GERARDO, Giacomo
Nato a Venezia intorno al 1553 da Giovanni di Biagio, avvocato, e da Marina di Martini, in una famiglia di ceto cittadino, era il più giovane di quattro figli maschi.
Il padre, nel testamento redatto nel 1563 poco prima di morire, affidava il G. alle cure dei fratelli maggiori e dello zio Raffaele, raccomandando di fargli proseguire gli studi presso il precettore Francesco da Bologna. Il 18 sett. 1566, ancora giovanissimo, il G. entrò nella Cancelleria ducale come notaio "straordinario di rispetto", attendendo poi tre anni prima di essere creato straordinario di Cancelleria a pieno titolo (luglio 1569). Nel frattempo, nel 1567, andò a Milano come coadiutore del fratello maggiore Francesco, residente della Serenissima in quella città. Rientrato a Venezia nel 1570, quando ormai era in corso la guerra di Cipro, venne inviato coadiutore del capitano generale da Mar, Girolamo Zane. Mantenne l'incarico, seppure per poco, quando lo Zane fu sostituito da Agostino Barbarigo, il quale fu mortalmente ferito nel corso della battaglia di Lepanto. Tra il 1571 e il 1572 seguì l'ambasciatore Giovanni Soranzo alla corte di Roma dove, per l'improvvisa assenza del segretario, il G. si trovò a svolgere per sedici mesi le funzioni di coadiutore e di segretario nel corso delle frenetiche e difficili trattative per un accordo tra i collegati sul proseguimento della guerra contro l'Impero ottomano. Diventato notaio ordinario di Cancelleria il 23 sett. 1573, svolse per qualche tempo l'incarico presso i Provveditori sopra gli ori e le monete e fu infine promosso segretario del Senato (23 nov. 1576). Questo periodo di permanenza a Venezia costituì per il G. una delle poche pause nella movimentata vita al servizio della Serenissima.
Il fratello Marcantonio, "bollador" ducale, era l'unico che risiedeva stabilmente a Venezia, mentre Francesco, Giulio e il G., divenuti ormai tutti e tre segretari del Senato, dedicavano le energie e le scarse finanze familiari alla loro vorticosa attività al seguito di ambasciatori o in missioni diplomatiche autonome. Proprio le difficoltà economiche inasprirono i rapporti tra i fratelli, al punto che tra il 1578 e il 1579 la fraterna si sciolse. La definizione degli ultimi conti tra Giacomo e il fratello maggiore Francesco fu rinviata perché nel frattempo, nel dicembre 1579, il G. dovette partire come segretario di Giovanni Battista Calbo, provveditore in Istria. L'incarico successivo, più impegnativo, lo portò a Costantinopoli nella primavera del 1582, al seguito dell'ambasciatore Giacomo Soranzo.
Al rientro, nella relazione presentata il 21 ott. 1584, il Soranzo non mancava di elogiare il segretario e tutta la casa Gerardo, "che ha tanto interessate le vite e le sustantie loro in servitio di Vostra Serenità". Ricordava inoltre come, durante una malattia, il G. "tenne tanta cura di me, come se gli fossi stato padre" (Arch. di Stato di Venezia, Collegio, Relazioni…, b. 5, c. 35). Al di là delle consuete formule elogiative, va sottolineato il legame di fiducia maturato nel tempo tra Giovanni e Giacomo Soranzo (senatori tra i più autorevoli della fazione conservatrice e "papalista", ma che proprio in quegli anni furono accusati di collusione con paesi stranieri) e il G. e il fratello Francesco. Il fratello Giulio in questo periodo sembra invece legato all'altra fazione del patriziato, quella anticuriale, che faceva capo a Leonardo Donà. Nella primavera del 1585 il G. ricevette per la prima volta un pieno incarico diplomatico e, dal maggio di quell'anno fino alla fine del 1588, si recò come residente a Napoli, in sostituzione del fratello Giulio. Il suo arrivo coincise con l'esplosione del tumulto del 1585 e l'uccisione dell'eletto del Popolo, Giovanni Vincenzo Starace. La rivolta, l'arrivo a Napoli - avvenuto nei mesi successivi - di rinforzi armati al comando di don Pedro de Toledo e l'asperrima azione repressiva condotta dal viceré, P. Téllez Girón duca d'Osuna, occupano grande spazio nei dispacci. Incessanti ma vani furono poi i negoziati per limitare la guerra e impedire l'uscita di vascelli pirata dal Regno di Napoli e dalla Sicilia, che danneggiavano gravemente i mercanti veneziani e minavano il fragile equilibrio raggiunto con la pace separata stipulata nel 1573 da Venezia con l'Impero ottomano.
Incaricato dal Senato di svolgere anche la funzione di console della nazione veneta, il G. subì più volte ritorsioni e molestie finché, nel marzo 1586, fu esonerato dall'incarico, che troppo interferiva con l'attività diplomatica. Costanti però furono i suoi interventi presso il viceré in difesa del diritto di immunità dalla giurisdizione dei tribunali del Regno, di cui godevano i mercanti della nazione veneta.
Nonostante le pesanti difficoltà annonarie di Napoli, il G. cercò di garantire l'approvvigionamento delle isole Ionie veneziane; gestì inoltre una difficile e annosa controversia circa il prezzo da pagare per un grosso quantitativo di grani avariati, appartenenti a mercanti napoletani, che due navi ragusee dirette a Napoli erano state costrette a scaricare a Corfù.
A qualche mese dal rientro in patria, il 29 maggio 1589, il G. fu inviato residente a Firenze, una corte certamente più tranquilla.
Da poco unito in matrimonio con Maria Cristina di Lorena, il granduca Ferdinando I riceveva incessantemente avvisi dalla Francia che riferivano dell'assassinio di Enrico III e delle guerre di religione che stavano sconvolgendo quel paese. I temi ricorrenti nei dispacci del G. riguardano la politica di Filippo II, l'indirizzo antispagnolo della Serenissima e gli appelli di Ferdinando per una politica comune contro lo schiacciante predominio spagnolo nella penisola; le forti pressioni del granduca affinché Venezia smettesse di ostacolare la nomina di prelati veneziani al cardinalato, per potere in tal modo esercitare maggiore influenza nei conclavi e impedire così l'elezione di pontefici filospagnoli (nel corso della residenza del G. si tennero ben quattro conclavi). In secondo piano rimangono invece i resoconti di quanto accadeva in Toscana.
Dopo sette anni, il G. ebbe dal Senato l'ordine di lasciare la sua residenza e fu destinato al posto di segretario di Girolamo Cappello, bailo a Costantinopoli. Il 25 marzo 1596 si congedò dal granduca in tutta fretta, sostituito dal fratello Giulio. Nel novembre di quell'anno, il G. intraprese dunque il suo secondo viaggio in Oriente, che si concluse quattro anni dopo con un drammatico ritorno, nel corso del quale rischiò di perdere la vita in un naufragio. Poi fu di nuovo a Firenze come segretario dell'ambasciatore Nicolò Molin, quindi in Spagna al seguito di Ottaviano Bon, e nel 1606 andò in Polonia con l'ambasciatore Alvise Contarini, portando come coadiutore il nipote Francesco, figlio di Giulio. L'anno dopo il G. fu nominato segretario del capitano generale da Mar Giovanni Bembo, e in quell'occasione portò con sé l'altro figlio di Giulio, Girolamo.
In una supplica al Consiglio dei dieci del 28 sett. 1608 il G. ricordava di aver trascorso fuori Venezia "vintiott'anni intieri della mia vita", non avendo "ricusato mai fattica o pericolo". Nel corso dei suoi 43 anni di attività pubblica aveva inoltre dato la sua disponibilità per altri incarichi di segretario, a Roma, a Corfù, a Costantinopoli, a Vienna, ma tali missioni erano state annullate "per diversi accidenti pubblici".
Alla fine della sua carriera gli restava soltanto un vitalizio di 24 ducati al mese e le rendite di due uffici, che però negli ultimi tempi erano crollate. Senza beni propri e "con qualche debito che mi travaglia", il G. chiedeva che gli fossero concesse grazie per 20 ducati mensili, da poter trasmettere ai nipoti (Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci, Comuni, reg. 59, cc. 110-112). La sua richiesta, mancando il consenso unanime del Consiglio dei dieci, non fu però accolta.
Il G. trascorse gli ultimi anni a Venezia e quando morì, nel 1622, fu sepolto nella chiesa di S. Provolo. Come anticipava nel proprio testamento il fratello Francesco, non ebbe discendenti diretti: gran parte dei suoi beni mobili restò alla moglie Barbara Colona, mentre la sua casa a S. Provolo e alcuni uffici a lui intestati passarono in eredità ai nipoti.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Cancellier grande, reg. 1; b. 13, cc. 13-18; Collegio, Relazioni…, b. 75, cc. 25-26; Consiglio dei dieci, Comuni, regg. 30, cc. 172v-173; 32, cc. 66, 74v-75; 33, c. 61; 55, c. 130; 56, c. 23v; filza 254, 23 genn. 1606; Capi del Consiglio dei dieci, Notatorio, reg. 33, c. 16rv; Dieci savi alle decime in Rialto, bb. 131/1097 (redecima 1566); 161/1149 (redecima 1582); Giudici di petizion, Inventari…, b. 348/13, nn. 4, 8, 15, 18; Miscellanea codici, I, Storia veneta, b. 2: T. Toderini, Genealogie delle famiglie venete ascritte alla cittadinanza originaria (1569-1801), vol. 2; b. 12: G. Tassini, Cittadini veneziani, vol. 9; Notarile, Atti, Notaio Giacomo Carlotti, bb. 3333, c. 11; 3334, 31 maggio, 11 nov. 1579; 3340, c. 87rv; Notaio Francesco Caopenna, bb. 2560, cc. 154, 161; 2562, c. 95; Notarile, Testamenti, Notaio Pietro Perazzo (ma testamenti rogati da Marcantonio Cavanis); 1221/156; Notaio Giulio Ziliol, b. 1243/272; Senato, Deliberazioni, Secreti, regg. 85, cc. 14-15v; 87, c. 62; Senato, Dispacci…,Napoli, bb. 7, 8; Firenze, bb. 4bis, 5-11 (11 giugno 1589 - 25 marzo 1596); Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. VII, 183 [8161], cc. 104-105v; 341 [8623], cc. 209-212v; 1667 [8459], c. 7v; E.A. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, VI, 2, Venezia 1853, p. 879; I libri commemoriali della Rep. di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VII, Venezia 1907, l. 24, n. 74;F. Mutinelli, Storia arcana ed aneddotica d'Italia raccontata dai veneti ambasciatori, II, Venezia 1856, pp. 20-60, 140-161; Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato…, a cura di L. Firpo, IX, Torino 1978, pp. 274 s.; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini 1585-1647, Roma-Bari 1967, pp. 42, 48-55; G. Trebbi, La Cancelleria veneta nei secoli XVI e XVII, in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, XIV (1980), pp. 115, 118; M. Casini, Realtà e simboli del cancellier grande veneziano in età moderna (secc. XVI-XVII), in Studi veneziani, XXII (1991), p. 216.