Gentilomo, Giacomo
Regista cinematografico, nato a Trieste il 5 aprile 1909 e morto a Roma il 16 aprile 2001. Autore eclettico e prolifico (tra gli anni Quaranta e Sessanta realizzò una trentina di film), fu uno dei maggiori rappresentanti del cinema popolare italiano del dopoguerra. Si misurò con numerosi generi cinematografici, dal peplum al melodramma, dalla commedia al film musicale. Solo intorno agli anni Novanta la sua figura è stata oggetto di rivalutazione critica. Dopo avere compiuto studi classici, il giovane G., appassionato di pittura, cercò senza successo di intraprendere l'attività di scenografo teatrale. Trasferitosi a Roma, si avvicinò al cinema nei primi anni Trenta in veste di critico. Iniziò parallelamente la formazione professionale alla Cines, dove lavorò come segretario di edizione, montatore, aiuto regista (in Germania diresse le sequenze di battaglia di Condottieri, 1937, di Luis Trenker), sceneggiatore (Amo te sola, 1935, di Mario Mattoli; Belle o brutte si sposan tutte…, 1939, di Carlo Ludovico Bragaglia) e documentarista (realizzò Sinfonie di Roma, 1937, uno dei primi esperimenti italiani in Technicolor). Esordì nella regia con Il carnevale di Venezia (1939), in collaborazione con Giuseppe Adami. Nei primi film dimostrò un particolare talento per la commedia, evidente in lavori come La granduchessa si diverte (1940), briosa farsa dai toni quasi lubitschiani, Brivido (1941) e Cortocircuito (1943), due rari esempi italiani di film giallo-rosa. Con Ecco la radio! (1940) realizzò un anomalo esperimento di promozione del mezzo radiofonico, a metà tra documentario e finzione. Il suo primo film drammatico fu Mater dolorosa (1942), tratto dal romanzo di G. Rovetta. Nel 1946, in una Napoli sconvolta dalle ferite della guerra, realizzò O sole mio, il suo capolavoro, che racconta le quattro giornate della rivolta napoletana antitedesca (28 sett. ‒ 1° ott. 1943) in chiave melodrammatica ma con toni quasi neorealistici, in particolare nella sequenza finale dell'insurrezione; il protagonista è il noto baritono Tito Gobbi che nel film, cantando per radio, invia messaggi in codice ai partigiani. La produzione successiva fu sempre ispirata dalla convinzione che il cinema dovesse essere soprattutto uno spettacolo d'evasione adatto a un vasto pubblico. Diresse nel 1947 I fratelli Karamazoff, accurata riduzione del romanzo di F.M. Dostoevskij. Si specializzò nel film musicale (la commedia Amanti in fuga, 1946, biografia romanzata del musicista A. Stradella; Enrico Caruso, leggenda di una voce, 1951; Melodie immortali ‒ Mascagni, 1952; Una voce, una chitarra e un po' di luna, 1956). Attinse, con misura e sensibilità, anche alla letteratura d'appendice (La cieca di Sorrento, 1953, da F. Mastriani; Le due orfanelle, 1954, da A. D'Ennery). Nell'ultima fase della sua attività si dedicò esclusivamente al fortunato genere del film in costume, da Sigfrido (1958), con un lavoro sui colori di grande interesse, a Maciste contro il vampiro (1961) diretto con Sergio Corbucci, contaminazione tra horror e peplum. Nel 1964 abbandonò la regia per dedicarsi alla pittura. Il cinema gli aveva dato molte delusioni, prime fra tutte l'incomprensione della critica e le imposizioni di produttori spesso grossolani: per questo, negli anni successivi, G. si rifiutò di ricordare la sua attività di regista, chiudendosi in un ostinato silenzio rotto soltanto da un'intervista (in "Immagine", 2001, 43-44, pp. 49-51, a cura di F. Leni) rilasciata poco prima di morire.