GIACOMO (Iacopo) da Lentini
Detto il Notaro per antonomasia, nacque a Lentini, nella Sicilia orientale (cfr. Poesie, ed. Antonelli, II, v. 63; XII, v. 54; Dubbie, 1, v. 24), probabilmente tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo.
La sua produzione poetica è di straordinario rilievo nell'ambito della letteratura delle Origini. Ebbe una formazione culturale di carattere giuridico, come attestano indirettamente anche i manoscritti poetici, che tramandano il suo nome nella forma Notaro Giacomo. È lecito supporre che G. abbia frequentato l'Università di Napoli fondata da Federico II di Svevia nel 1224, benché non vada trascurato il fatto che era possibile accedere al notariato nella corte federiciana anche senza aver compiuto studi universitari. Emerge comunque dalle rime una preparazione solida nel campo della retorica e delle arti liberali in genere, oltre ai più specifici interessi letterari. G. fu al servizio dell'imperatore svevo in qualità di notaio e scriba. Tale attività è testimoniata da alcuni documenti scritti di suo pugno, o da lui firmati, concentrati nel complesso in due soli anni, il 1233 e il 1240. Al marzo 1233 risale il primo privilegio imperiale di G., vergato a Policoro in Basilicata. Il secondo, di mano di G. benché privo della sua firma (Garufi), è datato Messina, giugno 1233. Nello stesso mese, ma a Catania, fu redatto il terzo, "per manus Iacobi de Lentino notarii et fidelis nostri scribi" (formula identica si legge nel documento di marzo, ma con la variante "Lintin"). Nello stesso anno, il 14 agosto, presso Castrogiovanni (oggi Enna) l'imperatore fece scrivere a G. ("Jacobus notarius") una lettera dai toni ossequiosi diretta a Gregorio IX, con la quale accettava la proposta papale di riconciliazione con le città lombarde. Dal momento che fu Pietro Della Vigna a recare all'imperatore la proposta di Gregorio IX e a dare ai cardinali la risposta di Federico II, si è ipotizzato (Garufi) che proprio a Castrogiovanni, nell'agosto 1233, G. e Pietro Della Vigna abbiano avuto particolare occasione di conoscersi e di rispondere alla questione sulla natura di amore posta dal falconiere imperiale Iacopo Mostacci, cioè a dar vita a una delle due tenzoni poetiche in sonetti cui G. partecipò. Forse Pietro Della Vigna, che tornò a Roma nello stesso anno, fu anche intermediario tra G. e l'"Abate di Tivoli", il corrispondente dell'altra tenzone lentiniana, identificabile con l'abate del monastero della Mentorella ("Abbas Tiburtinus"), oppure con un laico romano, di nome Gualtiero e soprannominato appunto Abate di Tivoli, che Innocenzo IV in un breve del 1250 riconosce come suo devoto (Monaci, p. 93). Questa tenzone potrebbe essersi svolta nel 1241, anno in cui Federico II fu a Tivoli. Antonelli la ritiene precedente all'altra, seppure di poco, perché Mostacci pare alludere a posizioni espresse dall'Abate (Poesie, p. 267). Le due tenzoni andrebbero dunque collocate negli anni 1241-42, tra gli ultimi episodi della carriera poetica di Giacomo. Nel complesso non si tratta che di ipotesi, il cui valore essenziale è quello di evidenziare la presenza di G. nella rete di relazioni poetiche intessuta dai funzionari - più o meno in vista - dell'itinerante corte federiciana. La quinta attestazione dell'attività notarile di G. è un privilegio imperiale scritto a Palermo nel settembre 1233. I cinque documenti nel complesso testimoniano che G. seguì Federico II in qualità di funzionario imperiale nel viaggio da Policoro a Palermo via Messina, Catania ed Enna da marzo a fine agosto 1233. L'imperatore e la sua corte continuarono il viaggio per Agrigento, Butera, Siracusa, arrivando a fine d'anno a Lentini. Pur in mancanza di altri documenti firmati o comunque di mano di G., è abbastanza probabile che egli abbia partecipato al proseguimento del viaggio terminato nella sua città natale. Allo stesso modo il vuoto documentale dei sette anni seguenti non è di per sé prova che G. fosse in quel periodo al servizio dell'imperatore. Alcuni versi della canzone "Ben m'è venuto cordoglienza" alludono probabilmente alla guerra del 1234 tra Firenze guelfa e Siena ghibellina con toni che testimoniano il devoto attaccamento dell'autore alla parte imperiale. Anche il sonetto "Angelica figura e comprobata" è allusivamente filoimperiale e risalirebbe, secondo Krauss (p. 142), al 1236. Roncaglia (1995) lo ha invece ingegnosamente interpretato come un omaggio cortigiano ad Adelasia, vedova giudicessa di Torres e di Gallura, che re Enzo, figlio di Federico II, sposò nel 1238, immaginando addirittura uno o due viaggi di G. in Sardegna nello stesso anno, al seguito delle ambascerie di preparazione alle nozze. Il nome di G. ricompare in due lettere imperiali del 1240: nella prima, spedita da Lucera il 3 aprile, "Jacobum de Lentino" è citato in qualità di inviato ("nuntium") del giustiziario della Sicilia nordorientale; dalla seconda, del 29 aprile, G. risulta invece comandante del forte di Carsiliato, presso Lentini. Infine il tabulario di S. Maria delle Moniali elenca "Iacobus de Lentino domini Imperatoris notarius" tra i testimoni di un atto del 5 maggio 1240. Il documento riporta la firma autografa di G., ed è dalla sua grafia che il Garufi ha individuato la stessa mano nei due documenti del giugno e del settembre 1233. Lo "Jacobus notarius" della lettera del 14 ag. 1233, in assenza di altri notai con lo stesso nome presso la corte federiciana, è dunque con buona probabilità da identificarsi con Giacomo. I tre documenti del 1240 attribuiscono a G. tre qualifiche diverse: inviato imperiale a Lucera, comandante di un forte, notaio. Ciò da un lato si potrebbe considerare una prova che il "Jacobus" dei primi due non sia G., dall'altro può essere visto come il segno dell'attività intensa di un funzionario imperiale evidentemente ancora abbastanza giovane, la cui mansione di notaio, come di norma, non escludeva altri incarichi (Langley); oppure, essendo stata episodica nel 1233, era divenuta nel 1240 ormai soltanto onorifica (Garufi).
Il servizio più prezioso reso da G. all'imperatore resta comunque la sua produzione poetica, che si iscrive interamente all'interno del progetto federiciano di dar vita a una lirica d'ispirazione laica e in lingua volgare che desse lustro allo Stato e al tempo stesso ne fosse il simbolo riconoscibile. La laicità, segno dell'indipendenza dello Stato dalla Chiesa, si tradusse nella trattazione esclusiva di tematiche d'amore, essendo fuori luogo discussioni politiche in una lirica promossa da un potere assoluto. La scelta del volgare - il siciliano illustre - non fu compiuta solo a scapito del latino, ma anche e soprattutto in opposizione al provenzale dei trovatori, al francese antico dei trovieri e al medioalto tedesco dei Minnesänger, cioè alle lingue della lirica europea contemporanea che pure fornì ai poeti federiciani il modello di riferimento. Benché forse altri "siciliani" abbiano composto rime prima di lui, tradizionalmente G. incarna il punto d'inizio della storia poetica italiana, perché le sue canzoni e i suoi sonetti aprono le sezioni a essi rispettivamente dedicate nel codice Vat. lat. 3793 (Bibl. apost. Vaticana), e i maggiori codici della poesia italiana delle Origini gli attribuiscono complessivamente, secondo l'edizione curata da Antonelli, sedici canzoni, un discordo e ventidue sonetti, più tre componimenti dubbi e dieci false attribuzioni: un complesso di almeno trentanove poesie che costituiscono in assoluto il più vasto corpus di rime che la tradizione conservi di un poeta della scuola siciliana. Potendo contare solo su dati scarsi e malsicuri, è prudente supporre che la produzione poetica di G. si sia concentrata nel periodo in cui è documentata la sua attività notarile, cioè tra gli anni Trenta e i primi anni Quaranta del XIII secolo (Contini), magari anticipandone gli esordi agli anni Venti (Monteverdi; Antonelli, 1995). Con ardite deduzioni Roncaglia (1982) circoscrive l'anno inaugurale della lirica siciliana, e di G. in particolare, al 1233, anno a partire dal quale, secondo lo studioso, la corte federiciana poté disporre in Sicilia di un manoscritto di poesie provenzali simile al cod. T (Parigi, Bibl. nat., cod. Fr. 15211), dono forse di Ezzelino da Romano. La lettura diretta di un codice provenzale da parte di G. è, secondo Roncaglia, condizione indispensabile per spiegare la puntualità delle numerosissime riprese testuali nelle sue rime da modelli trobadorici: emblematicamente la canzone di G. che apre il Vat. lat. 3793, "Madonna dir vo voglio", è una traduzione di "A vos, midontç" di Folchetto da Marsiglia. Poiché la data del 1233 si basa soltanto su deduzioni, non è possibile escludere ipotesi alternative, soprattutto dopo la recente scoperta di una diffusione della lirica siciliana in area "tedesca" meridionale già tra il 1234 e il 1235 (Brunetti). Forse codici trobadorici arrivarono in Sicilia molto prima del 1233, per opera di sovrani interessati alla poesia provenzale, come, per esempio, Costanza d'Aragona, moglie di Federico II. Secondo Panvini (1994, p. 26) gli esordi di G. andrebbero perciò anticipati addirittura agli anni 1209-12, periodo in cui Federico, appena sposato e ancora soltanto re di Sicilia, tenne stabilmente corte a Messina. È però più probabile che risalgano agli anni Venti, dopo l'ascesa al trono imperiale di Federico II (22 nov. 1220), se è vero che fu l'imperatore in quanto tale il promotore della lirica siciliana.
Relegati a un ruolo del tutto marginale i riferimenti storico-politici, l'opera di G. è interamente concentrata sul tema amoroso. Emergono in particolare aspetti quali la sofferenza dell'amore non corrisposto, l'incomunicabilità tra amante e amata, lo stato d'animo in genere dell'amante-poeta, la riflessione teorizzante dai toni parafilosofici sulla natura dell'amore. Folti i riscontri puntuali con i trovatori provenzali della fin'amor quali Folchetto da Marsiglia (il più imitato), Aimeric de Péguilhan, Jaufré Rudel e Rigaut de Barbezilh, per indicare solo i principali. Il rapporto con le fonti non è mai pedissequo: G. non cita mai due volte gli stessi versi, pur attingendo in più occasioni alla stessa canzone. Dato ancora più interessante, G. non si ispira mai a un verso provenzale che si trovi ripreso in un componimento di un altro poeta siciliano, e viceversa (Bruni). Ciò implica, se non proprio un lavoro di squadra, di certo la reciproca conoscenza dei lavori poetici all'interno del circolo federiciano. È anche in questo senso dunque che va inteso il termine "scuola" siciliana, oltre che per la conquista di una fisionomia propria, di temi, di toni, di metri e di lingua. Di tali risultati artistici è ovviamente G. a offrire gli esempi più cospicui, a cominciare da "Madonna dir vo voglio". Rispetto all'originale di Folchetto la canzone di G. mostra da un lato una maggiore capacità di concentrare il discorso poetico in frasi brevi e sintatticamente dense, dall'altro un diverso atteggiamento nei confronti di "madonna". G. non la supplica di accondiscendere ai suoi desideri, ma si limita a notificarle il proprio stato di amante non ricambiato, considerandolo "un dato immodificabile" (Roncaglia, 1975, p. 28). Questa differenza è un tratto caratteristico di tutta la produzione di G. e si riflette anche sul piano tecnico: le sue canzoni sono infatti tutte prive della tornada finale e non vi è presenza di alcun senhal. Manca cioè il luogo poetico in cui il trovatore provenzale poteva rivolgersi direttamente alla donna e il nome in codice col quale chiamarla senza denunciare pubblicamente un amore adulterino. La scomparsa nella poesia di G. e dei siciliani in genere di ogni accompagnamento musicale potrebbe essere effetto di questo ritirarsi del poeta in se stesso, oltre che dell'assenza della musica nel curriculum degli studi notarili. Non manca però chi (da Pirrotta a Schulze) sposta a epoche più recenti il divorzio tra musica e poesia nella lirica italiana, accentuando così il legame di dipendenza dei siciliani dai provenzali. Secondo Schulze, benché non si conservi alcuna melodia relativa a canzoni siciliane, molte di esse sarebbero contrafacturae: cioè prenderebbero a prestito la melodia di testi provenzali con cui condividono la struttura metrica. Tre le canzoni di G. che Schulze considera contrafacturae: "S'io doglio", "Ben m'è venuto" e "Dolce coninzamento". Inoltre nelle rime di G. si riscontra con relativa frequenza il verbo "cantare" e l'anonimo autore di "Amor non saccio a cui mi richiami" (Le rime, ed. Panvini, p. 489) conclude la canzone invocando G. perché divulghi, cantando in pubblico, i suoi sentimenti. A ciò si aggiunga che il ms. Banco rari 217 della Bibl. naz. di Firenze, a c. 18r, riporta una miniatura in cui G. è raffigurato con un rotolo di pergamena in mano, sul quale vi sono righe di testo e note musicali (Pescerelli, p. 197). Ovviamente non si tratta di prove, perché tanto il verbo "cantare" quanto l'immagine dello spartito possono avere significato metaforico, e la struttura metrica delle canzoni di G. non è perfettamente identica a quella delle canzoni provenzali di cui dovrebbero essere contrafacturae (Antonelli, 1995). Inoltre l'assenza di accompagnamento musicale può inserirsi tra gli elementi di novità della poesia di G. che danno un tratto caratteristico alla lirica della Magna Curia. Federico II, infatti, pur conoscendo la musica, non dette spazio ai trovatori provenzali nella sua corte, preferendo invece promuovere, per ragioni di prestigio, una lirica tipicamente "imperiale", coltivata da funzionari di formazione giuridico-oratoria.
Letto nel suo insieme, il corpus delle liriche di G. si presenta come un discorso di carattere intellettualistico e dai toni più raziocinanti che passionali, in cui si avverte l'ambizione di toccare i più vari luoghi del dominio amoroso per fornire un paradigma del cantare d'amore che abbia in se stesso la propria ragion d'essere: quasi a emblema di quell'orgogliosa autonomia cui Federico II volle improntare la sua politica culturale. Come emerge dalle due tenzoni sulla natura d'amore (un sonetto di risposta ai due scritti rispettivamente da Iacopo Mostacci e Pietro Della Vigna, due sonetti in risposta ai tre dell'Abate di Tivoli), per G. l'innamoramento è un fatto che nasce e arriva a compimento all'interno dell'amante, secondo il classico percorso dagli occhi al cuore: il pensiero ne è così impregnato che non riesce a esprimerlo compiutamente. Ma è proprio la constatazione del fallimento a fornire lo stimolo per nuovi tentativi poetici, cosicché ogni nuovo componimento sgorga dallo scacco del precedente. Questa poetica è riscontrabile soprattutto nelle canzoni. In esse la dichiarazione d'amore, se non fallisce in quanto tale (I, II, XI), non riesce comunque a conquistare la donna amata, e il poeta può attivare la sua parola, esprimendo la sconfitta delle due opposte strategie: la richiesta pressante d'amore (III, V-VII) e il ritirarsi dignitoso da ogni preghiera per ottenere "merzé" (IV). Anche l'amore corrisposto ma lontano, secondo il modello di Jaufré Rudel, fornisce a G. materia per il canto (VIII, XIII). Laddove l'amore, oltre che corrisposto, è anche felicemente consumato, il tema diventa il dissidio tra l'incoercibile desiderio di comunicare a tutti la propria gioia e l'opportunità di un cortese silenzio (X, XXV). Prevale nei sonetti, considerabili come "un'enorme canzone di 25 stanze" (Spitzer, p. 25), un tono più brillante, arricchito da ingegnose comparazioni tra sentimenti amorosi e caratteristiche di animali e pietre preziose, secondo il gusto del trovatore Rigaut de Barbezilh e più in genere in linea con l'allegorismo dei bestiari e dei lapidari e, perché no, con la passione per gli animali esotici dello stesso imperatore svevo; si notano inoltre citazioni dai romanzi cortesi (il Cligès di Chrétien de Troyes e il Tristano) e dalle Scritture. L'autosufficienza del dettato poetico si manifesta qui anche nelle forme di una lode disinteressata della donna, in modi che furono sviluppati dagli stilnovisti (XXVII, XXVIII, XXXVII), e di un virtuosismo metrico e rimico che, già presente nelle canzoni (si pensi alle rime equivoche, alle rime identiche e alla rimalmezzo), si spinge nel sonetto "Eo viso - e son diviso - da lo viso" (XXIX) e nel discordo (XVII) fino alla doppia rima interna, con un'oltranza stilistica che fu poi tipica di Guittone d'Arezzo e dei guittoniani.
Se è vero che l'autoreferenzialità del dettato poetico è il segno di un'esperienza letteraria che si pone come nuova - pur con tutti i rischi di cerebralismo sterile che il "dolce stil novo", secondo i famosi versi di Dante (Purg., XXIV, vv. 52-57), sarebbe poi riuscito a evitare - carattere ancora più evidente di novità assumono l'uso del siciliano illustre e l'invenzione di una forma sconosciuta ai provenzali qual è il sonetto - forma poetica tra le più fortunate nella storia della versificazione italiana ed europea -, di cui G. è universalmente riconosciuto l'inventore, e non tanto per prove inconfutabili, quanto per mancanza di altri pretendenti al titolo. Numerose ricerche filologiche si sono prefisse l'obiettivo di trovare la fonte indigena, provenzale o addirittura araba di questa fortunata forma metrica, un insieme di quattordici endecasillabi suddivisi in un'ottava più una sestina a schema di rime variabile. La tesi prevalente considera il sonetto derivato dalla stanza di canzone provenzale, magari nella forma di cobla esparsa (di qui la propensione a usare il sonetto nelle tenzoni). È ormai minoritaria la tesi di una derivazione dalla fusione dello strambotto popolare siciliano con la sestina (Wilkins, p. 38). Risulta difficile stabilire i caratteri peculiari del siciliano illustre di G. a causa dei codici di mano toscana che ce ne hanno tramandato i testi.
Ammirazione e rispetto per G. non furono infatti manifestati solo da poeti siciliani, quali l'anonimo di "Amor non saccio", ma anche dai toscani della generazione successiva, come attesta anche il sonetto di maestro Francesco (già attribuito a Chiaro Davanzati) "Di penne di paone e d'altre assai" (Le rime, ed. Panvini, pp. 652 s.), che accusa il "novo canzonero" Bonagiunta da Lucca di copiare pedissequamente lo stile dello scomparso "Jacopo Notaro".
Questo sonetto, scritto attorno alla metà del XIII sec., è il terminus ante quem per datare la morte di Giacomo.
Dante dette di G. un giudizio insieme rispettoso e ridimensionante (De vulgari eloquentia, I, XII, 8; Purg., XXIV, vv. 52-57), che è in pratica alla base delle valutazioni critiche moderne e contemporanee.
Fra le edizioni delle poesie di G. si segnalano: The poetry of G. da L., a cura di E.F. Langley, Cambridge, MA, 1915 (rist. anast. New York 1966), con commento e appendice di documenti tratti da Huillard-Bréholles, Böhmer, Zenatti e Garufi; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, I, Milano-Napoli 1960, pp. 49-93; Poesie, a cura di R. Antonelli, I, Introduzione, testo, apparato, Roma 1979: è l'edizione di riferimento, ma è in corso d'opera una nuova edizione critica a cura dello stesso Antonelli.
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