CAVALLI, Giacomo (Iacobus a Caballis; Iacobus ab Equis; Iacomo dai Chavagli; Giacomo delli Caugi)
Nacque presumibilmente a Verona - dove la sua famiglia risulta residente già nel sec. XII - tra il primo e il secondo quarto del sec. XIV. Figlio di Federico, capitano generale di Alberto e Mastino Della Scala, podestà di Vicenza e Padova e governatore del castello delle Saline nel 1336, e fratello di Niccolò che fu podestà di Vicenza per oltre dodici anni, seguendo la tradizione di famiglia entrò, ancora molto giovane, al servizio degli Scaligeri meritandosi la stima e la fiducia di Cansignorio Della Scala che lo investì di delicati incarichi militari e politici. La prima testimonianza di questo rapporto di dipendenza si ebbe nell'aprile del 1362 a Ferrara, dove il C. partecipò come procuratore e nunzio speciale di Cansignorio alla formazione della quinta lega antiviscontea. Il mese successivo la lega, che vedeva schierati contro Bernabò, oltre agli Scaligeri, il legato pontificio Egidio d'Albornoz, Francesco il Vecchio da Carrara e Niccolò d'Este, concesse al C., che nonostante la giovane età godeva già fama di condottiero, il comando delle operazioni militari.
Nell'agosto del 1362 il C. invase il territorio bresciano e dopo aver facilmente conquistato i castelli di Pozzolengo, Gavardo, Gardone, Ponte Vico e altre terre delle valli che gli si dettero senza molto combattere, allettate dalla possibilità di liberarsi del giogo visconteo, attaccò Brescia. Ma la conquista della città, che alcuni esponenti del partito guelfo, nemici di Bernabò, avevano promesso a Cansignorio, non fu attuabile; il Visconti, fulmineamente sopraggiunto in difesa dell'importante roccaforte, costrinse infatti il C. ad arretrare dalle posizioni conquistate, mentre una pestilenza successivamente scoppiata nell'esercito appena riorganizzato lo obbligò a levare il campo offrendo a Bernabò la possibilità di recuperare tutto il territorio bresciano. Pochi anni dopo, nel 1368, mutate le posizioni delle potenze, ritroviamo il C. impegnato, con l'aiuto di quelle stesse genti milanesi che aveva poco prima combattuto, nella difesa di Ostiglia, terra tradizionalmente sottoposta, seppur con alterne vicende, al dominio scaligero.
La città, che per la sua fortunata posizione geografica aveva suscitato le invidie di Estensi e Gonzaga, era divenuta anche un essenziale punto strategico per chi, come l'imperatore Carlo IV di Lussemburgo, si apprestasse a scendere in Italia. Proprio il formarsi di questa nuova alleanza tra l'imperatore, papa Urbano V, gli Estensi e i Gonzaga aveva provocato l'accordo tra Cansignorio, danneggiato nei suoi dominii, e Bernabò, disturbato nelle sue volontà assolutistiche. Nell'attesa dell'imperatore, che aveva promesso di iniziare la spedizione nel marzo di quell'anno, i confederati avevano dato inizio ai preparativi per la guerra: Mantova, la più esposta a possibili attacchi, aveva fortificato tutto il suo territorio scavando trincee a Curtatone e schierando battelli sul Po, con l'aiuto degli Estensi, per prevenire eventuali attacchi.
Nonostante il potente apparato i primi risultati della guerra non furono, però, favorevoli alla lega; agli inizi di aprile il Visconti e il Della Scala invasero il Serraglio mantovano; poi, mentre Bernabò avanzava verso Curtatone, Cansignorio attraversava il Mincio trovando resistenza solo nelle fortezze di Governolo e Borgoforte dove il C. rimase ferito ad una coscia. Frattanto, mentre i collegati incitavano i Gonzaga a resistere, l'imperatore Carlo IV, partito da Praga il 2 aprile, si avvicinava ai confini. Perché la discesa potesse avere i suoi effetti era però necessario che Ostiglia, punto di passaggio obbligato, cadesse nelle mani dei confederati. Gli Scaligeri e i Visconti unirono i loro sforzi perché ciò non si verificasse; così, mentre i Milanesi si ponevano alla guardia del fosso che era stato scavato per impedire il passaggio agli armati, i Veronesi, al comando del C., si apprestavano a difendere la città, che avevano fornito di vettovaglie e soldati. L'urto non si fece attendere, ma, mentre le genti del Visconti non ressero all'attacco e abbandonarono le posizioni, il C. e i suoi uomini resistettero ad ogni tentativo e obbligarono i confederati a desistere dall'impresa decretando, così, il fallimento della spedizione di Carlo IV.
L'aver felicemente contrastato l'effimero progetto dell'imperatore volle dire, però, per Cansignorio, essersi liberato solamente di uno dei tanti tentativi di penetrazione che le potenze confinanti reciprocamente attuavano al fine di allargare i propri possessi. Fu appunto per sventare l'ennesimo tra questi tentativi che il 6 luglio 1373 il C. fu inviato segretamente a Marostica, che Francesco il Vecchio da Carrara aveva cercato di far ribellare con la complicità del capitano del castello e l'aiuto di tal Montenario di Breganze, bandito vicentino. Il C., penetrato nascostamente nella rocca che proprio Cansignorio aveva fortificato cingendola di solide mura, assalì il ribelle e, nonostante la strenua difesa, lo vinse e l'uccise. I suoi compagni, fatti prigionieri, furono condotti a Vicenza, sottoposti a tortura e successivamente impiccati sulla piazza della stessa Marostica, Il rapporto di alleanza così assoluto e completo che aveva fin qui legato il C. agli Scaligeri e che si era arricchito di risvolti personali con il matrimonio, benvisto e quasi favorito da Cansignorio, tra lo stesso C. e Costanza Della Scala, si ruppe improvvisamente alla morte di Cansignorio (18 ott. 1375).
Le cause di questa rottura non sono note; si può credere, però, con buona probabilità, che il C. in virtù della sua personale posizione avesse sperato di essere prescelto come tutore dei figli naturali di Cansignorio, Antonio e Bartolomeo, destinati a succedergli, e che, perciò, l'esclusione dall'incarico abbia provocato un primo incrinamento nei rapporti con gli Scaligeri giunti poi a completa frattura per il riprovevole comportamento di Antonio. Quello che è certo è che, morto Cansignorio, i rapporti tra il C. e gli Scaligeri ebbero un brusco e completo rovesciamento.
Dopo una breve e poco documentata permanenza al servizio di Galeotto Malatesta, nel 1376 il C. era al soldo di Venezia, preoccupata in quei giorni della politica espansionistica di Leopoldo d'Austria, che cercava di infiltrarsi nella Terraferma veneziana. Il 14 maggio il duca era già alle porte di Vicenza; il giorno successivo, scendendo attraverso le chiuse di Quero, occupava tutto il territorio di Treviso che abbandonava il 4 giugno, devastato e incendiato, per dirigersi a Feltre. La situazione veneziana, nonostante un temporaneo recupero della bastia e della rocca di Quero, era più che compromessa e necessitava di una mano salda e sperimentata. Fu in queste circostanze che il 16 giugno il Maggior Consiglio della Repubblica veneta nominò il C. capitano generale dell'esercito di Venezia, "quia non dubitamus quod persona sua erit multum utilis et dextra factis nostris". Accettato l'incarico che gli offriva, oltre alle più ampie possibilità di "equitare, disponere et ordinare" le genti veneziane, uno stipendio di 700 ducati d'oro al mese, il 18 giugno il C. giunse a Treviso preceduto dagli inviti a trattarlo "honorifice, dulciter et benigne" rivolti dal Senato veneto al comandante di quella città.
Iniziò così una collaborazione che fu duratura e si concluse vantaggiosamente per ambedue le parti; se è vero, infatti che, il C. raggiunse posizioni di vertice e fu addirittura inserito nell'elenco della nobiltà veneziana, è anche vero che le ricompense accordategli furono la puntuale conseguenza di servigi resi con eccezionali capacità, abbondantemente testimoniate dai risultati di tante azioni belliche, e con quella fedeltà che aveva del resto caratterizzato, almeno fino all'avvento di Antonio e Bartolomeo, anche la sua permanenza al servizio degli Scaligeri e gli era valsa il titolo di "ottimo servitore".
Non appena assunto il nuovo incarico il C., riordinato l'esercito ed approntate le necessarie macchine da guerra tra cui le ancora poco conosciute bombarde, dopo dieci giorni di sosta a Treviso, partì alla riconquista della rocca di Quero e delle due bastie di Cornella e Moschetta che il duca d'Austria aveva costruito nelle vicinanze. Con l'aiuto di elementi locali, in poco tempo ebbe ragione delle fortificazioni, compresa l'importante chiusa di San Vittore presso Feltre che gli si rese a patti dopo breve ma decisivo assedio. Passò quindi all'attacco della città stringendola in una morsa che l'avrebbe portata alla resa per mancanza di acqua e aiuti esterni, il cui passaggio era impedito dalla fortezza di Castelnuovo che il C. aveva appositamente costruito sul canale di Quero.
I successi riportati, costanti e di non poco peso militare e politico, accrebbero la fama del C. e la fiducia accordatagli dal Senato veneto che, pur continuando a impartire direttive precise, tuttavia lasciava al suo generale ampia discrezionalità d'azione assicurandogli tutti i mezzi, umani, militari ed economici, di cui avesse bisogno "ad procurandum nostrum honorem et damnum inimicorum. nostrorum". A liberarlo da pesi eccessivi gli veniva inoltre assicurato che Pietro Gradenigo avrebbe vigilato in sua assenza sulle posizioni conquistate, mentre Mattia Ungaro avrebbe difeso Conegliano e le terre lasciate sguarnite dalla sua partenza.
Le sorti del conflitto sembravano ormai chiaramente volgersi a favore delle armi di Venezia, quando l'approssimarsi del duca d'Austria e, soprattutto, il delinearsi di una possibile tregua che avrebbe momentaneamente interrotto le ostilità senza ulteriore spargimento di sangue e senza altri salassi per le finanze della Repubblica indussero il Senato veneto ad ordinare al C. di ritirare le truppe da Feltre.
Nell'ottobre dello stesso 1376 il C. per ordine della Serenissima inviò truppe in soccorso della torre di San Boldo, importante passo appena conquistato dai Veneziani. Ma la torre, il cui possesso permetteva l'ingresso ad una vasta zona del Bellunese, era postazione troppo fondamentale perché gli Austriaci non provvedessero a riconquistarla con grande spiegamento di forze; così avvenne che "in efetto ebbe il pegio quilli de Venexia che di loro fu molti prexi, entro i quali fu uno figliuollo di misser Iacomo dei Chavagli e uno suo nevode" (Gatari, p. 144).
L'attaccamento del C. e dei suoi familiari alla causa veneziana - un suo fratello era morto al servizio della Repubblica - gli meritò larghe ricompense; Venezia gli decretò, infatti, un premio di 1.000 ducati d'oro e una pensione vitalizia di 500 ducati l'anno. Ma mentre si cementavano i rapporti tra il C. e i Veneziani, contemporaneamente si deterioravano sempre più quelli con gli Scaligeri che, nell'estate del 1376, forse per vendicarsi dell'antico abbandono, avevano tentato di assassinare il C., impegnato nell'assedio di Feltre. Il tentativo non riuscì e i quattro sicari assoldati dal podestà di Vicenza, Giorgio da Calavena, uomo di paglia dei fratelli Della Scala, furono giudicati severamente dalla giustizia veneta. Conseguenza di tale avvenimento fu il provvedimento di bando da Verona che colpì il C. nel 1378 e il successivo atteggiamento da questo assunto nell'ambito del conflitto che in quell'anno impegnò Scaligeri e Visconti.Nell'aprile del 1378, infatti, Bernabò Visconti, spinto dalla moglie Regina Della Scala, sorella di Cansignorio, invase il territorio veronese opponendo i diritti suoi e della consorte alle pretese degli illegittimi Antonio e Bartolomeo. Mentre i Veronesi cercavano alleanze, il C., "ingratissimus tantarum sublimitatum dignitatumque susceptarum" - dice il cronista vicentino Conforto da Costoza, p. 15 -,univa le sue forze alla potente compagnia di Giovanni Acuto e Lucio di Landau che appoggiava Bernabò e, varcato l'Adige, saccheggiava Caldiero, Villanova e Lonigo. Ma l'impresa, che pur poteva contare su così numerosa armata e sullo spirito di ritorsione del C., non si concluse militarmente.
Il 26 febbr. 1379 le parti in causa stipulavano, infatti, con la mediazione di Amedeo VI di Savoia, un trattato di pace che accontentava entrambi e costituiva anche per il C. una vittoria, non solo morale, capace di ricompensarlo del mancato successo sul campo. Il trattato stabiliva, infatti, specificatamente, che gli Scaligeri restituissero a lui e agli altri banditi "bona quae ad eos pertinebant de iure quovis modo, quae fuerunt ipsis occupata per dominos Veronae... et quod ab omni bannimento sint remoti et quod processus facti contra eos cancelletur..." (Du Mont, II, 1, p. 130).
Messe così definitivamente a tacere le questioni con gli Scaligeri, il C. riprese la sua milizia al servizio di Venezia il cui conflitto con Genova, allargatosi fino a interessare tutte le massime potenze europee, era entrato in una fase decisiva. Perdute Zara e Pola, la stessa Chioggia, ultimo baluardo prima di Venezia, nell'agosto 1379 era caduta sotto i colpi delle armate genovesi al comando di Pietro Doria. Com'era prevedibile proprio da Chioggia, divenuta la più avanzata testa di ponte nemica in terra veneta, partirono le galere genovesi alla conquista di Venezia attaccata, contemporaneamente, da terra dalle truppe carraresi. L'estrema decisione dei cittadini veneziani e le difese approntate rintuzzarono il primo attacco; le genti venete che al comando del C. difendevano il lido di San Nicolò si opposero, infatti, vittoriosamente alle armate di Ambrogio Doria, costretto a ritornare verso Chioggia, per evitare di essere sorpreso allo scoperto dal calar della notte. Era chiaro però, nonostante il momentaneo successo e gli opportuni provvedimenti difensivi della Repubblica che aveva ordinato al C. di spianare la bastia di Malamocco e di ridurre, tutto il legname, le bombarde e le altre armi a protezione del porto, che condizione assolutamente necessaria per il buon proseguimento della guerra era la riconquista di Chioggia. Fu perciò prontamente accettata dal capitano Vittor Pisani e dal doge Andrea Contarini la proposta in tal senso del C. e nel dicembre più di 400 navigli tra grandi e piccoli partirono da San Nicolò del Lido alla volta di Chioggia. La guerra nelle acque della laguna veneta fu dura e incerta e permise al capitano generale delle genti venete di mettere in luce il suo ingegno e le sue determinanti virtù militari. Fu del C., infatti, la vittoria che dette l'avvio a tutta la serie di brillanti azioni veneziane che portarono alla positiva risoluzione del conflitto.
Grazie al suo tempestivo intervento si evitò infatti che, nel febbraio 1380, l'importante postazione strategica di Brondolo, che permetteva il controllo sul porto di Chioggia a cui era collegata con un ponte, passasse in mano nemica compromettendo così seriamente l'esito finale della guerra. Frattanto, chiusi i passi verso Chioggia mediante l'affondamento di alcune galere, il Doria e i Genovesi erano divenuti da assalitori assaliti senza nessuna possibilità di azione e con l'unica speranza di aiuti esterni. Era per Venezia l'inizio della vittoria, e questa non tardava a venire. Il 24 giugno 1380 i resti della flotta genovese, privi dei soccorsi sperati, che non avevano potuto oltrepassare il blocco veneziano, e stremati dalla mancanza di acqua e di cibo, si dettero al doge di Venezia che entrò in Chioggia con il gonfalone di S. Marco, mentre i circa 4.000 prigionieri genovesi venivano inviati a Venezia.
Neppure un mese dopo la ricostituita grande armata veneziana uscì nuovamente dal porto al comando del C. e di Vittor Pisani, iniziando un'operazione di sistematico recupero delle terre sottomesse dai Genovesi: Pola, Zara, Capodistria furono le vittoriose tappe di questa impresa e altrettanti momenti di gloria per il C., che legava così indissolubilmente il suo nome a Venezia e a quella guerra che si era trasformata da disastro incombente in esaltante vittoria. Alla metà di settembre sette galere che avevano partecipato alla campagna fecero ritorno a Venezia; con esse tornò anche il C., acclamato dal popolo e dalla Repubblica che il 1º dicembre lo creò gentiluomo della Signoria veneta, includendolo tra i membri del Maggior Consiglio per ricompensa alla "prudentia, strenuitate, studio, sollicitudine ac fidelitate" (Verci, p. 46 n. 1735) con cui aveva sempre servito la Repubblica. Pochi giorni dopo una ducale gli decretò l'annua pensione vitalizia di 1.000 ducati d'oro a partire dal 20 nov. 1379. È da credere che l'alto riconoscimento accordatogli non solo mutasse le direttive di vita del C. - forse anche per la non più giovane età non si ha notizia di successive partecipazioni a importanti imprese militari -,ma rinsaldasse ancor più i vincoli che lo legavano alla città che gli aveva dato onore e gloria.
A Venezia, ormai sua seconda patria, il C. passò gli ultimi anni della vita e qui morì nell'anno 1384. Fu sepolto in SS. Giovanni e Paolo, ove gli fu eretto, dieci anni dopo, un monumento sepolcrale ad opera di Paolo di Iacobello delle Masegne.
Fonti e Bibl.: J. Du Mont, Corps universeldiplomatique..., II, 1, Amsterdam 1726, pp. 128-134; Parisius de Cereta, Chronicon Veronense, in L. A. Muratori, Rer. Italic. Script.,VIII, Mediolani 1726, col. 656; A. de Redusis, Chronicon Tarvisinum, ibid., XIX, ibid. 1731, coll. 753, 754, 771; I libri commemor. della Repubblica di Venezia, a cura di R. Predelli, III, Venezia 1883, p. 145; C. Cipolla, Antiche cronache veronesi, in Mon. stor. ... R. Deput. veneta di st. patria, s. 3, II (1890), pp. 119, 230; Conforto da Costoza, Frammenti di storia vicentina, in Rer. Italic. Script.,2 ed., XIII, 1, a cura di C. Steiner, ad Indicem;G. e B. Gatari, Cronaca carrarese, ibid., XVII, 1, a cura di A. Medin-G. Tolomei, ad Indicem;B. Platina, Liber de vita Christi ac omnium pontificum, ibid.,III, 1, a cura di G. Gaida, p. 286; Daniele di Chinazzo, Cronica de la guerra da Veniciani a Zenovesi, a cura di V. Lazzarini, in Monum. stor. ... Deput. di storia patria per le Venezie, n.s., XI (1958), ad Indicem;G. Bertondelli, Historia della città di Feltre, Venezia 1673, p. 94; G. Dalla Corte, Dell'Istoria della città di Verona, II, Venezia 1744, pp. 260-262; G. B. Verci, Storia della Marca Trevigiana e Veronese, XIII, Venezia 1789, pp. 88-92; XV, ibid. 1790, pp. 37-41, 46, 84, 106; P. Selvatico, Sulla architettura e sulla scultura in Venezia, Venezia 1847, p. 122; F. Odorici, Storie bresciane, VII, Brescia 1858, p. 192; F. Caffi, Della veneta patrizia famiglia Cavalli..., Padova 1859, pp. n. n.; A. Zanchi-Bertelli, Storia di Ostiglia, Mantova 1863, p. 55; L. A. Casati, La guerra di Chioggia e la pace di Torino, Firenze 1866, pp. 67, 73; F. Spagnolo, Mem. stor. di Marostica e del suo territorio, Vicenza 1868, p. 71; C. Cipolla, Iscriz. veronese del sec. XIV, in Arch. veneto, XIV (1877), p. 372; G. Pirchan, Italien und Kaiser Karl IV., I-II, Frag 1930, ad Indicem; C.Argegni, Condottieri, capitani, tribuni, I, Milano 1936, p. 163; E. Caiola, Ostiglia nella storia, Ostiglia 1951, pp. 46 s.; C. Cipolla, La storia polit. di Verona, Verona 1954, p. 194; D. Tinti, Memorie ostigliesi, Ostiglia 1970, p. 64; P. Litta, Le fam. celebri ital., sub voce Scaligeri di Verona, tav. II.