Giacomo Leopardi: Opere, Tomo I – Introduzione
Per cercar di spiegarci le origini della poesia di Leopardi, è indispensabile prospettare i grandi termini della situazione storica in cui la sua rapida esperienza, umana e letteraria, si svolse. La chiusura politica e culturale sopravvenuta alla lacerazione prodotta dalla rivoluzione francese e allo sconvolgimento dell’Europa per tanti anni percorsa in lungo e in largo dagli eserciti napoleonici, e l’aduggiamento indotto nei migliori spiriti da una stagnazione senza apparente sbocco, entro cui ideali e speranze parevano destinati irrimediabilmente a languire e a corrompersi. Quindi, la proiezione di quella lunga pausa d’incertezza sul microcosmo di Recanati, sperduta nel fondo d’una provincia degli Stati pontifici, e su un ambiente familiare di piccola nobiltà papalina e legittimista come fu quello di Giacomo. Infine, l’infermità fisica, sopraggiunta e favorita dalla gracile costituzione del poeta, a seguito degli anni infantili di «studio matto e disperatissimo», e il complesso di inibizioni, incompatibilità e rivolte ch’essa portò con sé.
Poi, in particolare, l’isolamento della sua prima formazione. Solitudine, soprattutto, nel suo senso geografico, di lontananza dai centri di vita politica e intellettuale, ove i margini d’avvenire s’andavano nonostante tutto faticosamente formando. Una tale solitudine, privandolo di ogni guida e avvio, come quelli che si delineano spesso spontanei nella consuetudine di maestri e compagni, doveva fatalmente indurre il poeta ad attribuire una sorta d’ideale coesistenza e contemporaneità ai volumi antichi e nuovi della biblioteca paterna, costringendolo a scavarsi una via propria e individuale nella immensa congerie. L’immagine statica della vita, implicita nella visione classicistica del tempo, non doveva apparirgli contraddetta, anzi rafforzata dagli esemplari della poesia arcadica e dal pensiero razionalistico del secolo precedente, che finivano col rappresentare ai suoi occhi approssimativamente tutta la modernità. Essa escludeva quell’intuizione della storia come processo in divenire che per noi è diventata parte integrante della nostra coscienza della vita, e quasi una seconda natura, e il cui concetto i grandi filosofi romantici, a lui quasi ignoti ma istintivamente avversati, stavano in quegli stessi decenni elaborando. A ridosso di una modernità decaduta, impotente nelle sue risibili aspirazioni, resiste soltanto il grande mondo della cultura antica, non ancora dissolto dalla critica nel suo faticoso processo di sviluppo, ma sempre intatto e splendente nella sua configurazione di mito e soprastoria, di chiaro specchio e paradigma dei pensieri e delle azioni presenti. Anche i testi della letteratura contemporanea che giungono fino a lui – Foscolo, Monti – e i più prossimi del secolo precedente – Parini, Alfieri – possono essere letti soltanto in funzione dei modelli antichi, che essi medesimi si sforzano di riflettere, quasi barlumi sparsi nella decaduta modernità di perfezioni per sempre tramontate, che ci è dato oramai più soltanto di imitare in un’aura di ineluttabile malinconia. Per questo, gli studi filologici compiuti dal giovane Leopardi – il cui valore viene oggi opportunamente rivendicato – non tanto appaiono ispirati al bisogno di riposata conoscenza e di ordinato accrescimento scientifico, conforme all’habitus erudito, quanto a una sorta di affannosa e struggente passione di riscoperta (si rammenti il suo entusiasmo, che oggi non può non apparirci esagerato, per il rinvenimento e pubblicazione degli scritti di Frontone fatta dal Mai), e quasi a una fondamentale necessità di orientamento esistenziale.
Infine, nello sforzo di rintracciare i dati essenziali della sua prima formazione, il pensiero ricorre spontaneo a quella «filosofia», ch’egli di buon’ora si era formato sui testi del razionalismo e del sensismo francese del secolo precedente, e tenne ferma, almeno nelle sue linee essenziali, fino agli anni ultimi, quando acerbamente la raffrontava all’incerto spiritualismo del suo secolo, in cui si compiaceva unicamente di ravvisare ipocrita rinuncia e pavido ritorno alle menzogne e alle illusioni che aiutano a vivere. Si pensa, anche per questa parte, a un punctum dolens, a qualcosa come una ferita originaria, a un risentimento implacabile che strenuamente si foggia a strumento di conoscenza. E per questa parte Leopardi, appassionato al vago e all’ineffabile dei sentimenti e agli sfumati aloni dell’espressione poetica, intento a teorizzare, nei suoi pensieri di estetica e di linguistica, il fascino della vaghezza e dell’indeterminatezza di certe immagini e parole, non può invece ammettere che conoscenze precise, oggettive, controllabili: e con lo stesso rinviare il vago e l’indeterminato al campo proprio della poesia e dell’illusione, si sforza di circoscriverli e di liberarsene. Anche qui, l’amore del dato esatto, della rilevazione puntuale, della scoperta inconfutabile, che ci dimostra l’inclinazione per gli studi filologici, è rivelatore. Come lo è lo spirito dell’operetta che, prima ancora d’impegnarsi a fondo in questi ultimi, scrisse il poeta diciassettenne, ossia quel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi che ci documenta su entrambe le facce apparentemente inconciliabili del suo spirito, anticipandocene gli ulteriori sviluppi. Da una parte, la rivolta illuministica contro l’errore, fonte di superstizione e di barbarie, e la rivendicazione delle conoscenze chiare e precise, che si avvale dei precoci toni dell’ironia e del sarcasmo (e il fatto che, nel Saggio, tale rivolta appaia temperata da conclusioni conformistiche, non deve ingannarci sul suo fondo); e, dall’altra, il gusto divertito della rievocazione di quelle antiche favole e stravaganti credenze, che si colora dei loro riflessi e trasposizioni poetiche e letterarie.
La metafisica materialistica, spogliata del suo originario alone d’ottimismo, del suo anelito di liberazione, e limitata al suo effetto sostanziale di destituire l’uomo e la sua storia dalla loro posizione centrale nell’universo, rivelandocene la nullità di fronte all’infinità e all’indifferenza della Natura, gli dà l’impressione di toccare con mano il fondo del reale, e di riconoscere, nel finale disfacimento delle cose create, nel loro destino di morte, la verità ultima e inconfutabile: e lo stesso angoscioso ribellarsi del cuore a tali conclusioni non può costituire che la controprova di quella verità. Come s’è detto, il suo intelletto rifugge dall’indeterminato, dal mutevole, dallo sfuggente. Nei suoi pensieri sull’uomo e sulla società egli appare avere ereditato dai moralisti classici, a cominciare dal Guicciardini fino ai cinquecentisti e settecentisti francesi, lo sguardo freddo e chiaro, e una nomenclatura delle umane passioni come enti quanto più possibile oggettivamente definibili (si pensi alle sue distinzioni fra amor proprio ed egoismo, ragione e natura, alle sue riflessioni sulla noia ecc.), il che gli permette d’inoltrarsi in sottigliezze d’analisi e acuzie di caratterizzazione, ma pur sempre lineari, senza ombre né chiaroscuri, rifacendosi magari, al di là dei francesi, al suo Teofrasto. Cercando l’oggettività pura, giunge a una sorta di cristallizzazione del suo campo visuale. Così nella sua «teoria del piacere», perseguendo l’inafferrabile felicità, o lo stesso semplice piacere come stato oggettivo e a sé sufficiente, viene di necessità a negarlo destituendolo a puro fantasma e illusione, e a proclamare l’unica realtà del dolore. E se anche, perseguendo parallelamente un diverso ordine di pensieri, egli escogita, a scampo della sofferenza e della noia, volta a volta il sonno naturale dei bruti o l’esaltazione della vita intensa ed eroica, non tende ad istituire, né lo può, una mediazione dialettica. La verità è che una mediazione sarebbe equivalsa ad una giustificazione, e una giustificazione si sarebbe risolta in uno di quei comodi compromessi ch’egli rinfacciava alla filosofia dei suoi contemporanei. Una sintesi prematura avrebbe voluto dire rifiutarsi di condurre a termine l’esperienza negativa che gli era toccata in sorte.
Non è, difatti, alla dialettica del pensiero di Leopardi che bisogna por mente, la quale non esisté, in quanto quel pensiero, che non superò mai lo stato frammentario connaturato alle meditazioni dello Zibaldone. e costituì essenzialmente una serie di riconoscimenti lucidi e puntuali dei lembi di esperienza che si offrivano allo scrittore, a cui concorreva l’ausilio dei filosofi e dei trattatisti da lui studiati, non pose mai – né, costituzionalmente, lo poteva – quelle esigenze almeno intimamente sistematiche che sono inerenti al riconoscimento filosofico del reale. Perché un tale pensiero, con tutta la sua lucidità e fermezza che fanno pur sempre di Leopardi uno dei nostri più concreti moralisti e indagatori dell’uomo, conteneva una contraddizione per esso insolubile. E una tale contraddizione richiedeva di essere sperimentata fino in fondo sul piano vitale: da una parte, la chiarificazione, il rilievo tragicamente negativo di una realtà immobilizzata nella luce dell’intelletto; dall’altra, la rivolta del cuore, la irreducibilità della vita come palpito e slancio alla constatazione anche più amara e delusa dell’umano destino. Occorre invece pensare alla dialettica intima dell’animo del poeta, per cui gli studi filologici, le traduzioni dall’antico, la riflessione filosofica e morale furono, volta a volta, momento e strumento di un orientamento esistenziale, di un definirsi nel mondo e prendervi posizione, per compiersi in quella che già implicitamente, e assai presto anche esplicitamente, avrebbe dovuto rivelarsi come la forma essenziale del suo destino, ossia la poesia.
Può dirsi in un certo senso (ma la virtù dei grandi poeti sembra essere quella di offrirci un’esperienza estrema, vuoi di una «qualità», vuoi, come nel nostro caso, di un limite) che la poesia di Leopardi nasce a questo punto d’intersezione, o, come s’è detto, di contraddizione. Leopardi si situa al polo opposto del poeta che «coltiva» la propria ispirazione, sviluppando e tesaurizzando per sovrapposizioni successive gli elementi di un riconoscibile mondo di affetti e di figure: al contrario, la sua poesia rappresenta piuttosto quanto di quel mondo, che fu così duramente assoggettato al potere distruttivo delle idee, le è riuscito di salvare o di riconquistare volta a volta.
Questa contraddizione fondamentale ci invita a riconoscere le stesse particolari contraddizioni che questa poesia sembra recare in sé. Così il contrasto fra la pienezza vibrante con cui il sentimento vi si dispiega e l’aridezza e perentorietà delle sue chiusure ironiche e polemiche. Così il contrasto fra la sua «letterarietà» (non v’è quasi immagine o giro d’espressione, specie nelle prime canzoni, che non richiami alla mente precedenti od echi classici) e l’accento di intimità nuovo e quasi selvaggio che, al nostro sentire d’uomini d’oggi, le conferisce, ogni volta che l’avviciniamo, quel carattere di sorprendente attualità, e si vorrebbe dire di extra-temporalità, che fa di Leopardi, non solo cronologicamente, il più moderno dei nostri classici. Una tale letterarietà non ha difatti in lui, o quasi mai, nulla di compiaciuto o di esornativo, ma si rivela, come il gusto della precisione filologica nel campo del pensiero, una sorta di tormentato strumento destinato a vieppiù affinare la punta dell’espressione. Un riecheggiamento virgiliano e petrarchesco, scaldando la parola poetica e come caricandola della sua propria storia, sfuma infatti e precisa l’espressione accentuandone, per via di contrasto, il suo nuovo senso: e, rallentando il moto dell’attenzione del lettore, in pari tempo l’acuisce sulla particolarità di quel significato. Il fastidio di Leopardi per i romantici, «che per certa libertà di pensare e di comporre partoriscono mostri», interpretato nei suoi più veri termini, sta essenzialmente in questo bisogno di perspicuità puntuale, nel sospetto per l’astrattamente nuovo e inusitato, che è di necessità sommario e impreciso, a differenza dell’espressione nata nel clima delle cose lungamente stancate e rese familiari dalla tradizione, che può avvalersi d’una ricca e flessibile allusività: e non altro senso ha la sua giovanile difesa dell’uso della mitologia classica nelle opere moderne.
Ché peraltro, a ben vedere, nulla v’è, negli inizi veri e propri della sua poesia, di approssimativo e di anacronistico. Quando, ancora giovinetto, in seguito a una frettolosa lettura dantesca, elabora, in quella sua cantica L’appressamento della morte – pur così importante come documento autobiografico – una corrusca fantasia allegorica di gusto fra la Commedia e i Trionfi (ma neppure mancavano precedenti montiani), siamo ancora nel campo dell’esercitazione velleitaria. I nuovi accenti della sua poesia, come ogni concreto poeta, egli li riprenderà dalla tradizione recente e contemporanea, e l’arcaismo e il neoclassicismo, più che suoi propri, sono una dimensione necessaria del suo tempo. Dietro alla canzone All’Italia c’è ancora più Filicaia e Alfieri che non Petrarca, come dietro i primi Idilli ci sono le versioni da Mosco, col loro gusto arcadico e settecentesco che il giovane traduttore aveva nel sangue, mentre le movenze del suo sciolto sono ancora memori di Parini e di Foscolo, e a certe pacate stasi descrittive non è estraneo l’influsso della elegante ed eloquente cristallinità montiana.
Di qui, il naturale processo di questa ispirazione sembra svolgersi secondo due movimenti, che talora s’intrecciano e tendono ad una fusione. Da una parte, verso un progressivo esaurimento delle barriere culturali, degli schermi mitologici e storici offerti dalla cultura e dalla tradizione, dei moti eloquenti o dialettici, verso una compiuta realizzazione di quella idea della poesia lirica come «respiro dell’anima», liberazione del cuore oppresso, la cui nascita appare contrassegnata da una fugace effervescenza sentimentale, «un crepuscolo un raggio un bagliore d’allegrezza», com’egli, con perfetta coscienza autocritica, rilevava in un pensiero del giugno 1820, quando già aveva scritto L’infinito e Alla luna. Di buon’ora, si afferma come essenziale a questa poesia la tendenza ad isolare la realtà sentimentale nella sua sostanza, a ridurla al puro disegno o diagramma del moto dell’anima nella sua genuinità iniziale, per cui clausola meditativa e paesaggio ed esclamazione e interrogazione si presentano come un tutto unico, còlti come sono alla punta struggente dell’emozione. È quella che è stata definita la musica di Leopardi, per quanto riesca difficile dare un senso preciso ad una parola così polisensa nelle sue applicazioni letterarie. Comunque, una sorta di trascorrente disegno musicale, il cui ritmo è massimamente affidato alle sospensioni e alle pause, e che sembra consumare, o quantomeno alleggerire nel suo processo, figurazioni e riflessioni, definendosi come l’elemento fluido che le evoca, e nel quale soltanto esse potrebbero vivere. In esso, le parole medesime sembrano depurarsi d’ogni loro gravezza rettorica e sensuale, come d’ogni troppo insistito segno storico, fino a coincidere col movimento stesso dell’esistenza pura, quello che si esprime in noi, al di là d’ogni ambientazione spaziale e temporale, come una delle costanti della nostra umana natura, della nostra stessa fisicità:
Viva mirarti omai
nulla spene m
s’allor non fosse,
allor che ignudo e solo
per novo calle a peregrina stanza
verrà lo spirto mio.
La «speme», il «calle», la «peregrina stanza», lo «spirto», stingono la loro patina d’arcaismo scolastico nella forza supremamente naturale del dettato, che, nelle sue pause e riprese, sembra ripetere i legamenti, le flessioni stesse del decorso emotivo, riproducendo, nei suoi accenti come spenti e soffocati, lo stesso respiro che primo l’accompagnò. In un tale clima di tensione sentimentale, le clausole descrittive di luogo e di tempo, che in altri poeti richiedono, per assumere evidenza, forti segni di caratterizzazione, acquistano una irrevocabile individualità, si concretano nell’animo del lettore come reali e vedute, pur così spoglie di metafora e di colore, in virtù del loro semplice enunciato. E basterà l’«ermo colle» e la siepe che oblitera il paesaggio retrostante a giustificare l’aprirsi dell’animo del poeta agli spazi e silenzi de L’infinito, così come, più tardi, il cielo sereno e le vie dorate e gli orti di A Silvia saranno sufficienti ad evocare il breve incantesimo di un paesaggio soleggiato, e il semplice aggettivo «chiaro», nella Quiete dopo la tempesta, la particolare lucentezza d’un corso di fiume nell’aria lavata dalla pioggia.
A questo movimento di tendenziale consunzione e assorbimento dei dati del mondo leopardiano nella pura linea dell’emozione, che trova già la sua piena misura nei primi Idilli. sembra far riscontro un opposto movimento, che si potrebbe dire centrifugo, un impulso dell’ispirazione a dilatarsi gradatamente e ad assumere sotto lo stesso segno di autenticità sentimentale tutti gli elementi di quel mondo che inizialmente le si presentano estranei, come tentativi di ricognizione intellettuale dell’uomo e della natura, considerazioni sulla società e sulla storia, orizzonti mitici e leggendari, impeti satirici e polemici. Tutta questa materia, nelle stesse acute limitazioni che il carattere e il destino di Leopardi vi impressero, e in quello stesso rischio che spesso corre la sua riflessione di bruciarsi anticipatamente ai moti del rifiuto, dello sdegno e del sarcasmo, tende sordamente, fin dagli inizi, a giustificarsi emergendo nella luce poetica. È la storia che i Canti, restituiti al loro ordine cronologico, ci tracciano fin dalle giovanili Canzoni, dove la materia culturale riflessa fa il suo primo impeto, fino a La ginestra o il fiore del deserto. Storia nella quale trovano posto le Operette morali. di cui è merito della critica moderna l’aver rivendicato il sostanziale carattere lirico-fantastico.
Ad intendere lo svolgimento e senso della lirica leopardiana, mi pare occorra tener presente questo duplice movimento: ché un’alternanza o successione di toni o addirittura di poetiche ha indubbiamente un valore descrittivo e storico ai fini di particolareggiate analisi, ma richiede pur sempre di essere compresa in una sintesi che cerchi di fissare il loro punto di inserzione, la loro continuità, ove si voglia tentar di qualificare la vera natura di questa ispirazione. Fin dalle prime canzoni, dove tante forti intuizioni e pensieri si presentano ancora impacciati dal paludamento scolastico o ingratamente sottolineati da un’eco teatrale metastasiana o alfieriana, si afferma questo bisogno di riscatto poetico dell’intero orizzonte leopardiano, dal vagheggiamento degli atti eroici e magnanimi, attraverso la disperazione di Bruto che ne conclude l’epoca, o la spontanea anacronistica virtù del giocatore del pallone, o la memoria del sacrificio di Virginia, alla rievocazione delle età auree e primitive nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche o nell’Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano. Rievocazioni e vagheggiamenti la cui traiettoria lirica è invariabilmente destinata a spegnersi, da un lato, nella constatazione intellettuale di una negatività (disvelamento e fine delle illusioni e dei «forti errori»), dall’altro, sotto l’aspetto del sentimento poetico, in un moto di amarezza o di rimpianto. Una traiettoria simile a quella che, nell’ispirazione idillica, insidia il trepido e fugace momento di abbandono contemplativo, sommergendolo nell’attualità del sospiro.
Ma il mondo delle prime canzoni è quello stesso che Leopardi aveva cominciato a riconoscere intorno a sé nei modi della riflessione e della critica, nelle immaginazioni sprigionantisi dalle letture dei testi prediletti antichi e recenti: i cui aspri limiti andava ravvisando nella decaduta modernità e nelle ambiguità tra vecchio e nuovo del suo clima storico. Era fatale che quel mondo, vieppiù precisandosi nella conoscenza, si sottraesse gradatamente all’assunzione nell’alto clima della poesia lirica, dove le figure in esso suscitate non avrebbero potuto che ripetere il loro rapido ciclo di dissoluzione, senza peraltro consentire, data la loro origine culturale e riflessa, quella stessa verificazione sentimentale che il poeta aveva sperimentato sulla materia spontanea dei primi Idilli. Si riproduceva in qualche modo, stavolta su un piano d’arte esperta e consapevole, in un clima di maturate persuasioni filosofiche e morali, la situazione in cui il poeta giovinetto aveva composto il suo studio sugli errori popolari degli antichi. Le fantasie e le favole antiche, negate dalla coscienza della verità, avrebbero potuto sopravvivere come tali, assieme a quella stessa verità che le negava, nei toni bassi, flessuosi e distesi della divagazione prosastica; dove il pathos della loro negatività, sottratto alla celebrazione elegiaca, e animato dai sali dell’ironia e dello scherzo (tendenti più spesso a trasformarsi in acidi nei versi satirici o polemici), sarebbe risultato più sfumato, e come fermato e allontanato nel contrappunto musicale e nel colorito arcaicizzante dello stile e del pretesto letterario. Fu del resto già notato il naturale passaggio dal felice mito della poesia antica, quale voce meravigliata ed irriproducibile dell’infanzia del genere umano, che Leopardi aveva tratteggiato nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, alla materia di canzoni come Alla primavera, e, di lì, alla Storia del genere umano, dove i dati leggendari e culturali finiscono col trasporsi liberamente in favola ironica e patetica.
Ma, così come il segreto della lirica leopardiana sta principalmente nella linea musicale che vi è sottesa, il più vero segreto delle Operette morali è nella musica della struttura sintattica e stilistica, dove più s’addensa e puntualizza il sentimento del poeta, e dove si rivela l’alterno moto dell’idoleggiamento, tra divertito e meravigliato, di quelle fantasie, e del successivo loro allontanamento nella lucidità e amarezza della riflessione. Sempre, nelle Operette morali. dove il complesso impasto riesce, cioè dove la meditazione non rimane arida constatazione o facile paradosso, e la grazia ironica non trasmoda in secco o impacciato umorismo, il dato storico, fiabesco o morale si assume in una sorta di trasfigurazione stilistica, al cui costrutto di lente e divaganti pause e ritmi e insistenze, marcati dalle attentissime virgolature e punteggiature, è precipuamente affidata la forza persuasiva e patetica del discorso. Si pensi, per fare un esempio, al Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, i cui dati storici sono di massima ricavati dalla Storia dell’America del Robertson e a come, alla fine dell’Operetta, gli elementi che Leopardi trasceglie dal suo autore, disposti e pausati in una tranquilla progressione, si ordinino naturalmente, per pura virtù di collocazione sintattica, a conclusione lirica, quasi aspetto visivo e sensibile di quell’ardimentosa e insieme dubitosa speranza che la disincantata riflessione di Colombo sul valore dell’incertezza e del rischio a render sopportabile la vita e a vincere il dolore e la noia, alla fine si prospetta: «Da certi giorni in qua, lo scandaglio, come sai, tocca fondo; e la qualità di quella materia che gli vien dietro, mi pare indizio buono. Verso sera, le nuvole intorno al sole, mi si dimostrano d’altra forma e di altro colore da quelle dei giorni innanzi. L’aria, come puoi sentire, è fatta un poco più dolce e più tepida di prima. Il vento non corre più, come per l’addietro, così pieno, né così diritto, né costante; ma piuttosto incerto, e vario,» ecc.
Di fronte alle Operette morali. come in genere ai prodotti più compositi e travagliati della poesia, viene spontaneo al lettore il problema di una scelta antologica di componimenti, e di tratti di essi; e il medesimo lettore sarà probabilmente indotto a rintracciare le riuscite più intense della nuova fase leopardiana dove, come appunto nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, o in quello di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, o nell’altro di Plotino e di Porfirio, l’asciuttezza dell’argomentazione dimostrativa meglio cede alle mediazioni e alle sfumature del sentimento, o come, nell’Elogio degli uccelli, la moralità meglio si colora del vago della evocazione naturale; o, come nel Dialogo della Natura e di un Islandese o nel Cantico del gallo silvestre, il tema dell’umano destino al cospetto della nemica Natura e del finale annientamento tocca le sue risonanze più commosse e profonde, o infine, come nel Dialogo di Tristano e di un amico, l’anima del poeta, impaziente di trasposizioni scherzose o letterarie, erompe a confessare nei modi più diretti la sua disperazione di vivere. Ma non potrà negare, attraverso il maggiore o minore addensarsi del flusso poetico circolante in quelle pagine, e in quelle stesse in cui la prosa mostra più aridamente il suo tessuto accademico, la fondamentale unità di tono e d’accento, quale è data dalla particolare situazione in cui la mente leopardiana è venuta a trovarsi, bisognosa di filtrare cautamente e dubitosamente in poesia le meditazioni lungamente dibattute e perseguite, così come la sostanza delle sue letture solitarie, attraverso una tipica scelta di schermi immaginativi e di difese erudite e stilistiche. Lo stesso ricorso ai generi compositi ed elaboratissimi del saggio morale e del dialogo umoristico, dai loro precedenti classici fino a Voltaire, è in sé rivelatore. Così la presenza dei modelli letterari esercita, nelle Operette. una funzione fondamentale: come le movenze dello stile memorialistico o trattatistico di Senofonte o di Cicerone nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri e nel Parini ovvero della gloria, o lo sprezzato agio lucianesco in dialoghi come quello tra la terra e la luna, o di un folletto e di uno gnomo ecc. E si pensi ad esempio all’utilizzazione, nel Cantico del gallo silvestre, che lo scrittore fa dei dati mitici e biblici reperiti nel Buxtorf, fino a spruzzare in qualche punto la sua prosa di un colorito orientaleggiante: ma non più che una vaghissima suggestione. Unità di tono e di accento che è, a ben vedere, così stretta e decisa, da impedirci di collocare idealmente quella pur «vera» poesia in versi che è il Coro di morti aprente il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, nell’ordine dei Canti: tanto, pur nella sua poetica intensità, essa è disforme dai modi pur variati della lirica leopardiana, e, nelle sue gravi e distese e squallide cadenze affermative e interrogative, nella sua oggettiva anonimità di «coro», rivela un voluto distacco ed estraneità dalla biografia del poeta, situandosi invece naturalmente fra i tratti più alti delle Operette.
Così, dove le persuasioni e conclusioni pessimistiche del suo pensiero avrebbero potuto condurre il Leopardi a qualcosa come un grido impietrato, un’immobile protesta, egli, stancandone e come ottundendone l’aculeo in quelle svagate fantasie derivate dai diletti studi, nella ricerca di una perspicuità stilistica assai prossima, almeno quanto alla sua puntuale elaborazione, a quella cui tende il lirico, giungeva a creare, nelle Operette morali. una sorta di temperie poetica ambigua e vagamente consolatoria, che può in qualche modo ricordare quel «bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto», che confortava l’infelice Tasso prigioniero nella conversazione col suo genio familiare.
Ebbe Leopardi coscienza del carattere strutturalmente poetico delle Operette? Per quanto rivendicasse, nella sua corrispondenza, «l’argomento profondo e tutto filosofico e metafisico» del suo libro, «pur scritto con leggerezza apparente», la dichiarazione, in una lettera al padre, di aver voluto fare «poesia in prosa, come s’usa oggi», pare assai più di una scusa. E tuttavia egli comprendeva il tempo della loro composizione (come è noto le prime venti vennero stese, tutte di seguito, nel 1824), in quel periodo di aridità durato quattro anni (1824-1828), che, alla fine, si dischiuse improvvisamente all’erompere degli affetti nella loro sfogata espressione lirica con le balzanti strofette del Risorgimento: la sola poesia, nei Canti, di quel tono e di quel metro. Ché forse questa storia interiore di un alternarsi di aridità e di sentimento, di chiusa amarezza e noia e di patetico sfogo, che costituiva il diagramma segreto della vita affettiva del poeta, era materia troppo grave, nella sua assolutezza di destino, da poter essere svolta nei consueti modi, pur larghi e profondi, dello sciolto e della canzone libera, e da consentire altra soluzione che quella di essere fuggevolmente toccata dalla grazia canora, un po’ esteriore e futile, della canzonetta metastasiana. Veniva comunque a riprodursi, così, l’alternanza del primo termine dell’ispirazione leopardiana, il riconquistarsi all’intimità dell’empito sentimentale, dopo la ricognizione oggettivamente distaccata della situazione propria del poeta e degli uomini in genere, con le sue accorte difese di erudizione, ironia e fantasia. E si riproduceva in modi straordinariamente agevoli e flessuosi, dopo la lunga macerazione nella prosa delle Operette morali e dei volgarizzamenti dal greco, che aveva per segrete vie nutrito di sé la futura ispirazione, nel senso dell’idea del Paciaudi, dallo stesso Leopardi lodata nello Zibaldone. circa la prosa necessaria nutrice del verso. La fermentazione lirica delle prime Canzoni ed Idilli tendeva ad operarsi di colpo, formulandosi sopra un quadro di estatica intemporalità. L’infinito e Alla luna sono momenti senza pausa o modulazione, conclusi in se medesimi, come, peraltro, il tragico lamento di Saffo su quella splendente visione di campagna alla prim’alba. Nella Sera del dì di festa e nella Vita solitaria, sono ben sensibili gli stacchi e le frammentazioni. E dove, come nel Sogno, lo svolgimento si complica di una linea narrativa, i diversi piani dell’ispirazione si ottundono a vicenda, e l’accento più profondo si rifugia nella rassegnata pensosità della clausola gnomica:
Vano è saper quel che natura asconde
agl
all'immatura sapienza il cieco
dolor prevale.
Nei secondi Idilli sul tono estatico si afferma il discorsivo. E, anche qui, appare, almeno in parte, frutto della macerazione prosastica la nuova sapienza di intervalli, di riprese, di trascorrenti evocazioni che sollevano a una così precisa architettura sentimentale lo spezzato lamento di A Silvia, mentre, ne Le ricordanze, la pur vivace tensione emotiva sembra appena increspare il flusso pacato della confidenza autobiografica, e le pause del suo assorto divagare.
Nella nuova discorsività, s’accenna una prima sintesi dei due movimenti che formano lo sviluppo dell’ispirazione leopardiana, e il pensiero, ormai sciolto da ogni precedente logico o dialettico, sembra ridursi al suo disegno o scheletro emozionale, fino a far tutt’uno col «respiro». Della sua dolente esperienza del mondo e della vita, delle sue ricognizioni e avventure culturali, il poeta non ha trattenuto che i succhi di amara e rassegnata conoscenza, mentre le favole e le argomentazioni in cui altra volta questa si incarnava, egli ha da tempo dimesso e consegnato ai divertimenti eruditi delle Operette. E se anche, come nel Passero solitario, nella Quiete dopo la tempesta e nel Sabato del villaggio, la moralità sopraggiunge all’evocazione del quadro idillico e come conclusione di questo (seppur di quadro si può parlare, tanto l’evocazione ne è trascorrente e per così dire magicamente illusoria), lo stacco è appena avvertibile, e quasi espertissima, e come stancata e voluta concessione ai modi tradizionali (ma un analogo movimento non c’è pure in A Silvia!). Lo spunto del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, la notizia ricavata dal Meyendorff attorno alle melanconiche cantilene dei pastori nomadi dell’Asia centrale, non è più che un pretesto quasi inconsistente a quelle generalissime domande e considerazioni sul nascere e sul morire, cui solo l’accento conferisce l’inequivocabile, struggente individuazione, e il raggio lunare quell’ultimo, stremato colore: a tal punto che a qualche critico è apparsa un’ingiustificata intrusione figurativa la petrarchesca immagine del «vecchierel» nella seconda strofa.
Ma nei canti «amorosi» del Pensiero dominante e di Amore e Morte il processo di dissoluzione della linea riflessiva in pura linea sentimentale sembra farsi completo. E non resterebbe qui che seguire i modi, le strutture della riflessione leopardiana dalle libere annotazioni dello Zibaldone al divertito contrappunto ragionativo- fantastico delle Operette morali fino a questi Canti, dove, del ragionamento disfatto, più non residuano che solenni e squallide apostrofi ed esclamazioni:
Di tua natura arcana
chi non favella? il suo poter fra noi
chi non sentì?
Come solinga è fatta
la mente mia d’allora
che tu quivi prendesti a far dimora!
o constatazioni delle immodificabili verità del sentimento:
Quando novellamente
nasce nel cor profondo
un amoroso affetto,
languido e stanco insiem con esso in petto
un desiderio di morir si sente:
come
fino alle battute leggermente caricate, quasi d’intimo teatro, dell’A se stesso, che si concludono con un preannuncio di quell’inno Ad Arimane che il poeta non mai compì, forse perché il suo argomento mitico e universalistico, già in parte assorbito nell’esperienza delle Operette morali. mal si sarebbe piegato al nuovo accento d’altissima intimità. Mentre sotto il segno della medesima qualità ispirativa sono da porsi i canti «sepolcrali», dove il riprodursi dello spunto descrittivo non altera il carattere di quelle sostenute meditazioni e commemorazioni, che è di tendere a risolversi in puro disegno, si direbbe ancora, musicale, se non si trattasse di una musica tanto distesa e come spenta da sembrare quasi spoglia di suono, musica pensata e auscultata più che cantata.
Ma il processo di assorbimento del pensiero in sentimento e musica ha pur sempre a fronte, nell’ideale sviluppo leopardiano, l’altro movimento opposto, di dilatazione, di rovesciamento all’infuori dell’esperienza vitale ed intellettuale, anche se, per avventura, destinata a bruciarsi ove giunga al punto della sua contraddizione, e a reagire nei modi del sarcasmo e della satira. La zona mediana fra i due movimenti sembra segnata da Aspasia, dove una insistenza nuova tende a fissare la visione iniziale – non più, come negli Idilli. soltanto evocata e come rapita dal trascorrere del flusso emotivo – nelle squisitezze del particolare colorito e del «tutto tondo», e dove la riflessione successiva, tenuta sul registro agevole e basso del ravvisamento e del disincanto, sfiora addirittura, in qualche tratto, le movenze sarcastiche, elette e sostenute della Palinodia al marchese Gino Capponi.
Ma siamo, qui, ad una nuova svolta di quello sviluppo. Lo Zibaldone era, al tempo della composizione di Aspasia, fermo definitivamente da due anni, e già del resto esso era andato sempre declinando, quanto ad assiduità e foltezza d’annotazioni, dagli anni fra il 1821 e il 1824, preparatori delle Operette morali. Nel 1834, i diletti quaderni filosofici e filologici erano ormai più soltanto una miniera di appunti per l’elaborazione dei Pensieri, e si sa che Leopardi pensava a una riassunzione dei suoi temi psicologici e morali, a una messa a punto del suo «sistema». Ma i Pensieri non sono sistema, né d’altra parte è permesso, come pure taluno ha tentato di fare, semplicemente risolverli nei loro elementi di umore e di stile, alla stregua di «operette». Leopardi riassumeva e continuava semplicemente, se pure nei modi più precisi e sorvegliati che si addicono alle opere destinate al pubblico, la sua coraggiosa esplorazione mentale del mondo e del cuore umano. E frattanto si affacciava, coi Paralipomeni della Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi. a una considerazione satirica dell’attualità sociale e politica, cui lo predisponevano tante pur concrete riflessioni dello Zibaldone sulle civiltà antiche e moderne, le umane società e i loro reggimenti.
Il disinteressato impegno di Leopardi, l’ardire intellettuale con cui fin da giovinetto, nel suo dimenticato cantuccio di provincia, in un ambiente fra i più conformistici e retrivi che potessero darsi al suo tempo, osò bruciare le tappe del razionalismo moderno, e giungere fino ad una totale eversione delle «superbe fole», delle pie menzogne elaborate dalla tradizione per consolarci del male di vivere, hanno fatto, e non senza qualche ragione, riconoscere in lui un pensatore «progressivo», anche se i suoi scarsi temi positivi dell’intensità vitale e delle illusioni eroiche, in opposizione alla indifferenza della Natura e al tedio pesante del secolo, anticipano i motivi irrazionalistici che saranno più tardi di Nietzsche e dell’esistenzialismo, più certo che gli sviluppi dell’idealismo romantico, ch’egli ignorò e a cui non può che apparirci profondamente estraneo. Altri ha ravvisato nella sua disperata negazione un fondo religioso, una sorta di mistica illuminista, che fa volta a volta del Nulla, o della Natura, una cieca divinità distruggitrice, o creante per distruggere, e in ogni caso una solenne ipostasi trascendente. Può dirsi, in un certo senso, che proprio perché Leopardi seppe spingere coraggiosamente all’estremo i motivi dell’intellettualismo sensistico, giungendo a immobilizzare i poli dinamici della vita in una statica oggettività, e a perseguire perciò il bene, la felicità, e lo stesso piacere, come entità concrete, era destinato ad esaurirsi in una sete di assoluto, e perciò a non superare, nella sua pur strenua e lucida ricognizione, il punto della negatività.
I Paralipomeni della Batracomiomachia. nella loro apparenza di scherzo satirico ed eroicomico, ci mostrano, quasi per figure d’allegoria, e sia pure sotto il limitato aspetto del riferimento alle cose italiane d’allora, la finale irresolutezza e paralisi del pensiero leopardiano. Letterariamente, essi rappresentano un ritorno allo spirito parodistico che anima alcune Operette morali. come i primi dialoghi lucianeschi (una traccia in più, forse, di nostalgia per certe umoristiche invenzioni raccontate ai fratelli negli ozi puerili di Recanati), e le qualità di stile dell’elaboratissimo poemetto, compresa l’incantata fermezza di certe aperture paesistiche, appartengono allo stesso ordine d’affetti mediati e riflessi, strettamente contrappuntati dalla perspicuità sintattica e prosodica. Ma, poiché la forza di una satira, come tale, è soprattutto in ragione della sua efficacia ad incidere nel vivo di una situazione storica, è da osservare che, mentre la caricatura della reazione europea, rappresentata dall’Austria, è vivissima e mordente, e i motivi ne sono ben chiari alla mente del poeta, quella, parallela, dei liberali italiani, per quanto s’indovini in tanti punti fatta a controcuore, e sebbene essa colpisca anche insufficienze ben reali, non cessa d’apparire ingenerosa, almeno ai nostri occhi di posteri. E, se il blocco di una eguale negatività colpisce entrambi i termini dello sviluppo storico, si pone allora l’esigenza di una parola che superi la contraddizione. Ma a questo punto sopraggiunge simbolico l’episodio finale, in cui il conte Leccafondi, vista preclusa ogni via di salvezza per la sua patria topesca, va a chiedere consiglio al vecchio generale Assaggiatore, personaggio portavoce dello stesso Leopardi. E, appena questi prende a parlare, l’antico manoscritto da cui si suppone tratta la storia si rivela incompleto, e il poemetto si chiude.
La verità è che la negatività del pensiero leopardiano era destinata a trovare, come abbiamo visto, un ben altro riscatto. La ferita che la realtà aveva inferto all’anima del poeta non poteva conchiudersi con la sostituzione di una religione mondana in luogo di quella trascendente, né con alcuna circostanziata speranza o agire storico. Essa doveva restare aperta, il risentimento verso la maligna natura inconsolabile, l’illusione svelata e pur reale come ratto del cuore e slancio d’inconsapevole vitalità. La salvezza rimase per lui individuale, e pur universalmente partecipabile, come quella che si attua nelle forme della poesia. Tutto quanto egli avrebbe potuto fare, per gli uomini, sarebbe stato di assumere in quelle stesse forme il suo slancio di rassegnata e affettuosa compassione per essi. Già nel Dialogo fra un venditore di almanacchi e di un passeggere l’ironia cede all’accorata comprensione della speranza illusoria e pur necessaria e costitutiva del vivere. E quando, nella Ginestra o il fiore del deserto, egli finalmente s’affaccia dal desolato contrafforte vulcanico alla cava immensità serena, a quei
nodi quasi di stelle
ch
e ad essi compara la nullità della nostra specie, il precedente appello a una fratellanza di tutti gli uomini, abbracciati «con vero amor», affinché s’uniscano «in social catena» contro la nemica Natura, acquista un nuovo trepido e generoso senso. Così come la stessa polemica dei Paralipomeni della Batracomiomachia e della Palinodia al marchese Gino Capponi viene a perdere la sua circostanziata acerbezza, e ad assumere, in quel clima tanto più alto e sereno, una nuova autorità:
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà,
Di fatto, nel progressivo svilupparsi del suo duplice movimento d’interiorizzazione e d’acquisizione, la poesia leopardiana stava superando un nuovo gradino, e richiamava a poco a poco sotto lo stesso segno di suprema giustificazione sentimentale cui s’erano impressi i motivi più intensamente legati all’intima biografia affettiva del poeta (il mare dell’infinito sfociante sulla vetta del monte Tabor, il canto di Silvia al telaio, le stelle dell’Orsa splendenti sul giardino di Recanati), anche le vaste prospettive geologiche e cosmiche e i panorami mitici e preistorici che, indirettamente suscitati da letture e meditazioni solitarie, altra volta si aprivano nei mezzi toni lirico-prosastici delle Operette morali: e forse avrebbe finito col risolvere, e in certo senso dissolvere, le stesse ire e sdegni e razionali rivolte che formavano il sovente ingrato fondo delle epistole satiriche in versi. Nei concreti simboli del devastato paesaggio vesuviano e della fragile ginestra, come nella grande metafora della vita umana che si dispiega alla luce argentea e pacata del Tramonto della luna, è già un senso nuovo, di consapevole virile e rassegnata accettazione della nostra tormentata condizione di uomini.
Così la «filosofia» leopardiana tendeva integralmente ad assumersi nei modi della poesia, riconoscendosi nella sua più naturale luce di verità. All’illusione di un punto d’arrivo, di una soluzione filosofica e ragionevole del mistero della vita – in un mondo che ignora soluzioni e conclusioni se non particolari e provvisorie – veniva così a sostituirsi quello che, sia pure per diversi cammini, è il risultato sicuro di ogni concreta filosofia e poesia: un approfondimento della coscienza di esistere. Ed è la presenza di un tale approfondimento che, perseguito lungo le scoscese pareti del male, della negatività e della morte, dimostrò per pura via intuitiva la finale irreducibilità ad essi della vitalità e del sentimento, a conferire all’opera di Leopardi quel carattere di attualità che, mentre lo costituisce fra i grandi classici della poesia d’ogni tempo, fa della sua esperienza umana e poetica una sorta di modello per la nostra operosa disperazione di moderni.
Volendosi offrire, del massimo dei nostri lirici moderni, che fu anche uno dei nostri maggiori prosatori, una raccolta pressoché completa in due volumi, che includesse buona parte degli inediti, oltre ad una vasta scelta dello Zibaldone e delle Lettere (a tale scelta sarà dedicato l’intero secondo volume), il compito che ci eravamo assunti per la composizione di questo primo volume diventava particolarmente delicato, come sempre allorché si tratta di un problema di «esclusioni».
Il lettore troverà, nella prima parte del presente volume, il Leopardi poeta. Al testo completo dei Canti fanno seguito le principali poesie «extravaganti» o inedite durante la vita del poeta, dal giovanile Inno a Nettuno fino alla satira napoletana I nuovi credenti (ci siamo spinti addirittura ad offrire, nel suo testo integrale, la cantica L’appressamento della morte, essenzialmente per il suo valore autobiografico nella formazione del giovinetto Leopardi). Abbiamo invece dovuto escludere, oltre ai numerosi puerilia, di scarso valore in sé, le due mediocri canzoni Nello strazio di una giovane fatta trucidare col suo portato ecc. e Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, e ciò anche in omaggio alla condanna datane, più tardi, dallo stesso poeta. Abbiamo, in secondo luogo, offerto il testo quasi completo degli appunti ed abbozzi poetici, così intimamente rivelatore del modo di formarsi della ispirazione leopardiana.
Abbiamo infine curato, sempre integralmente, il poemetto satirico Paralipomeni della Batracomiomachia.
La seconda parte comprende il Leopardi prosatore. Il lettore vi troverà il testo completo delle Operette morali e dei Pensieri, arricchito, oltre che di una Appendice alle Operette, di una larga scelta di altri scritti editi o inediti in vita del poeta, fra cui l’importantissimo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Anche qui, trascurando qualche giovanile scritto erudito di scarsa importanza, o i primi abbozzi di Operette. di esiguo significato, abbiamo fatto ampio luogo agli appunti autobiografici, come quelle Memorie del primo amore o quei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, destinati all’ideato romanzo Storia di un’anima, anch’essi, pur nella loro provvisoria stesura, cosi intensi, e utili a documentare l’interna nascita della poesia e del pensiero leopardiani. Sempre in questo spirito abbiamo prescelto, dalla trascuratissima operetta del Leopardi diciassettenne, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, il Capo VII, completo in sé quale specimen di essa, e contenente importanti preannunzi della futura ispirazione.
La terza parte è dedicata ai «volgarizzamenti» poetici e prosastici, e il lettore troverà, dalle giovanili versioni di Mosco, preparatorie degli Idilli. fino alla terza e più matura traduzione della Batracomiomachia pseudo-omerica, dal saporoso divertimento erudito della versione pseudotrecentesca del Martirio de’ santi Padri fino al Manuale di Epitteto, le più importanti versioni dall’antico dovute all’infaticabile stilista e filologo che fu Leopardi.
Per quanto riguarda le note di commento, esse, conformemente allo spirito della collezione, hanno carattere meramente filologico ed esplicativo del testo. Specie per quanto riguarda i Canti, i richiami ai precedenti e ai riecheggiamenti poetici, greci, latini e italiani, sono stati volutamente contenuti al certo e all’essenziale, escludendosi quelle compiaciute divagazioni critico-erudite cui un poeta come Leopardi, così intimamente pervaso di classicità, solitamente si presta.
Particolare attenzione si è avuta, nelle note di commento, nello stabilire le interne corrispondenze tra i diversi luoghi leopardiani, allo scopo di offrire al lettore, per quanto possibile, il vivo senso del procedere unitario di quella ispirazione e formazione, nel suo duplice aspetto di fantasia poetica e di pensiero riflesso. Ci è parso in particolare indispensabile, soprattutto nel commento alle Operette morali e ai Pensieri, istituire gli opportuni riferimenti e confronti coi luoghi dello Zibaldone che ne costituiscono la fonte e, talora, il letterale o quasi letterale precedente.
Quando il riferimento non è seguito da una citazione apposita o da una particolare spiegazione, deve per lo più intendersi che il passo delle Operette o dei Pensieri non rappresenta, del corrispondente luogo dello Zibaldone. altro che la trascrizione più o meno letterale. Comunque, la trama dei riferimenti avrà, per quanto possibile, i corrispondenti richiami nel secondo volume, la cui più grande parte sarà dedicata alla scelta dello Zibaldone.
Particolari difficoltà hanno offerto le note di commento agli scritti giovanili, poetici e prosastici, in cui, come si sa, il giovinetto Leopardi era consueto abbandonarsi a sfoggi della sua precoce erudizione; e quelle degli abbozzi e frammenti autobiografici in prosa, dove si è tentato, fin dove possibile, di concretare in riferimenti precisi le spesso vaghe allusioni leopardiane. Si aggiunga il fatto che molti scritti, per quanto mi consta, non erano mai stati finora annotati da alcuno, e si era pertanto costretti ad affrontare un territorio vergine.