di Heine (1934), il C. si dedicò con furore alla stesura del suo primo libro, dall'ambizioso titolo Principio di una scienza nuova, di cui i primi capitoli appariranno su Solaria (1935), e le altre parti, insieme con altri scritti teorici, composti successivamente, e ad un gruppo di poesie veneziane (stampate però sotto lo pseudonimo di un Emilio Sarpi, "morto a Londra nel 1933"), su La Riforma letteraria. Scritta prevalentemente dallo stesso C., questa rivista, che egli diresse insieme con Carocci, durò tre anni (1936-39), e vi comparirono i temi più tipici della riflessione noventiana (pubblicati in parte dopo la guerra: Nulla di nuovo, Milano, 1960; I calzoni di Beethoven, Dialogo fra due letterati, ibid. 1965), già resi con quel gusto della provocazione anche stilistica che si esprimeva di preferenza in brillanti polemiche, in pointes acute e paradossali, che il concentrato nitore della forma rende definitive, come definitive erano già alcune poesie degli anni di Parigi, anche quando non ancora consegnate alla pagina scritta. Di fronte alla capacità di persuasione formale di certi aforismi (per citarne solo uno, non dei più noti: "noi saremo sempre, pur praticando un antisemitismo volgaro, volgarmente filosemiti"; I calzoni di Beethoven, p. 104),la cui elegante struttura retorica contiene in sé, come osserva Fortini, gli schemi di molte delle poesie, cade forse uno dei principali dilemmi della critica che, pur privilegiando nel C. il risultato della poesia, ha di volta in volta sottolineato o negato il complesso rapporto che la unisce alla prosa, di cui appunto è discussa la validità.
Si può tentare una sintesi - e contemporaneamente un progresso - nella comprensione della sua opera in prosa, riconoscendo l'intelligenza folgorante di molte sue intuizioni, il loro configurarsi nella sua fantasia per immagini "definitive" che, fissate una volta, tali si ripetono anche a distanza di molti anni. Così si ripetono le citazioni dei suoi autori preferiti, come Maritain: tipico infatti del C. non è il citare le affermazioni di un filosofo che di volta in volta vengano a sostegno della sua tesi, ma il partire sempre da poche citazioni privilegiate, evidentemente anche per il loro valore di evocazione letteraria, atte a coagulare la sua riflessione nel confronti di alcuni favoriti bersagli polemici. Perché il C. è prima di tutto un polemista, e ha bisogno, da vero scrittore, di concreti bersagli sui quali rifinire le sue intuizioni e misurare i suoi strali: personaggi riconoscibili, spesso amici, da Soldati a Debenedetti, non astrazioni ideologiche.
Da questo bisogno del bersaglio (0 dell'occasione) nascono insieme la frammentarietà e la straordinaria continuità tematica: in altre parole, l'iterazione ossessiva degli stessi temi nella stessa forma. I più tipici, comunque, già chiaramente precisati negli anni della Riforma letteraria (termine non scelto a caso, nel suo richiamo a un cattolicesimo di timbro intransigente e - "protestante"), sono: il tema della "quasi identità" delle filosofie di Croce e di Gentile, premessa alla successiva, ribadita affermazione della sostanziale identità di fascismo e antifascismo; il tema della responsabilità della cultura, legato all'affermazione che la letteratura italiana è dominata da una "casta letteraria" tutta tesa all'autoconservazione e dimentica dei "valori" che ha provocato quel decisivo errore della cultura, non contro la cultura, che è il fascismo; e ancora, pur con qualche curiosa apertura, o meglio illusione politica verso il fascismo dell'impresa d'Etiopia, una ferma condanna della dittatura e uno sdegnoso distacco dalla poesia contemporanea italiana (da tener presente che sono gli anni del trionfo dell'ermetismo, e che la rivista esce a Firenze). Maestri per il C. sono Goethe e Heine, meschini epigoni del decadentismo Saba, Montale e Ungaretti, il "trio" tanto odiato, di fronte al quale si pone in posizione di fermissima antitesi, rivendicando un ruolo alternativo, sia nel proclamare l'esigenza di un ricupero di valori etici alla poesia, nella linea Carducci-D'Annunzio, sia nel porre le proprie poesie come esempio di questo cantare "altro", di impronta sintatticamente tradizionale ma appunto perciò - riteneva il C. - coraggiosa e profondamente innovatrice. Cardine della sua personalità sia di polemista sia di poeta è infatti la ferma convinzione di proporre un'alternativa ai tempi proprio per la negazione dell'idea di progresso, che comporta la tendenza ad assorbire le categorie di "vero" e di "falso" in quelle di "progressivo" e "reazionario e tendenza che, secondo il C. risale al De Sanctis, ma che giusto. nella letteratura italiana trova smentita nella presenza, agli inizi, di un Dante. Infine, importante e mai negata, l'affermazione della necessità di un ritorno al cattolicesimo, di impronta maritainiana ma con precisi richiami a J. de Maistre e a Gioberti.
La Riforma letteraria morì nel 1939, mentre al C., dopo un breve arresto, veniva interdetto dal regime di abitare in città sedi universitarie, per l'opera di corruzione svolta sui giovani (fra gli amici di quegli anni, G. Pampaloni, F. Fortini, G. Spini, A. Nomellini). Richiamato alle armi e poi presto congedato, dopo l'8 settembre si rifugiò a Roma, dove frequentò l'ambiente dei politici. Preso dal sogno di riuscire ad esercitare un peso politico, andò invece, incontro a una serie di insuccessi, dovuti sia alla contraddittorietà di certe pur vivaci prese di posizione, sia a una sua oggettiva cecità nell'esame del momento storico, per cui poteva apparire insieme cattolico e socialista, conservatore e rivoluzionario, così come, in poesia, classicista (nei contenuti) e moderno (nel peculiare, innovativo uso del dialetto). Fondò e diresse a Venezia La Gazzetta del Nord (1946-47), sostenendo posizioni vicine al partito liberale; poi a Torino Il Socialista moderno (1949-50) e Il Giornale dei socialisti (1951), appoggiando il movimento di unificazione dei partiti socialisti. Collaborò anche a Mondo nuovo di C, Bonfantini e a L'Italia socialista di Garosci, sempre propugnando tesi intelligenti e paradossali, come quella forma di cattolicesimo anticlericale e socialista, ma anche patriottico, in un ambito, di fratellanza universale, certo non adatto a raccogliere consensi nel clima politico del dopoguerra. La candidatura al Parlamento (nel 1953, con la lista di Unità popolare di Calamandrei e Codignola) fu ovviamente un insuccesso, e i suoi rapporti con i capi storici del socialismo italiano si deteriorarono. La mordente polemica del C., come si vede dagli articoli di quegli anni, in piccola parte poi raccolti in volume (C'era una volta, Milano 1966; Caffè Greco, Firenze 1969; Hyde Park...,Milano 1972), non risparmiava nessuno.
Stanco, nel 1954 si ritirò dalla politica attiva e acconsentì alla pubblicazione delle poesie (Versi e Poesie, Milano 1956, con pref. di G. Pampaloni). Il successo incontrato, il premio Viareggio subito ottenuto lo fecero conoscere al grande pubblico, ma come poeta (la seconda ediz. accresciuta, con pref. di A. Garosci, è del 1960), mentre la parte saggistica e filosofica della sua opera, stampata negli anni successivi, restò senz'altro in ombra. Pur sentendosi vecchio, e dubbioso perfino delle sue certezze teoriche, scrisse, prendendo lo spunto da un episodio di quegli anni, un raffinato pamphlet in forma di dialogo fra M. Soldati ed Emilio Sarpi (il suo alter ego, cui aveva affidato la paternità delle prime poesie), Il Vescovo di Prato (Milano 1958), cogliendo l'occasione per riaffermare il suo cattolicesimo, ancora una volta però con sottile causticità anticonformista. Scrisse anche una commedia, La Fiala (edita postuma, in La Situazione [Udine], 1961, nn. 18-19), e si dedicò, ormai malato, alla stesura di una serie di lettere ad amici e avversari, rimaste incompiute per la morte, sopravvenuta a Milano il 4 luglio 1960.
Pubblicate postume (Storia di unaeresia, Milano 1971), insieme con alcuni significativi articoli dei primi anni del dopoguerra, esse offrono un quadro interessante, nell'apparente discontinuità, della capacità del C. di ribadire un'opinione attraverso sfaccettature diverse, di bilanciare la polemica più sferzante sulle idee con la più signorile cortesia verso l'uomo, di riuscire infine tanto più brillante e persuasivo quanto meno è costretto in una struttura realmente filosofica. Proprio la forma epistolare è quella che forse meglio si addice a un procedere di pensiero che passa di aforisma in paradosso, spesso dimenticando i pur necessari collegamenti razionali, e che persuade soprattutto attraverso l'improvvisa intuizione.
Le lettere vertevano sul ruolo della poesia, e il C. sostiene che bisogna reintrodurre nel concetto di poesia la filosofia e la politica. Questa è forse una chiave per capire anche il C. poeta. Si è discusso a lungo sulla validità della sua poesia, forse seguendo troppo la falsariga della sua polemica, come se apprezzarlo significasse svalutare gli ermetici, o se, per apprezzarlo, fosse necessario dimenticare le sue posizioni di pensiero. Nel C. "politica e morale si fondono in un intransigente assolutistico anelito di poesia" (Pampaloni, Introd. a CaffèGreco). Sono ritornate attuali molte esigenze profonde su cui aveva innervato la sua lirica. Prima di tutto, la leggibilità del linguaggio e la cantabilità dei ritmi: lungi dall'apparire, come ad alcuni dei primi critici, un elemento di tradizionalismo veneto, quale ci si poteva aspettare da un gentiluomo di antico stampo, tali cadenze si leggono oggi, come d'altronde voleva il C., nel senso che è una cultura sotterranea, autenticamente popolare anche nella sua componente impegnata e gnomica, sentenziosa e proverbiale, a ottenere finalmente la parola. E l'uso del dialetto (poche essendo e di scarso valore le poesie in lingua) va inteso come una autonoma creazione linguistica sulla base della lingua "madre", non certo come naturalistico calco di un dialetto veneto.
La lingua dei C. è infatti un veneto "speciale", ricreazione memoriale e reinvenzione di una forma di comunicazione astorica, che deve essere compresa da tutti (di qui la tematica, anche recentemente riesaminata, del "vecio" e del "putèl"). La creatività linguistica appare in lui più attenuata che in altri poeti veneti contemporanei, ma così sottilmente insinuante nella sua scorrevolezza, da dare alle sue affermazioni "positive", proprio perché espresse in una lingua che comunque è morta o morente, una luce di ambiguità e di consapevole nostalgia tutta particolare e affatto moderna.
Per quanto riguarda la metrica, la quartina prevalentemente usata è di settecentesca cantabilità, le rime facili: ma più che da fedeltà alla tradizione, questa scelta appare determinata dalle leggi intrinseche dei dialetti, mezzi di comunicazione linguistica costruiti dall'uso quotidiano e concreto dei parlanti, che finiscono per interferire, semplificandoli, nel processi produttivi di ogni poeta non in lingua. Inoltre, c'era nel C. una programmatica volontà di essere comprensibile come i grandi del passato: ed è proprio il bizzarro contrasto con la lingua umile e il metro facile che rendono più avvertibile la profonda ironia e lo scetticismo con cui guarda al suo piccolo mondo ("No' più longo i rii, le serenadine"), per cui il costante richiamo ai "valori" si stempera in una disillusa rievocazione di un passato che nulla può richiamare in vita ("I morti gavéva, e el nome, un valor"; Frammento, in Versi e Poesie, p. 93).
Ma, nella verifica che molto spesso diventa disperazione, il poeta è tale se mantiene fede, nonostante tutto, a un impegno civile e morale, se continua a credere che il proprio ruolo conservi una funzione, un valore appunto, cui chi si sente chiamato non può sottrarsi ("sue no' xé che le prime falìve, / e po' i santi e l'eroe vignarà": El poeta, p. 55):valore consegnato dalla tradizione, destinato ad esprimere le passioni di tutti, dall'amore alla nostalgia del paese all'indignazione civile alla satira alla gnomica, senza preclusioni di contenuto, ma fronteggiando con la statura di uomo anche gli inevitabili ripiegamenti, i dubbi, le tentazioni decadenti ("Torno putèl. / Torno a no' capir: / No' me volto più indrìo": Parcossa tanto odio, p. 191). Nel panorama del Novecento, insomma, un personaggio indubbiamente appassionante, che offre molteplici spunti di riflessione.
Opere. Poesia: Versi e Poesie. Edizione definitiva, Milano 1975 (tutte le poesie, con un Riassunto cronologico di F. Noventa); prosa: Il Vescovo di Prato, Milano 1958; Ilgrande amore in "Uomini e no" di ElioVittorini e in altri uomini e libri, ibid. 1960; Nulladi nuovo, ibid. 1960; R.Guttuso, Gott mituns (con un discorso di G. Noventa), ibid. 1960; La Fiala, commedia in tre atti, in LaSituazione (Udine), 1961,n. 18-19(sono state pubblicate solamente le scene 1-4 del primo atto); I calzoni di Beethoven. Dialogofra due letterati, Milano 1965; Tre parolesulla Resistenza, ibid. 1965; C'era una volta, ibid. 1966; Caffè Greco, Firenze 1969; Storia di una eresia, Milano 1971; HydePark (L'unificazione socialista o L'innocenzadella cultura), ibid. 1972; Tre parole sullaResistenza, Firenze 1973(ristampa di Il Vescovo di Prato; Il grande amore; Gott mituns; Tre parole sulla Resistenza).
Bibl.: G. Pampaloni, Premessa a G. Noventa, Versi e Poesie, Milano 1956; F. Fortini, Le poesie ital. di questi anni, in Il Menabò, 1960, 2, pp.110 ss.; A. Garosci, Intr. a G. Noventa, Versie Poesie, Milano 1960; A. Bocellì, G.N., in Enc. Ital., App., III, Roma 1961, p. 275; Omaggio aN., in La Situaz. (Udine), 1961, nn. 18-19: numero spec. dedicato al C., con gli indici delle sue attività giornalistiche, a cura di F. Fortini, e molti contributi critici; G. De Robertis, Versi ePoesie, in Altro Novecento, Firenze 1962, pp. 340-43; M. Forti, N. e la poesia contemp., in Le proposte della poesia, Milano 1963, pp. 193-98; G. Pozzi, G.N., in La poesia ital. del Novecento, Torino 1965, pp. 304-06, 355-62; A. Garosci, Introd. a G. Noventa, I calzoni di Beethoven. Dialogo fra due letterati, Milano 1965; A. Zanzotto, N. tra i "moderni", in Comunità, XIX(1965), 130, pp. 74-79; V. Scheiwiller, Nota dell'edit.,posposta a G. Noventa, C'era una volta, Milano 1966; G. Bassani, Un poeta mal conosciuto, in Le parole preparate, Torino 1966, pp. 115 s.; M. Dazzi, Il punto su G.N., in Lettere venete, VI-VII(1966-67), 22-25, pp. 5-10; G. Pampaloni, G.N.,in I Contemporanei, III,Milano 1969, pp. 281-98; Id., Introd. a G. Noventa, Caffè Greco, a c. di F. Noventa, Firenze 1969; R. Quadrelli, Lalezione di G. N., saggio preposto a G. Noventa, Storia di una eresia, Milano 1971; A. Del Noce, Il ripensamento della storia ital. in G.N., saggio preposto a G. Noventa, Tre parole sulla Resistenza, Firenze 1973 (ora in Il suicidio dellarivoluzione, Milano 1978, pp. 19-120); F. Fortini, N. politico, in Saggiitaliani, Bari 1974, pp. 284-89; G. Debenedetti, N., in Poesia italiana del Novecento. Quaderni inediti, Milano 1974, pp. 187-209; S. Ramat, in Storia dellapoesia italiana del Novecento, Milano 1976, pp. 547 s., 612; C. Della Corte, Lezione di stile, in Il Gazzettino, 19 giugno 1977; F. Fortini, G.N.,in I poeti del Novecento, Bari 1977, pp. 122-29; P. Baldan, La noventiana nozione di "vecio", in Medioevo e Rinascimento veneto conaltri studi in onore di L. Lazzarini, Padova 1978, II, pp. 370-384.