CAPECE GALEOTA, Giacomo
Nacque a Napoli il 7 dic. 1617. Di famiglia nobile iscritta al sedile di Capua, era figlio secondogenito del ministro e giuspubblicista Fabio duca della Regina. Avviato in ancor giovane età agli studi giuridici ed all'esercizio del foro, egli ottenne ben presto un successo e un prestigio pari a quelli del padre. La sua carriera nella magistratura ha inizio verso il 1640 con il conferimento della toga di giudice. Nel 1644 è creato presidente della Regia camera della Sommaria; nell'anno seguente è in Puglia assieme al padre in qualità di sovrintendente agli affari generali della dogana. Alla morte di Fabio (1645), dopo otto mesi di permanenza in Puglia, il C. ritorna a Napoli e riprende l'esercizio della magistratura come delegato alla revisione dei conti della città nel Tribunale di S. Lorenzo. Nel 1647 è designato vicecancelliere del Collegio dei dottori nello Studio napoletano. Al culmine del suo cursus honorum, verso il 1662, fu nominato da Filippo IV reggente del Supremo Consiglio d'Italia, dove ebbe modo, secondo la testimonianza di un contemporaneo, il Toppi, di dimostrare la sua erudizione in materia giuridica, l'equilibrio e il fedele regalismo nella pratica istituzionale. In questi anni ottenne anche la carica di reggente della Cancelleria di Napoli. Nell'aprile del 1679 Danese Casati, visitatore generale del Regno, recatosi nella capitale per esaminare la condotta tenuta dai ministri e dai magistrati nella conduzione delle cause, riscontra delle irregolarità nella pratica giudiziaria del C., lo esonera dalla carica di cancelliere e lo allontana da Napoli, condannandolo all'esilio a Gaeta.
La storia economica e finanziaria del C. ha un'evoluzione parallela alla sua storia professionale. Per particolari servizi resi alla corona, nel 1663 il re aveva riconosciuto al C. una pensione annua di 600 ducati e nel 1664 gli concesse il titolo ducale sul feudo di Sant'Angelo a Fasanello, che a suo tempo il padre Fabio, con i proventi della sua professione, gli aveva comprato. Il feudo di Sant'Angelo era situato nel Principato Citra a circa 32 chilometri da Salerno: pur non disponendo di un terreno particolarmente fertile, produceva annualmente notevoli quantità di olio di ottima qualità. La proprietà terriera, le fortune accumulate al vertice di una brillante carriera prima nel foro poi nell'apparato burocratico del Regno, permisero al C. di acquistare il sontuoso palazzo già di Antonio Beccadelli detto il Panormita, e di stabilirvi la sua residenza.
Morì a Napoli, dove aveva ottenuto licenza di tornare dopo circa un anno di esilio, il 16 giugno 1680. Fu sepolto con il padre nella cappella di famiglia nel duomo.
Il C. ha lasciato due scritti che per i contenuti ed il metodo di trattazione della materia sono del tutto omogenei alla vasta letteratura giuridica sviluppatasi nel Regno fin dalla prima metà del Seicento. La prima opera, pubblicata a Napoli nel 1638, direttamente legata alla esperienza forense del giovane C., è un trattato De resolutione et extinctione renunciationis,dote recepta,masculorum contemplatione eis quandocumque deficientibus; la seconda, manoscritta, che è stata segnalata dal Giustiniani, consiste in un Discorso circa il modo di procedere nelle cause concernenti al S. Officio; e che autorità tenga l'Inquisitore nel Regno di Napoli. Il C.curò anche la raccolta dei manoscritti di alcuni giuristi napoletani vissuti tra la fine del sec. XVI e i primi decenni del sec. XVII, come Giovanni Francesco De Ponte e Giovanni Antonio Lanario, dei quali vennero diffuse soprattutto le opere di carattere giurisdizionale. Come si può osservare dai titoli delle opere del C., la sua produzione, sebbene limitata, è testimonianza di una visione culturale affatto peculiare alla realtà storica mendionale del sec. XVII.
Gli scritti del C. hanno la loro genesi ed esauriscono il loro destino direttamente e senza mediazioni o suggestioni teoriche nella esperienza tecnica e amministrativa all'interno degli uffici del Regno, nel contatto giornaliero con le controversie di natura giurisdizionale, con le lotte di interessi tra diversi ceti sociali, con la formazione e lo sviluppo di nuove istituzioni. È dunque quella del C. una cultura eminentemente empirica la quale più che essere analizzata nei suoi intrinseci contenuti e nell'intricata rete della sua casistica, va letta in profondità per farne emergere gli elementi politico-sociali di cui è espressione. È per questo che la vicenda del C. è tutta racchiusa nella biografia sua ed in quella della sua famiglia e soprattutto nella pratica del ceto degli officiales di cui egli sembra essere un esemplare rappresentante.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Regia Camera Consultationum,1643-1644, vol. 47; Ibid., Collaterale Off. S. M., vol. 26, f. 54; Ibid., Arch. L. Serra Di Gerace, Invent. Indice degli Atti parrocchiali, III, parrocchia di S. Maria della Rotonda; N. Toppi, De origine omnium tribunalium, Neapoli 1659, II, p. 353; F. D'Andrea, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento, a cura di N. Cortese, Napoli 1923, p. 242; F. De Fortis, Governo politico del giureconsulto, Napoli 1755, p. 68; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli 1787, I, pp. 182 s.; Id., Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, VIII, Napoli 1804, pp. 284-287; B. Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali, Napoli 1875, III, p. 107; N. Cortese, L'età spagnola, in Storia dell'università di Napoli, Napoli 1924, p. 360; G.Coniglio, Il viceregno di Napoli nel sec. XVII, Roma 1955, p. 188.