Devoto, Giacomo
Glottologo e critico (n. a Genova nel 1897), per molti anni professore di glottologia nell'università di Firenze; presidente dell'Accademia della Crusca. Dagl'iniziali interessi di linguistica indo-europea e della lingua dell'Italia antica, è passato a offrire interessanti contributi alla definizione critica di scrittori antichi e moderni con un'indagine sulla loro lingua e sul loro stile ispirata alla teoria di una stilistica linguistica " che mira a definire attraverso le scelte linguistiche di un autore, il suo rapporto verso le convenzioni obbligatorie o facoltative del suo tempo ". A proposito di D., il Devoto ha affrontato il problema della contraddizione, a suo avviso inevitabile, tra la teorizzazione grammaticale e la prassi, tra la dottrina del De vulgari Eloquentia, che teorizza la lingua letteraria italiana, la lingua d'arte della lirica, illustre e sopradialettale, e la realtà espressiva della Commedia. L'allargamento dell'orizzonte artistico della lirica, attraverso l'esperienza filosofica, etica, politica, attraverso la stessa esperienza sofferta dell'uomo fanno ampliare al poeta gli schemi linguistici stilnovistici e lo conducono a quella più ampia sperimentazione linguistica, per cui la Commedia evade le indicazioni del trattato sia per quanto riguarda la miscelanza degli stili, in rapporto al modificarsi delle situazioni tra le tre cantiche e all'interno di ogni singola cantica, sia per la compattezza fiorentina della lingua poetica del poema, dal critico risolutamente affermata (Profilo di storia linguistica italiana, Firenze 1953; Dalla lingua latina alla lingua di D., in Il Trecento, ibid. 1953).
All'analisi del De vulgari Eloquentia, il critico è tornato in una lectura Dantis romana (prima in D. minore, Firenze 1965; poi in Nuove lett. I 317-326). Della formulazione dantesca dell'eloquenza volgare, intesa come lingua d'arte e di letteratura, aulica e illustre, che armonizzi le eterogeneità, elimini le asprezze e gli estremismi dei dialetti, e si presenti come espressione di una intellettualità e di una cultura italiana, esistenti pur nella deprecata assenza di una curia e di una reggia che le organizzi e le rappresenti, è qui rilevato, contemporaneamente, il carattere di originalità filosofica e di rottura culturale in rapporto alla tradizione linguistica latina. Il principio infatti dell'uso naturale e spontaneo della lingua volgare strumento di normale comunicazione fra i non colti, contro l'apprendimento tecnico e l'uso ristretto del latino, contiene in sé i presupposti della teorizzazione successiva della sostanza chiusa inaccessibile della cultura latina e la tradizione aperta di quella volgare.