CIVRAN, Giacomo
Nato a Venezia da Andrea (1529-1560) di Alvise di Pietro e da Caterina di Antonio Barbaro il 14 genn. 1558, fu "zotto", zoppo, precisa la copia delle genealogie del Barbaro dell'Archivio di Venezia, quasi a motivarne col marchio della malformazione fisica la sciagurata esistenza che certo suonò scandalosa all'interno d'un patriziato quale quello veneziano solito vantare la probità e la dedizione allo Stato dei suoi membri.
Certo il C. appartenne al settore più povero dell'aristocrazia veneziana, escluso dalle cariche di maggior prestigio, intristito dal quotidiano spettacolo di opulenza offerto dalle principali famiglie della nobiltà più doviziosa, costretto all'arrembaggio di cariche minori per trarne qualche provento. Evanescente figura quella del padre che fu castellano ad Asola e poco individuabili quelle dei due fratelli: di questi Pietro racimola talvolta voti senza peraltro mai raggiungere un quorum adeguato, mentre Alvise (1553-1630) fu, nel 1578-1579, rettore a Mestre, dei venti "savi de respeto", della Quarantia civil vecchia, dei Dieci savi e signore di notte "al criminal".
Il C. - che si sposa il 4 giugno 1577 con Francesca di Lorenzo Pasqualigo, avendone una figlia, Angela (che andrà sposa, nel 1601, a Girolamo Bragadin di Dionigi), e due figli, entrambi chiamati Pietro (il primo, nato nel 1581, morirà prima della fanciullezza; il secondo, nato nel 1592, si farà cappuccino) - non pare abbia ricoperto altra carica che quella di "avvocato per le corti". Preferì, infatti, alle angustie d'una carriera politica che si profilava grama, abitare "quasi di continuo" in una sua "casa" a Castione Veronese. dove ben presto, malgrado reiterate "ammonitioni" dei rettori di Verona, è coinvolto in prevaricazioni e violenze.
Non contento di "dar ricapiti in casa sua... a' banditi et ad altre persone di mal far "infestanti" quel territorio et altri circonvicini", minaccia un testimone a carico di due "famosi banditi", i fratelli Falconi, e partecipa, il 30 ott. 1585, con quindici armati, ad un'azione intimidatoria, sfociata in tentativo d'omicidio, a danno di tal Francesco Migliorin per aver questi difeso il "comun" di Asarè, sempre nel Veronese, "in certa lite di campi 1500 in circa de' valli" dalle pretese di un compagno di malefatte del C., Giovanni Lanfranchi. Denunciato inoltre ai rettori di Verona dalla vedova Giacoma Gagliardi perché, dopo essere stato l'amante di sua figlia Maddalena ed averla licenziata, le aveva sottratto "con violentia" un'altra figlia, Libera, trattenendola "a sua requisition", il C., all'ingiunzione di restituirla alla madre, reagisce con inaudita protervia il 1º nov. 1585.
Quando si presenta, col "mandato" dei rettori di Verona, il "capitano di campagna" coi suoi uomini, il C., urlando e bestemmiando, spalleggiato dai suoi, alcuni dei quali mascherati, l'aggredisce. Nasce una zuffa nel corso della quale il "trombetta" della "compagnia" viene ferito, un altro suo membro viene ucciso. Costretto alla fuga, il capitano viene inseguito dal C. e dai suoi. i quali, non riuscendo a prenderlo, si sfogano rubando alla stessa compagnia una decina di cavalli nonché "tabarri et archibusi" che essa aveva a Pesina. E quindi, per sfuggire alla punizione, il C. coi complici si rende irreperibile, sì che a poco vale che i rettori di Verona inviino a catturarlo lo stesso capitano con un più nutrito numero d'armati.
Nella latitanza la posizione del C. s'aggrava, ché il 29 apr. 1587 il podestà di Cremona avvisa quello di Verona come egli, riparato a Caprino, sempre nel Veronese, abbia fatto recapitare a Francesco Cavalcabò, abitante a Spineda, nel Cremonese, tramite un suo servitore, Franceschino di Bernardi (peraltro sfuggito "per negligenza delli birri che lo custodivano") un "instromento di ferro da batter moneta falsa". Sdegnato il Consiglio dei dieci decreta, il 18 giugno, il bando perpetuo e la confisca dei beni del C.; qualora, poi, venga "preso" in terra veneta, sia decapitato "fra le due colonne di S. Marco". E viene fissata a 2.000 lire di "piccioli" la taglia da corrispondere "a chi quello prenderà dentro li confini".
Proclama di nessuna efficacia se, il 18 ott. 1601, i rettori di Verona, nell'avvisare il Consiglio dei dieci d'un'ulteriore malefatta del C., premettono che "in parte assai remota di questo territorio verso il monte Baldo", vale a dire a Castione, "s'è ridotto ad habitare" il C., "il qual, degenerando dalla nobiltà del proprio sangue", è "dedito alle sceleratezze", apre il proprio "domicilio" a "refugio e ricettacolo de' banditi siccarii cingani", zingari cioè, "e d'altri huomini di malfare". Col concorso di questi, "insidiando e depredando la robba la vita e l'honore a quei circonvicini, s'è fatto formidabile" al punto che gli "offesi" non osano "reclamare", né i "testimoni" s'azzardano a "deponer il vero". Segue la precisazione dell'ultima soperchieria del C.: uno dei suoi "seguaci", tal "don Thomaso che lo serviva per ascosto capellano con portar arcobusi d'ogni sorte", ha ammazzato, il 6 ottobre, con un'"archibugiata sparata da una finestra" il contadino Marco Dal Pra, in casa del cognato "a Garda", ov'era riparato per sfuggire alla vendetta del C., sdegnato che questi avesse osato redarguire un "ragaccio" alle sue dipendenze, il quale, peraltro, aveva trattato in mala maniera sua moglie "entrata a spigar ne'... campi" del Civran. Il C. - lamentano i rettori - è "tiranno" nella zona; per fortuna, anche se il terrore gela la lingua dei potenziali testi, la sorella dell'assassinato è "comparsa" a denunciare il delitto.
Il C. ha osato troppo, ha troppo contato sull'impunità. Ormai sia i rettori sia il Consiglio dei dieci sono decisi a por fine a tante "impietà... sceleragini... homicidii... latrocinii" da lui promossi. La dignità della Repubblica non può tollerare unacosì prolungata e sfrontata violazione della legge, tanto più che emergono altri delitti fatti commettere dal C.: l'assassinio di tal Giuseppe Montagna "d'Albicart" e quello della giovane sequestrata ancora nel 1585, quella Libera "già sua concubina". E si sa che, per di più, obbliga gli abitanti atterriti ad imprestargli denaro, che poi si guarda dal restituire. Una volta preso e incarcerato, le denuncie affiorano, si precisano: rotto il cerchio del terrore, quanti hanno subito soprusi parlano.
Non c'è più scampo pel C.: a nulla serve che il fratello Alvise, in una supplica del 3 genn. 1602 al Consiglio dei dieci, lamenti l'"infelice stato del povero" C., "il quale... carico di moglie et figliuoli, perseguitato dalla ria fortuna, si ritrova prigione in Verona per imputazione de homicidii" e accusi il podestà della città, Almorò Zane, d'esorbitanza dei "termini legali" nella "formation del processo". Questi, prima di ricorrere alla tortura, gli avrebbe consigliato di confessare, dal momento che i "correi" avevano ammesso tutto. Per cui il C., convinto si trattasse di "sententia" ormai immodificabile, avrebbe esclamato: "se son morto... io dirò che è vero", dilungandosi quindi ad accusarsi "di quello che era interrogato" e anche "di quello che non era adimandato". Ma, dopo un successivo appartato colloquio coll'avvocato, protesta d'essere stato ingannato e "giura" che la "confessione" gli è stata subdolamente strappata, proclamandosi "innocente". Donde la supplica del fratello che, "in causa così grave, dove si tratta della vita et honore di così povero et innocente gentilhuomo", il "caso" venga affidato ad "altro magistrato" meno prevenuto. Ma i Dieci sono irremovibili, per cui la decisione rimane allo Zane, il quale, assieme al capitano Francesco Priuli, scrive, il 7 febbraio, che, "lettosi il processo di nuovo tra noi con la corte di me podestà et quello maturamente considerato..., ci è parso, per termine di giustitia et di buon governo, di non poter venir ad altra sententia che di pena di morte".
Il C. perciò, reo di "homicidii insidiosi proditorii" e d'altri "detestandi delitti", fu strangolato in prigione "per convenienti rispetti", mentre "don Thomaso", dopo aver subita la "degradatione", venne impiccato "nella publica piazza" assieme ad altri due "satelliti et mandatarii" del Civran. Attenta la sceneggiatura della giustizia veneta: la pubblica esecuzione dei complici è volta all'ammonimento terroristico della popolazione; più opportuno, invece, strozzare di nascosto il C., perché membro di quell'aristocrazia che si proponeva ai sudditi non solo come detentrice del potere, ma, anche come esempio di virtù.
Fonti: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., Storia veneta 18: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, p. 348; Ibid., Avogaria di Comun, 53, c. 75v; 89, c. 73r; Ibid., Cons. dei Dieci Criminali, reg. 14, cc. 182r-183r; 15, cc, gr, 21; filze 22 (alla data 20 nov. 1585) e 24 (alle date 6 maggio e 18 giugno 1587); Ibid., Capi del Cons. dei Dieci. Lettere di rettori e altre cariche, busta 197, nn. 41, 43, 44, 46.