Giacomo Leopardi: Opere, Tomo II – Introduzione
Nel primo tomo delle Opere abbiamo offerto il Leopardi, per così dire, rivolto al pubblico, vuoi effettivamente, vuoi intenzionalmente. Non solo le maggiori opere pubblicate in vita, o comunque compiute, o quasi, come i Paralipomeni della Batracomiomachia. ma anche un’ampia scelta degli scritti minori, editi o inediti in vita, dei volgarizzamenti, nonché delle tracce, degli abbozzi, degli appunti che restarono puro tentativo o germe: impressi comunque, gli uni e gli altri scritti, da quel segno di oggettivazione che lo scrittore, consciamente o inconsciamente, appone alla parola che intende, o progetta, di destinare agli anonimi «altri».
In questo tomo si offre invece una scelta del Leopardi «privato» e «familiare». Il Leopardi che parla, come nello Zibaldone. da sé a se stesso, anche se il più di quelle idee egli vagheggiava di trasporre e di fissare in opere costruite, ed alcune effettivamente vi traspose: il Leopardi che traccia, nel chiuso della sua esperienza vitale, il diagramma dei suoi rapporti con l’universo attorniante. Quindi, il Leopardi che si rivolge ai familiari, agli amici, agli estranei, puntualizzato nei legami e nei riferimenti della vicenda biografica, volta per volta definito negli aspetti della fisionomia parzialmente rivelati agli altri, nei nodi sempre delicati e problematici di una esistenza in isviluppo attraverso le relazioni con le sue simili: il Leopardi epistolografo.
I. Nello Zibaldone sono riconoscibili, di colpo, due settori ben distinti e indipendenti fra loro, anche se molte osservazioni sulla formazione e sui caratteri delle lingue antiche e moderne, e di quella italiana in ispecie, fanno, in qualche modo, da ponte fra l’uno e l’altro: quello strettamente filologico e quello filosofico-morale.
Quanto al Leopardi filologo, di esso è stata recentemente rivendicata l’importanza: e si è auspicata un’edizione completa delle opere sue in questo settore. Le note filologiche e linguistiche dello Zibaldone ci offrono, per così dire, un Leopardi specialista, il cultore appassionato di una disciplina positiva, anche se strettamente collegata ai suoi interessi di poeta e di letterato. Tuttavia, agli effetti di quella appassionata intrapresa di «ricognizione del mondo» che lo Zibaldone rappresenta, per quanto l’habitus filologico (un amore per le conoscenze precise, per i dati dimostrabili) abbia anch’esso un carattere determinante nella formazione di questo pensiero, è ovvio che le altre, ossia le note filosofico-morali, risultino, nell’economia generale dello spirito leopardiano, di una ben altra rilevanza.
Tanto più che, mentre l’interesse filologico di Leopardi, pure così concreto e fertile, e rispondente a una fondamentale inclinazione del suo genio, può genericamente ricondursi a un gusto diffuso dell’epoca, esprimentesi in un movimento di riscoperta erudita, quale il classicismo imperante favoriva nei letterati, l’altro interesse, quello di natura filosofica, si innesta sulla precisa, inconfondibile forma di un destino personale. In altre parole, in ragione diretta delle difficoltà della sua formazione giovanile, degli accidenti che la travagliarono, e del precoce isolamento che ne conseguì nell’ambiente familiare e tradizionale toccatogli in sorte, il rendersi ragione, il toccare con mano, il riconoscere attorno a sé il proprio orizzonte esistenziale, si poneva per il giovane Leopardi come una grave necessità, quella di prospettarsi, prevenendola nella più assoluta chiarezza della coscienza, l’offesa della vita e lo sfiorire dei cari inganni e delle illusioni.
È bensì vero che in un tale spirito, precedendo di quattro anni quella ch’egli chiamerà la sua «mutazione filosofica», il Leopardi diciassettenne aveva composto il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. ricollegandosi ai precedenti illuministici di Bayle e di Fontenelle. Una prima, puerilmente divertita, intrapresa di demolizione delle illusioni. Per quanto, trattandosi di errori e di illusioni ormai da gran tempo dissipati, tutto si risolvesse in un gioco letterario, anche questo gioco era significativo d’una iniziale disposizione.
Ora, è bene dir subito che il Leopardi pensatore, a differenza di quanto talvolta si è ritenuto, è pressoché interamente circoscritto, nei suoi motivi e nelle sue articolate analisi e deduzioni, che solo nel loro complesso succedersi e procedere ci garantiscono sulla loro esatta portata e sul loro significato, alle note dello Zibaldone. Ché, ad eccezione dei due grandi saggi rispettivamente sulla poesia romantica e sui costumi degli italiani, dove il pensiero originario appare ulteriormente sviluppato, consolidato e messo a punto, tanto nelle Operette morali quanto nei Pensieri egli ci ha offerto, per così dire, soltanto il succo, il precipitato di quelle sue meditazioni, recidendone i compatti legamenti dialettici e infondendovi il lirismo della considerazione patetica e il divertimento dell’invenzione letteraria, o isolandone i nuclei nella grazia un po’ arida dell’aforisma e della battuta paradossale. Oggi si sa che il più vero pensiero di Leopardi è, come quello di Montaigne, un pensiero in movimento: lo si coglie non tanto nelle sue conclusioni e affermazioni generali, quanto nel suo procedimento irrequieto e rigoroso, nell’incessante ripetersi e svilupparsi dei suoi motivi essenziali.
Inoltre: per quanto rari e come accidentali siano i riferimenti ai casi della vita privata, e, salvo che nelle note dell’inizio, più slegate e di carattere più propriamente diaristico, siano addotti il più spesso a esemplificazione di verità generali (il disegno auto-biografico è implicito, nello Zibaldone. non mai appariscente), occorre pur sempre ammettere che questo libro rappresenta un documento intimo, il resoconto quotidiano di una esplorazione di sé e del mondo dal punto di vista mobile di una esistenza che continuamente si interroga lungo il decorso temporale, mentre le stesse frequenti riassunzioni sistematiche vengono di continuo dissolte e modificate dalle riflessioni successive. E non per nulla è parso naturale sostituire il titolo con cui venne la prima volta dato alle stampe di Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, col nomignolo tra ironico e familiare che Leopardi gli aveva apposto nel suo «indice», quasi a sottolineare il carattere privato, o quanto meno lo stadio iniziale e privato, e perciò provvisorio e caotico, delle sue meditazioni attorno ai più vari argomenti.
Se teniamo fermo il carattere di diario sia pure implicito, proprio dello Zibaldone (e la datazione dei vari pensieri, che, assente nelle più rade note dei primi tre anni, ossia dal luglio 1817 al luglio 1820, si afferma successivamente con quasi costante precisione, ci assicura dell’importanza che Leopardi annetteva al loro collocamento temporale), saranno, appunto, gli affioramenti della vicenda biografica in esso documentati ad offrirci l’angolatura più esatta sotto cui considerare la portata delle sue riflessioni. Quando, nel poeta ventunenne, sopravviene la «mutazione filosofica», questa verrà posta in coincidenza di un periodo di forzato riposo a causa di una malattia degli occhi, la quale, distogliendolo dall’unica distrazione consentitagli dalla chiusa vita recanatese, le amate letture, gli procura l’esperienza diretta di un approfondimento del dolore, per cui comincia «a sentire la sua infelicità in un modo assai più tenebroso... ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose... a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale».
È Leopardi stesso, probabilmente attraverso una mitizzazione intima dell’episodio biografico (più che ad una particolare esperienza si deve pensare, nel caso suo, ad una struttura fondamentale del destino), ad attribuire alla sua «mutazione» o conversione filosofica i caratteri che per altri ha la conversione religiosa: ossia di una rivelazione che lo sforza dall’esterno incidendo su di un nodo vitale, per cui egli comincia a «sentire» l’infelicità del mondo in luogo di semplicemente «conoscerla».
Leopardi è, e non è, un filosofo. Se egli si fosse deliberatamente destinato alla filosofia come ad una scienza «in forma», nello stesso modo distaccato e obbiettivo – se pur sempre fervido – con cui aveva intrapreso gli studi filologici, uno spirito coerentemente sistematico come il suo avrebbe probabilmente cominciato con una gnoseologia, una preventiva analisi del pensiero come strumento di conoscenza. Né, in tale sede, egli avrebbe probabilmente tralasciato una revisione di quel materialismo che, pur assumendo, nella formazione generale del suo spirito, sia sotto l’aspetto poetico sia sotto quello filosofico, una «funzionalità» e una ricchezza d’implicazioni singolarissime, egli aveva ereditato un po’ frettolosamente, nelle sue linee generali, dalla filosofia sensistica del secolo precedente, ignaro, fra l’altro, della rivoluzione che quel Kant, non mai letto ma da lui talvolta vagamente nominato come esponente di una disposizione astrattizzante e metafisica della mente teutonica, aveva apportato con la sua critica, aprendo un nuovo corso al pensiero moderno. Quel materialismo che, diversamente da quanto avveniva per gli illuministi settecenteschi, i quali se ne avvalevano, in definitiva, come di una pierre de touche per l’ottimistica dissipazione dei terrori e delle superstizioni, da lui invertito di segno e spinto alle sue conseguenze estreme, mentre lo aiuta ad eliminare, insieme all’innatismo platonico, ogni varco con il trascendente, in pari tempo, riconducendo le idee alle sensazioni, e di lì alla pura materia, e verificandole quindi nella loro glaciale obbiettività, finisce con l’agire come un prepotente stimolo alla sua patetica e grandiosa vertigine e brama del nulla.
Quanto meno, una filosofia «in forma» avrebbe cominciato con l’offrire definizioni logiche dei concetti ch’egli di continuo dibatte nei suoi lunghi corsi meditativi, come Natura, Ragione, Spirito, Corpo, Illusione, ecc., e che in lui rimangono tanto dialetticamente indeterminati quanto potentemente di volta in volta tracciati, o scalfiti, o sbozzati nella materia d’una appassionata indagine: talvolta sul punto di trasformarsi addirittura nelle figurazioni fantastico-mitiche delle Operette, talaltra ombreggiati sul loro sfondo, con la vaghezza necessaria ad esprimere più incisivamente, per contrasto, il tratto di realtà che lo interessa in quel momento. E, benché sia evidente la corrente filosofica che sta a fondamento della speculazione leopardiana, ossia perlappunto il pensiero sensistico e in genere illuministico francese, da Montesquieu a Helvétius a D’Holbach a Rousseau, fino ai di lui più prossimi ideologi, con le loro radici in Locke, è spesso difficile indicarne volta a volta le fonti, tanto quei precedenti sono stati da lui profondamente dissolti e assimilati attraverso l’esercizio diretto dell’osservazione e della deduzione. Né, va da sé, all’infuori delle frammentarie citazioni, per la più parte tratte da letture in corso, e di qualche occasionale richiamo, Leopardi mai si preoccupa di riconoscere e ricostituire le premesse storiche del suo «sistema», che egli riferisce genericamente alla «filosofia moderna», a quei «lumi d’oggidì», così «profondi, sottili e universali», cui muoveva il paradossale elogio, che è insieme una condanna, di essere «interamente sterili d’errore», al punto da non consentire più alcun errore «il quale pur dia qualche vita al mondo».
La verità è che Leopardi non ha tempo da perdere. Il bisogno di collocarsi nell’esistenza, di riconoscere la realtà attorniante, si presenta in lui supremamente spontaneo, al pari della ricerca poetica, ed egli vi provvede in pochi anni di assidua e affannosa elaborazione, con gli strumenti che ha sottomano, quali gli provengono dall’ultima grande ideologia innovatrice, col solo scrupolo di tracciare i lineamenti di essa realtà con la maggiore precisione possibile, e in pari tempo di porli in relazione con una visione complessiva e coerente del mondo. Di qui l’esigenza del «sistema», su cui egli ripetutamente ritorna, con puntigliosa chiarezza, fino alle ultime parti dello Zibaldone. Ma, sia per l’assenza dell’iniziale impostazione gnoseologica e logica, sia per l’incertezza dei suoi points de repère, il pensiero di Leopardi, pur senza mai confessatamente contraddirsi, anzi di continuo riconfermandosi e riconducendosi a se medesimo attraverso una fittissima rete di rimandi, insensibilmente sposta di continuo il suo punto d’osservazione, rendendo, nonostante i ricorrenti tentativi di riassunzione, del tutto impossibile una sua esatta «triangolazione», se non in termini estremamente generali. Perciò le sue contraddizioni sono soltanto tali sul piano spesso accennato, ma non mai raggiunto, delle conclusioni definitive, mentre non lo sono sul piano dell’analisi attuale e puntuale, dove possono coesistere senza vero e proprio contrasto, come diverse illuminazioni portate, da un punto di vista diverso, sul medesimo ordine di realtà. Tuttavia, se gli fa difetto la costruzione logica e sistematica, che conclude in modo univoco ed inequivoco una visione del mondo, e che è propria, almeno tendenzialmente, del filosofo, in compenso egli, sottraendosi alla clausura delle definizioni immodificabili, conserva, attraverso i suoi istintivi spostamenti di visuale, la ricca libertà di prospezione e d’analisi che fa di lui uno dei maggiori fra i nostri moralisti e saggisti.
Si pensi, ad esempio, ad uno dei suoi grandi temi centrali, a quella sua idea della Natura, oscillante fra l’immagine di una entità fondamentalmente provvida e benigna, disponente i mezzi adatti ai propri fini, secondo il teleologismo tradizionale del pensiero settecentesco, e che solo la civiltà prodotta dall’umana ragione inevitabilmente tradisce e corrompe, come aveva già visto Rousseau; e l’altra immagine di un infinito potere nemico all’uomo, indifferentemente creatore e distruggitore, senza scopo né senso, almeno umano, identificantesi talora con lo stesso principio del male, con quell’Arimane per cui il poeta progettava un suo grandioso inno. Dove si è pure preteso di ravvisare il passaggio da una a un’altra concezione fondamentale dell’universo, mentre, a un attento controllo, entrambe le immagini risultano coesistenti lungo la meditazione leopardiana, di volta in volta l’una o l’altra verificata sull’esperienza, o magari l’una e l’altra commiste e come confuse in una pluralità d’ipotesi: «Quando io dico: la natura ha voluto, non ha voluto, ha avuto intenzione, ec., intendo per natura quella qualunque sia intelligenza o forza o necessità o fortuna, che ha conformato l’occhio a vedere, l’orecchio a udire; che ha coordinati gli effetti alle cause finali parziali che nel mondo sono evidenti» (1828).
L’idea pessimistica si affaccia inesorabile in Leopardi, fin dall’inizio, allorché, contrapponendo Natura e ragione, e attribuendo a quest’ultima la caduta dell’uomo dal beato stato originario, e pur sforzandosi di distinguere fra una ragione «primitiva» o naturale, e una ragione «eccessiva» e corrotta, lascia tuttavia intendere che fatalmente, un passo più in là, una meditazione appena più rigorosa avrebbe finito col riconoscere nella Natura – la quale, creando l’uomo, ha posto in lui la ragione – la causa prima della infelicità dei viventi. Spunti non mancano in riflessioni che risalgono al 1821. È noto poi che appena un mese (aprile-maggio 1824) intercorre fra la stesura del Dialogo della Natura e di un’Anima, dove la Natura è ancora incolpevole, e quella del Dialogo della Natura e di un Islandese, dove la concezione «negativa» si dispiega a pieno. E sarà questa a prevalere negli ultimi anni, in cui Leopardi approda definitivamente, pur attraverso i suoi consueti sottili spostamenti – ma sviluppando germi già presenti nella sua primissima meditazione –, dalla desolata constatazione dell’immedicabile dolore umano, alla prospettiva metafisica del dolore universale e cosmico.
Numerose interpretazioni, volta a volta più o meno sforzate, più o meno tendenziose, sono state tentate del pensiero di Leopardi, e, mentre neppure le più serie, motivate e coerenti, riescono a comprendere sotto di loro interi svolgimenti che, a parte la loro perspicuità puntuale, male riescono a fondersi con le linee meglio rintracciabili del suo decorso, rendendo pur sempre inevitabile una sforzatura, non mancano neppure tratti e luoghi anche ampi che sembrerebbero autorizzare persino le più azzardose. Così, principalmente sul fondamento di una serie di pensieri giovanili sulla religione cristiana (dicembre 1820), non è mancato neppure qualche solerte interprete affaticatosi a sfatare l’immagine, che pare ovvia, di un Leopardi materialista e ateista, per presentarci addirittura un Leopardi cristiano. Laddove, in questa singolarissima «apologia del Cristianesimo» – sulla quale del resto mai egli ritornò nel suo pensiero più maturo –, si formula, come altrove, una mera, come oggi si direbbe, «ipotesi di lavoro». E anzitutto, occorre notare che una tale «apologia», unicamente appoggiata alla secchezza di argomentazioni dialettiche, manca assolutamente di qualsiasi pathos cristiano, inducendo piuttosto a pensare al modo radicale con cui il giovane Leopardi era passato attraverso la combustione razionalistica, tale da non consentire il rintracciamento in lui di alcuno di quei ricchi germi di rinascita spiritualistica e cattolica che, sotto l’angolatura del sentimento e della pietas storica, stava proprio allora dischiudendo l’età romantica.
E, se per qualche aspetto Leopardi è stato talora avvicinato a Pascal, è ovvio che ciò non potrebbe farsi che sotto il profilo di quella «religiosità negativa» della quale anche il nostro poeta profondamente partecipa, con la sua desolata coscienza della nullità dell’uomo di fronte al cosmo, che sembra talora riprodurre lo sgomento dell’autore delle Pensées di fronte al «silence éternel des espaces infinis», mentre non avrebbero potuto avere evidentemente alcun senso per lui la disperata speranza, l’invocato silenzio della mente, la dedizione alla verità cristiana come scandalo della ragione e follia della croce, che formano l’altro polo della tragicamente divaricata posizione pascaliana.
Leopardi, nella sua «ipotesi», dà per ammesse le verità rivelate del Cristianesimo per compiacersi di immaginare un Iddio (e talora quasi spinozianamente vi aggiunge «ossia la Natura»), che, per essere infinito ed onnipotente, e perciò dotato di infiniti attributi e possibilità, si diverte ad istituire, negli infiniti mondi da lui creati, infinite diverse ragioni, infinite diverse morali e rivelazioni. Il che, mentre gli permette – e sembra qui spronarlo, come in altre annotazioni della prima parte del suo diario, un sincero scrupolo verso la religione familiare e tradizionale – di dichiarare il suo «sistema» perfettamente conciliabile col cristianesimo, nello stesso tempo lo spinge ad affacciare, oltre al principio di continuo ribadito della relatività del gusto estetico e delle concezioni morali, un’idea, singolare per un razionalista, della relatività dell’umana ragione, creando, alla fine di una laboriosa e consequenziaria concatenazione di pensieri, una delle sue prospettive più vertiginose, precorrente, come del resto tante altre sue concezioni, certi svolgimenti del moderno pensiero relativistico ed esistenzialistico.
Egualmente a diverse interpretazioni si è prestato il Leopardi attento osservatore dei fenomeni politici e del decorso delle umane società nel tempo, che ha potuto da taluno farlo ascrivere, piuttosto frettolosamente, al pessimismo reazionario peculiare dell’età romantica, come, certo più aderentemente, rivendicarne il riconoscimento in profondo dei valori democratici, e rintracciare nel suo pensiero addirittura una vena progressista. In effetti, se Leopardi si mostra irridente verso l’ideologia del suo tempo, le rugiadose speranze dei «nuovi credenti» intinte di spiritualismo cattolico e romantico, la perfettibilità del genere umano, le «magnifiche sorti e progressive» vantate dalle gazzette sulla scia dei primi «miracoli» del progresso tecnico, non è certo per effetto del processo di ripiegamento tradizionalistico sopraggiunto all’epoca della Restaurazione, bensì di un raffronto con gli spregiudicati «lumi» dell’età illuministica e rivoluzionaria, e correlativa loro acre rivendicazione. E, per quanto l’ineluttabilità di continuo riaffermata del ricorso, di origine platonica, fra monarchia assoluta, democrazia e susseguente suo corrompimento con fatale ritorno del dispotismo, induca anche a questa parte del suo pensiero un fondamentale colorito pessimistico, l’intendimento in profondo della libertà creativa su cui poggia la virtus delle repubbliche antiche, città greche e repubblica romana, ci convince, anche su questo punto, di quanto poco Leopardi si sentisse legato, almeno intellettualmente, all’ambiente timido e retrivo in cui era cresciuto, e di quella sua sorprendente chiarezza e obbiettività di sguardo. Il punto di equilibrio della umana società nel suo svolgersi è per lui raggiunto dalla «civiltà media», quale si esprime nelle libere repubbliche antiche, dove impera una concezione della vita severa ed egalitaria, per cui l’«amor proprio» di ciascuno, in luogo di corrompersi in «egoismo», come nelle civiltà «eccessive» del mondo moderno unicamente fondate sulla «ragione», si armonizza con gli interessi della comunità, e le generose «illusioni» – senso del dovere e del sacrificio, amor di patria ecc. – prendono corpo nella difesa e nel rafforzamento della polis. Talora egli sembra rintracciare, ma senza troppa fiducia, un bagliore di rinascita di uno spirito nazionale, insieme spontaneo, libero ed unitario, nel breve fenomeno della rivoluzione francese tosto sommerso dal dispotismo napoleonico. Ma, per quanto Constant figuri fra le sue letture, e appaia talvolta citato, lo sguardo insistentemente rivolto all’ideale ormai per sempre irraggiungibile del mondo classico, gli vieta di compiere distinzioni fra la libertà degli antichi e quella dei moderni. Mentre la sua stessa implacabile spregiudicatezza non gli nasconde i contrappesi che condizionano i valori delle democrazie antiche: l’amor di patria ha il suo correlativo necessario nell’odio per lo straniero, come l’eguaglianza e la libertà dei cittadini si fondano imprescindibilmente sull’esistenza della schiavitù. Così, bisognerà attendere la suprema visione di speranza che si apre nella Ginestra, di un rinsavimento dell’uman genere che fraternamente si unisca in libere e giuste istituzioni fronteggiando unito le insidie della nemica Natura, per ritrovare nel pensiero leopardiano un superamento delle sue posizioni negative: e tuttavia quel sogno gli si atteggia più come un amaro e disilluso monito e un’azzardosa indicazione, che come una fede illuminata e sicura. Anche per questa parte il pensiero di Leopardi appare mirabile di precisione e di acutezza nelle descrizioni particolari, ma non si chiude né conchiude.
Così, mentre l’incertezza dello strumento logico lo sospinge, nelle sue definizioni generali, a una sorta di cristallizzazione, la forza di presa dell’analisi puntuale, nata dall’appassionata e prolungata considerazione di un problema, ridiscioglie questo pensiero in concreti svolgimenti e determinate prospettive dense di verità. Per fare ancora un esempio, si pensi alle idee generali di Leopardi sulla lingua, e sulle lingue, le quali sembrano a volte conformarsi per lui a una sorta di modelli astratti, considerati in sé quali organismi, per quindi rifluire in tante liberissime e concretissime osservazioni sui rapporti tra lingua e società, lingua e corso storico, lingua parlata e lingua letteraria, lingua e poesia, per così gran parte sciolte dai pregiudizi classicistici e ricche di presaga modernità. Si pensi alla sua insistente polemica contro il francese letterario, che tende anch’essa così spesso alla fallace ipostasi naturalistica di una lingua francese come lingua universale e lingua della raison, lingua «di società» inadatta alla fantasia poetica, ma si attaglia invece perfettamente ai caratteri di prosaicità e di povertà immaginativa prevalenti nella poesia francese del secolo XVIII – la più prossima e familiare a Leopardi –, e, correlativamente, a quella prosa in cui si esprime il pensiero degli enciclopedisti, che trasse la sua forza di penetrazione nel mondo proprio dalla sua esattezza e clarté razionale e dal suo universalismo astratto: e il cui stile contrassegnò un’epoca.
Una compiuta e particolareggiata interpretazione del pensiero di Leopardi dovrebbe perciò rinunciare ai tentativi di estrarne conclusioni definitive, ma piuttosto fondarsi sopra una sua integrale «storicizzazione», il che è ovviamente impossibile fare in uno studio di breve mole. Tale storicizzazione dovrebbe intendersi in un duplice senso, ossia: collocazione storica delle idee di Leopardi in rapporto al pensiero antico e al pensiero sensistico e illuministico degli autori che egli frequentò, nonché alle ideologie correnti al suo tempo; quindi, storia intima delle idee di Leopardi a partire dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. A tale indagine dovrebbero, naturalmente, soccorrere anche le altre opere leopardiane, in particolare le Operette, i Pensieri. i Paralipomeni della Batracomiomachia. e soprattutto i Canti: ma tenendo ben fermo che il filone ad essa sotteso, che le spiega e le costituisce come loro coscienza riflessa – anche se ad un certo punto viene a cessare – è pur sempre rappresentato dallo Zibaldone. E, in quel rapporto, verranno ad assumere un significato anche la cronologia, la disposizione e la frequenza delle annotazioni, le quali, di carattere più frammentario e casuale nei primi anni (con la eccezione della suite di pensieri sulla «teoria del piacere»), si infoltiscono e acquistano più sovente andatura saggistica nel periodo fra il 1821 e il 1824, preparatorio delle Operette morali, per quindi gradatamente decrescere negli anni successivi, fino a cessare definitivamente nel 1832. Circa l’utilizzazione che, dopo le Operette e i Pensieri. Leopardi intendeva farne, ci è dato soltanto di formulare supposizioni estremamente vaghe sulla base di qualche scarno titolo nei suoi elenchi di opere progettate. Resta comunque certo che l’unica interpretazione raggiungibile del pensiero leopardiano non sarà certamente quella logica e sistematica della costruzione filosofica, ma quella, vivente nel suo proprio sviluppo, della riflessione moralistica e saggistica.
Ma per giungere, almeno provvisoriamente, a quanto sembra costituire il nodo centrale, la ratio fondamentale della ricerca filosofica di Leopardi, occorre ancora una volta ricondursi alla sua confidenza circa il momento in cui egli cominciò a sentire la infelicità del mondo in luogo di conoscerla, e «questo anche per uno stato di languore corporale».
Indubbiamente, gli sforzi tendenti a ricollegare il nascere e il formarsi di un pensiero alle particolarità esterne della biografia sono pressoché sempre equivoci e ingannevoli. Ogni esistenza, scomparendo, porta con sé il suo segreto, lasciando agli altri nulla più che le tracce ch’essi già posseggono, oltre, talvolta, a un costruito, intenzionale messaggio. Ma quando i grandi termini di una situazione vitale ci vengono offerti e circostanziati attraverso una confessione diretta, e questa, posta in relazione al complesso degli altri dati, appare, come già si è osservato, rivelare e quasi simbolicamente riassumere la curvatura fondamentale di un destino, occorre pure tenerne conto.
Né ha importanza il fatto che lo stesso Leopardi, come noto – e basti la lettera del 24 maggio 1832 al De Sinner –, reagisse vivacemente a chi pretendeva di ricondurre e ridurre le ragioni del suo pessimismo a una mera infelicità personale. La reazione era ben giustificata dal fatto che quanto più necessaria e radicata in una stretta esistenziale era la prospezione del mondo che Leopardi stava compiendo, tanto più questa doveva trovare la sua imprescindibile garanzia nella strenua ricerca della più assoluta, indifferente oggettività. Questa anzi diventava, non tanto per deliberato impegno, quanto per una necessità intimamente dialettica, la regola fondamentale del suo gioco. Ché Leopardi almeno per questo si situa all’estremo opposto di poeti come Byron e Musset: e in luogo dello sfogo romantico, tipica effusione delle ragioni «soggettive», egli ci offre ferme, esatte, glaciali ricognizioni di realtà.
E tuttavia la meditazione di Leopardi si inizia con una contrapposizione del «sentire» al «conoscere». Ma, dopo quanto s’è detto, è chiaro che quel «sentire» non ha nulla, per lui, dell’ineffabilità propria del «sentimento» che, in opposizione all’astratta ragione, i filosofi romantici talora rivendicarono a organo di conoscenza, a forma d’intuizione metafisica. Il termine, per Leopardi, non significa altro che la forza di presa di un’esperienza diretta. Ed è proprio quel sentire «soggettivo» che diventa, per lui, la prima e principale preoccupazione «oggettiva». Non per nulla nelle prime pagine dello Zibaldone si contengono i pensieri più puntuali e penetranti sulle proprie esperienze di poeta lirico, analisi, che a momenti sembrano sfiorare la fisiologia, di stati di tensione e di rilassamento sentimentale. E non per nulla comincia a determinarsi quel Leitmotiv della vitalità, o dell’intensità vitale, che, a ben vedere, costituisce, talora in primo piano, talaltro implicito, il sottofondo essenziale, la spina dorsale, per così dire, di tutto il pensiero leopardiano.
Così, la nostalgia verso il mondo classico lo porta fin dall’inizio a sottolineare le virtù del vigore e della sanità corporali in confronto a quelle dell’animo sole celebrate da secoli di educazione cristiana. Nel che si può notare una comprova del disinteresse della meditazione leopardiana, ben autorizzante la dolente e sdegnata repulsa delle malevole interpretazioni dei suoi contemporanei. In altre parole, una comprova del coraggio morale di Leopardi, che non teme di abbracciare le idee che possono offenderlo. Di contro alla vita diminuita e carente, al «languore corporale» che lo angustia, ma nello stesso tempo lo stimola al pensiero, egli afferma la vita piena, rigogliosa, «ascendente», come avrebbe detto Nietzsche. Lo incanta, all’inizio, il sogno di una maggiore prestanza fisica degli antichi, che in sé tiene, evidentemente, alcunché di letterario e di mitologico, anche nell’opposizione ch’egli ne traccia con un preteso indebolimento dei moderni per effetto dello sviluppo della ragione e dei comodi della civiltà. È però anche vero che questa sua idea primordiale di vitalità a poco a poco gli si affina, e se il mero vigore corporeo, la bruta sovrabbondanza fisica sono sempre per lui in pregio come fini eletti dalla Natura, il più forte non coinciderà più, nel suo pensiero, col più ricco di vita, perché «la vita è il sentimento dell’esistenza», e questo sentimento è più intenso di preferenza nei corpi «delicati e deboli di complessione».
Comunque sia, l’idea del «sentimento della vita», nelle sue gradazioni d’intensità, permea, come una linfa costante, il più fondo pensiero di Leopardi, sia nella sua espressione logica, sia, e a maggior ragione, in quella poetica. Essa comincia a determinarsi nella giovanile «teoria del piacere», che, definendo questo come inesistente, ma, in pari tempo, come aspirazione essenziale, assoluta, «indefinita», dell’uomo, già postulava per antitesi, se pure inconsapevolmente, un estremo dato affermativo, quale altro non poteva essere che il drammatico slancio della vitalità. A contrasto con questo, Leopardi analizza, secondo le linee taglienti della sua psicologia settecentesca, gli stati passivi dell’animo umano, dal limite che appare rappresentato dal talora invidiabile sonno naturale dei bruti, fino a quel sentimento della noia, che occupa per intero l’orizzonte vitale allorché questo non è agitato dal dolore o da una violenta passione, e in cui si identifica «la semplice vita, pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo»: nella quale idea – che trova così patetici e rassegnati accenti nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare – egli, al di là dei precedenti pascaliani e sensistici, stavolta anticipa romantici e decadenti, e in particolare Baudelaire. Come li anticipa nella sua precisa attenzione verso l’ebrezza fisica, ad esempio quella procurata dal vino, che sembra prefigurare, quasi primo rozzo materiale gradino, il mondo dei valori di Leopardi, quello delle «illusioni» e dei «forti errori» che intensificano la vita, in diretta opposizione all’altro della «ragione» e dell’«arido vero», con la sua saggezza di morte.
Allorché si parla di «anticipazioni», e si tenta di riassumere un pensiero, come quello di Leopardi, in termini di attualità, occorre sempre scontare in partenza un certo margine di anacronismo, di fronte a concetti e a nomenclature da illuminarsi coi loro precedenti settecenteschi: qui sembrerebbe, come in altri punti, con Helvétius, scrittore che peraltro non è documentato sia mai stato letto da Leopardi (ma le idee illuministiche, come è noto, ebbero circolazione rapidissima, e già s’è detto come sia estremamente difficile individuare in modo preciso le fonti del pensiero leopardiano). Anche Helvétius aveva esaltato la potenza delle passioni creatrici e affermato la superiorità delle gens passionnés sulle gens sensés. I «forti errori» di Leopardi fanno pensare alle passions fortes di Helvétius, energie motrici del mondo morale. Ma Leopardi va assai più in là, perché giunge a rompere, in questo caso, le schematizzazioni psicologiche di tradizione cartesiana (le passions de l’âme) da cui parte il francese, per rifarsi più profondamente ad una idea fondamentale e originaria di «sentimento della vita». Egli opera, anche qui, una «inversione di segno», da affermativo in negativo, ed una radicalizzazione del pensiero illuministico, destituendo le «forti passioni» a pure illusioni ed errori. Così quell’idea unitaria diventa, a ben vedere, l’ossatura costitutiva di tutta la meditazione leopardiana, dove la negazione dei valori si capovolge nella appassionata esaltazione di essi quali puri e inutili prodotti della vitalità come slancio, delle irragionevoli ragioni del cuore, in un contrasto che, mentre conduce, nella sua insanabile, radicale, immobile opposizione, alla finale irresolutezza e paralisi del pensiero, gli consente frattanto, nella sua assoluta oggettività e positività, quell’acuto morso sul reale.
Assoluta positività: perché tutti i valori che Leopardi riconosce, che gli accendono cuore e mente, sono rinviati al mondo dell’irrealtà e dell’illusione. Al di qua, non esistono che dati oggettivi, controllabili, descrivibili e analizzabili, ma sottraentisi, di per sé, a qualunque valutazione. Per l’etica di Leopardi, ad esempio, l’innocenza è, concretamente, identificata nell’incapacità di rimorso, e quindi circoscritta al semplice stato soggettivo del peccatore, all’assenza in lui del senso di colpevolezza: l’innocenza potrà pertanto coincidere benissimo con la «malvagità». Anche su questo punto Leopardi ci si mostra singolarmente estraneo al cattolicesimo controriformista, con le sue sottili casistiche morali. La moralità è per lui unicamente prodotto dell’irrazionale pienezza del cuore, dono gratuito, slancio eroico, «forte errore»: lo stesso cristianesimo primitivo è giustificato ai suoi occhi soltanto per aver animato la vita di nuove illusioni, in sostituzione delle illusioni ormai spente del mondo antico. Quanto alla sua politica, già s’è visto in che senso egli assumesse l’ideale delle primitive democrazie greche e romane: quello d’una più vasta esplicazione delle facoltà individuali, quindi di una più intensa creazione dei valori d’illusione, suscitata da una piena e libera competizione egalitaria.
Infine, il concetto di intensità vitale permea anche il nocciolo profondo dell’estetica leopardiana, ben oltre e al di là delle sue classificazioni e cristallizzazioni di sapore arcadico e neoclassico: in particolare, appunto, la sua idea della poesia, circa la quale, se scolasticamente Leopardi all’inizio ripete che il dilettare è il suo «ufficio naturale», ben presto la raffronterà alle «grandi azioni»: come per esse, anche per la poesia è necessario «un misto di persuasione e di passione o illusione»; e nella poesia, lungi dall’imitarsi la Natura, è dessa natura ad esprimersi direttamente per bocca del poeta. Per Natura qui è ovvio debba leggersi spontaneità e ratto immaginativo e fantastico, propri della «poesia ingenua» in opposizione ai valori intimistici e riflessivi della «poesia sentimentale» dei moderni: di qui l’ideale estetico leopardiano, che è stato giustamente definito come «primitivismo classico», e che il poeta esemplificava storicamente e miticamente nella fase omerica della poesia antica, con la sua ormai oggi per sempre irraggiungibile prossimità alla fonte naturale originaria.
Di questa attenzione alla vitalità, alla intensità del sentimento della vita, madre dell’azione come della poesia, la teoria dell’«assuefazione» forma quasi il rovescio. A lungo Leopardi medita sui processi dell’adattamento vitale, della «conformabilità», di cui l’assuefazione, e la generale attitudine che insieme la permette e ne deriva, ossia l’assuefabilità, è il principale. Anche qui, il legame ch’egli vi ravvisava con le segrete operazioni della Natura intesa ai suoi fini, gli fa considerare l’assuefazione come la facoltà primaria d’ogni vivente. Ma la fedeltà che, anche in questa parte del suo pensiero, singolarmente sviluppata e approfondita, Leopardi mantiene al meccanicismo sensistico, e che gli fa ricondurre sotto il concetto di abitudine, o assuefazione, la stessa memoria, continua ad adempiere la funzione di un limite, di una opposizione dialettica. Ricondotta la conoscenza entro i confini della sensazione, il pensiero a una mera funzione della materia, i processi vitali agli schemi dell’adattamento e dell’assuefazione, egli è risospinto di continuo come a una zona vuota della riflessione, dove si colloca quanto solo potentemente lo attira e lo esalta, ossia i ricchi impulsi dell’azione e della poesia, il caldo mondo dei valori e degli ideali. Destituiti questi ultimi, e le passioni che li accendono nella storia degli uomini, al rango di pure illusioni ed errori, gli rimane ciò che di quelle passioni ed errori costituisce l’inesauribile fermento, ossia l’energia vitale in sé presa, perfettamente constatabile dall’esterno, ma, nella sua più fonda natura di valore creatore di valori, sfuggente alla presa dell’intelletto astratto che può solo cristallizzarla a meccanismo. E, infatti, in Leopardi se ne ricava l’idea per lo più negativamente, quale residuo irreducibile alle nomenclature e distinzioni della sua psicologia razionalistica, residuo che continuamente gli si ripresenta con un trasporto che è dolente malinconia, con una negazione che è ebbro rapimento.
Il pensiero di Leopardi finisce così col potentemente delineare, attraverso il costante rimuginio delle sue lucide proposizioni ed analisi, una contraddizione per esso irresolubile sul piano logico. Per quanto egli evidentemente presumesse, elaborando e di continuo aggiustando e sviluppando e spostando le complesse linee del «sistema», di ricondurre ogni oggetto di meditazione al medesimo lume razionale, la frattura rimane aperta fra Ragione e Natura, Realtà e Illusione, mondo delle cose e mondo dei valori. Ed è qui che comincia a svelarsi il rapporto necessario che intercede fra Leopardi pensatore e Leopardi poeta, la compatta unicità di una esperienza nel suo sviluppo profondo. Avevo scritto che Leopardi si situa al polo opposto del poeta per cui tutto confluisce nella propria ispirazione, che elabora per via di pacate sovrapposizioni successive il suo mondo di affetti e di figure. Pensavo vagamente, così scrivendo, a Goethe, il cui intero orizzonte, esperienze di vita, persuasioni morali, scienza, metafisica e storia, entra nella luce poetica col medesimo segno positivo e formativo. E adducevo, a contrasto, la funzione «distruttiva» delle idee in Leopardi. Il che mi pare ancora esatto, benché in un senso assai complesso. La poesia di Leopardi sorge, infatti, dopo che lo squallore del vero ha dissipato le care illusioni dimostrandone la vanità, come un’estrema affermazione del sentimento di vivere, delle irreducibili ragioni del cuore: ma non sarebbe la poesia che essa è senza il persistere delle sue premesse distruttive, senza la costanza di quella tensione dialettica, inerente all’unicità di un destino riflesso in una storia interiore. Il «sombre amant de la mort» della facile definizione mussettiana è, insieme, l’ardente amante della vita. La morte, il nulla di Leopardi non sono pura assenza: sembrano, piuttosto, puntualmente eternare l’attimo dell’annientamento come senso di liberazione dal timore, dall’affanno, dal tedio di vivere, configurandosi come una sorta di paradiso negativo; e l’aspirazione ad esso si atteggia segretamente come amoroso rancore per la felicità negata.
Il pensiero di Leopardi non è che l’altra faccia della sua poesia, la quale lo integra e lo completa. In altre parole, la poesia di Leopardi non è che quello stesso pensiero, il quale, ad un certo momento, ovviamente ideale, assume le proprie contraddizioni in un clima di contemplatività commossa che le placa in sé e le giustifica, pur senza risolverle, così come le lacerazioni del vivere. L’unità di pensiero e di poesia è anzi, in Leopardi, talmente stretta da consentire positivi riscontri anche stilistici. Già avevo notato come ad essa poesia sottenda, seppure quasi scarnito ed essenzializzato in sviluppi musicali, il disegno dei movimenti di interrogazione, di deduzione e di esplicazione analitica, nelle complesse architetture di canto che la caratterizzano: anche se il rapporto fra linea riflessiva e linea lirico-musicale subisca variazioni nelle sue diverse fasi, e talora la seconda consumi in sé la prima conservandone tuttavia qualcosa come un vago ricalco, un’orma.
Così, nella più matura poesia leopardiana finiscono con lo sfociare, se non col comporsi, i punti rimasti interrogativi nella lunga, insonne e puntigliosa riflessione. Ad esempio la contraddizione fra natura e idea, che gli si riaffaccia davanti allo spettacolo della morte e della corruzione, in uno dei «canti sepolcrali»:
Natura umana, or come,
se frale in tutto e vile,
se polve ed ombra sei, tant
Se in parte anco gentile,
come i più degni tuoi moti e pensieri
son cosi di leggeri
da sì basse cagioni e desti e spenti?
mentre nella Ginestra tante realistiche e disilluse osservazioni e considerazioni sulle umane società nelle loro fioriture e decadimenti nel tempo e nel sanguinoso travaglio storico, si coronano, come già s’è notato, di un grave e generoso monito di fratellanza, che, nella storia delle idee di Leopardi, acquista un valore quasi testamentario.
Lo Zibaldone, come s’è detto, è l’esemplare, unico nella nostra letteratura, di un pensiero in movimento, il quale, tenendo fermo ad alcune grandi persuasioni radicate nell’esperienza vitale, e tuttavia imprecisate nelle loro conclusioni ultime, riflette alla luce di esse il rapporto fra un microcosmo esistenziale e il macrocosmo del mondo e della natura in tutta la folta, se pur coerente e sorvegliata, tortuosità del suo svolgersi. Già s’è data una pur vaghissima idea, nella nostra breve scorsa, della ricchezza del suo materiale, considerando l’estrema ampiezza d’interessi della irrequieta e insaziabile mente leopardiana.
Ma v’ha di più, almeno per noi uomini d’oggigiorno: la sorprendente attualità dello Zibaldone – e si intenda il termine in un senso più circostanziato di quello che sogliamo applicare a tutte le opere destinate a durare nel tempo, e in cui ravvisiamo il segreto della loro vitalità. Lo Zibaldone viene incontro al nostro gusto moderno per gli stati spontanei e germinali della riflessione colta nel suo puntuale svolgimento e arricchimento, e al correlativo nostro sospetto per gl’irrigidimenti dialettici e sistematici. Inoltre una tale attualità si riflette anche nella novità, cronologicamente intesa, di tanti aspetti del pensiero di Leopardi, che, partito da posizioni già al suo tempo attardate, vediamo con stupore anticipare (oltre e al di là del tradizionale – e un po’ superficiale – accostamento a Schopenhauer), con tanta chiarezza ed energia, nel loro iniziale drammatico profilarsi, alcune idee che domineranno nella seconda metà del suo secolo, e nel nostro, da Nietzsche fino all’esistenzialismo.
Una tale modernità si riflette, necessariamente, sulla qualità dello stile. Il peso della classicità accademica, che grava su certe pagine delle Operette morali, quando non le riscatta la forza della persuasione sentimentale o la loro peculiare grazia poetica (in parte, fatalità della formazione e tradizione letteraria italiana, in parte pàtina del gusto del tempo, in parte difesa formalistica della propria intimità di fronte al pubblico), qui, nel pensatore solitario, alle prese unicamente con se stesso, si discioglie in un fare più spedito, vivace e alerte: e la stessa complessità e perspicuità sintattica ereditata dai classici viene, fuor d’ogni letterario compiacimento, sfruttata a fondo per offrire il completo e ramificato sviluppo dell’idea e per assicurarle la sua più esatta sfumatura. E ciò a tacere delle pagine di effettiva poesia, non frequentissime ma pur presenti nel «diario» leopardiano, come quando in qualche breve frammento prefigura un luogo, un’immagine di una futura lirica, o dove riposa in un’annotazione paesistica o in uno studio di caratteri, o dove la semplice riflessione morale si colora e si anima sotto la concitazione del sentimento, preparando, o riproducendo, gli effetti più vivi e originali della prosa delle Operette, col loro dominato e contenuto pathos. E così fino alle ultime parti dello Zibaldone. laddove, riprendendo i motivi della sua metafisica materialistica e pessimistica, la considerazione degli aspetti della natura, o della pura e semplice estensione materiale, affaccia nella sua prosa quelle sterminate e desolate prospettive cosmiche: come quando, partendo da un’immagine di navigazione, si spinge ad argomentare l’ipotesi di un universo finito, e, oltre a quello, dell’infinità del nulla: trasportando così nel ratto dell’intuizione metafisica una puntuale angoscia e smarrimento del cuore. O come quando, nella descrizione di un giardino, apparentemente festa e tripudio di vita primaverile, in realtà tetro ospedale di vite piagate e sofferenti, egli compone un patetico quadro en raccourci degli universali procedimenti della spietata Natura. Si pensi agli effetti di quelle intuizioni, di quelle pagine, se Leopardi avesse avuto il progetto, e gli fosse rimasto il tempo, di espungerle dalla ingens sylva dello Zibaldone per trasfonderle in uno dei suoi canti, o per disporle magari tali e quali nella poesia in prosa di una «operetta morale».
II. Nel complesso dell’opera leopardiana, così compatta e legata, nonostante le apparenze, l’epistolario, più che occupare una posizione periferica, forma, per usare una metafora geologica, una conche, uno strato ben distinto dell’assieme, e non soltanto per la peculiarità del «genere letterario». In quella confidenza, diretta o traslata, che ogni espressione ci offre dell’intimità del suo autore, esso occupa una situazione intermedia fra il lungo e tormentato monologo solitario rappresentato dallo Zibaldone. e gli scritti, in versi e in prosa, di fatto o in intenzione destinati all’universale, dove intimità e oggettività si confondono. Nell’epistolario, l’estrinsecazione di quella intimità compiendosi nel rapporto con determinati lettori – i destinatari delle missive –, e apparendo puntualmente condizionata dai concreti momenti della situazione vitale, noi la sorprendiamo di volta in volta offerta o schermata, o profilata in sottili angolature, a seconda dell’occasione o dell’interlocutore, e infine tutta spiegata a tratti o in intere lettere. E questa naturalezza originaria, in ragione delle sue stesse difficoltà, e delle sue stesse reticenze e velature, diventa singolarmente illuminante per l’intelligenza dell’opera complessiva.
Le lettere di Leopardi – è stato detto, ed è probabilmente vero – formano l’epistolario più bello e commovente della letteratura italiana. Esso non suscita tuttavia nel suo lettore quell’interesse di natura molteplice e composita che destano in genere i più celebrati. Bisogna anzi ammettere che le lettere di Leopardi, appunto perché così legate all’occasione in cui furono scritte, rivelano un orizzonte singolarmente ristretto. Come è del resto stato notato, esse non ci offrono prospettive della società e dell’epoca, né contengono apprezzamenti d’ordine politico o sociale. Nulla, o pressoché nulla, vi trapela degli avvenimenti del tempo, anche in quelle scritte in anni burrascosi per la storia d’Italia e d’Europa. L’attenzione alla letteratura contemporanea vi è assai scarsa, ove si escluda, specie nelle lettere giovanili al Mai e al Giordani, il mito classicistico, rivelato dal fervore per la filologia e i ritrovamenti eruditi. Correlativamente, pur avendo frequentato a Roma, poi successivamente a Bologna, a Milano, Firenze, Pisa e nuovamente a Roma, indi a Napoli, gli ambienti letterari (e, a Firenze, proprio quello del Gabinetto Vieusseux), a parte le relazioni contrattevi con filologi e storici, egli dimostra un ben tiepido interesse per i maggiori incontri fattivi, valga per tutti quello col Manzoni. Il 31 agosto 1832, da Firenze, scrive a Paolina: «ho riveduto qui il tuo Stendhal» (ch’egli considerava probabilmente un romanziere per signore, e la Paolina, si sa, era fervida lettrice di autori tipo Eugenio Sue): e a noi posteri non resta che rammaricarci del mancato riconoscimento fra due spiriti che per tanti aspetti comuni, come le radici illuministiche, l’acre gusto della realtà psicologica e il culto della passione e dell’energia vitale, sarebbero parsi, malgrado le enormi differenze, fatti apposta per intendersi. Quando un tale disinteresse non gli si muta in aperto fastidio per i letterati in genere, come gli era avvenuto al tempo del suo primo soggiorno a Roma per quelli romani, esclusivamente dediti a una dilettantesca archeologia. Sarebbe vano, infine, rintracciare nelle Lettere confidenze relative all’aspetto intimo della sua attività di poeta, persino in quelle dirette ai suoi corrispondenti più qualificati, come il Giordani, cui pure aveva sottoposto per un giudizio la giovanile Cantica. Quando accenna alla Canzoni, e, più tardi, alle Operette morali e ai Canti, ciò avviene perloppiù in termini di tipografia e di editoria, o in quelli che oggi si direbbe di diffusione pubblicitaria, sotto specie, almeno all’inizio, di compassate lettere dedicatorie e propiziatorie. Tanto che fa spicco la confidenza a Giuseppe Melchiorri circa il proprio «metodo» di poetare, per cui «se l’ispirazione non gli nasce da sé, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal suo cervello», con quel che precede e segue. Ed è sintomatico che ad una tale dichiarazione egli ricorra unicamente perché messo con le spalle al muro, nella necessità mondana di giustificare il rifiuto alla richiesta di una poesia d’occasione fattagli appunto dal Melchiorri per conto d’un influente amico. O l’altra alla sorella Paolina, del maggio 1828, di aver composto, dopo due anni di silenzio, dei versi «veramente all’antica, e con quel suo cuore d’una volta», con evidente allusione al Risorgimento e a Silvia.
Le lettere di Leopardi, si è detto, sono strettamente ricalcate sulla situazione biografica, e limitate all’orizzonte che di volta in volta questa gli dischiude. Anche nelle più ampie, o nelle più riassuntive, come alcune delle prime al Giordani, l’unica allo Jacopssen del 23 giugno 1823, qualcuna al De Sinner, e poche altre, la descrittiva del proprio stato, o della piccola vita familiare o cittadina che lo attornia, può bensì trascorrere ad alte e patetiche considerazioni sull’uomo e sulla vita, ma trascura, accennandovi tutt’al più in termini estremamente generici, i passaggi intermedi sulla condizione del suo tempo e del suo mondo. Il fervore per gli studi classici ed eruditi e le correlative questioni filologiche, il costante lamento sulla salute malferma, gli sfoghi sulla situazione familiare e sulla solitudine recanatese, le non folte notizie di relazioni mondane, le pur non frequenti, ma vivaci e risentite, e talora contraddittorie a seconda del momento e del destinatario, impressioni di città e di luoghi, esauriscono, si può dire, i temi dell’epistolario, a prescindere dalle lettere e dai tratti delle medesime di puro carattere praticistico, rapporti con lo Stella e, almeno per interposte persone, con altri editori, bozze di stampa, questue di danaro e tentativi di sistemazioni e d’impieghi ecc.
Eppure, è proprio in virtù di una tale limitatezza, con la conseguente assenza degli excursus e diffusioni laterali che formano il pregio di tanti grandi epistolari, che possiamo trarre dalle Lettere la più autentica e spontanea esplicazione della natura dell’individuo Leopardi, e della incidenza diretta del suo pensiero e della sua opera sul fondo della vita. Essa mostra infatti in modo inequivoco la forza della stretta esistenziale, accentuandone con crudezza le drammatiche contraddizioni che lo sospingono a superarla, attraverso la lunga e tortuosa riflessione, nella calma mediatrice dell’espressione poetica e letteraria. Per cui diventano estremamente rivelatori gli adattamenti e le schermature, le acidità e le debolezze, le stesse innocenti dissimulazioni e menzogne, la stessa minuta e faticosa diplomazia che alle nature, come quella di Leopardi, per tanti aspetti disarmate di fronte alla vita, impone sempre, in maggiore o minor misura, lo scambio col prossimo.
Ciò vale a dire che l’interesse dell’epistolario è tutto biografico e poetico. Biografico, va da sé. Poetico, non solo per l’alta qualità letteraria dei singoli scritti, per la finezza e forza stilistica anche nei minuti particolari e nelle stesse comunicazioni più occasionali e futili. Se per Leopardi, anche in questo moderno, la lettera privata non è ormai più, come per tanti scrittori fino al suo tempo, un precostituito «genere letterario», un’antenata dell’articolo e del saggio, essa non è tuttavia ancora il mero mezzo di comunicazione corsivo e stenografico che sembra essere divenuto ai dì nostri, seguendo il congestionato ritmo dell’epoca. Per cui un’alta qualità letteraria si riscontra spesso anche nelle lettere dei suoi corrispondenti, di Monaldo, di Carlo, di Paolina, e, va da sé, di Giordani e di altri. Quanto a Leopardi, il fatto che egli stendesse e conservasse le minute sta probabilmente a dimostrare qualcosa di più di una buona amministrazione personale: una presaga, e giustamente orgogliosa, consapevolezza.
Interesse poetico, dicevamo, anche e soprattutto per gli squarci di dolorosa spontaneità, per i patetici incisi e flessioni del discorso, dove pure sorprendiamo una naturale affinità coi più intimi movimenti della lirica leopardiana. Come anche nelle pur rare visioni di natura, ad esempio nella lettera al Giordani del 6 marzo 1820, dove è espresso un momento che ha fatto giustamente pensare agli Idilli: «Sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aura tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo». O, in una più tarda lettera a Paolina, del novembre 1827, questa indimenticabile descrizione dei lungarni pisani: «uno spettacolo cosi bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora... Vi si passeggia poi nell’inverno con gran piacere, perché v’è quasi sempre un’aria di primavera: sicché in certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura». Qui, come in altri brani del genere, la spontaneità e l’appropriatezza del dire producono, a oltre centotrent’anni di distanza, quel singolare effetto ravvicinante che non rammento d’aver riscontrato altrove che in qualche passo dei diari stendhaliani. Né l’accostamento di modi ed espressioni delle lettere alle meditate elaborazioni della lirica leopardiana sembri indebita commistione di letteratura e vita, se il compito della poesia è proprio quello di ritrovare, attraverso una calda e approfondita attenzione, il movimento stesso spontaneo dell’esistenza, che altra volta può esprimersi, molecolarmente, al di là delle formule consolidate dello scambio sociale, nell’effusione impremeditata di una battuta di dialogo epistolare, o di dialogo senz’altro, o magari nella fuggevolezza d’un pensiero nato e tosto spento.
Esistono nature felicemente condizionate, il cui comportamento nel mondo sembra far tutt’uno col loro movimento più genuino e spontaneo. E così esistono le nature difficili, coi loro nodi ardui da sciogliere, col loro condizionamento contradditorio che le predispone all’infelicità e all’approfondimento dei rapporti con se stessi e con gli altri: e Leopardi appartiene, evidentemente, a questa categoria. Le lettere ci mostrano via via, a seconda dei gruppi di corrispondenti tra cui possiamo suddividerle, pur attraverso la continuità unitaria del carattere-destino, la complessa e perplessa, trepidamente calcolata differenza di atteggiamento, imposta da quella contraddizione.
I gruppi si possono distinguere, grosso modo, in quello dei parenti, quello degli amici, quello degli estranei. Fra questi due ultimi possiamo situare il gruppo dei letterati e degli eruditi con cui Leopardi ebbe rapporti di natura più che altro intellettuale. Tra le «familiari» troviamo le più commoventi e rivelatrici, specie alcune dirette al padre, dove il fondamentale legame affettivo mai si smentisce, anche se è spesso costretto a comporsi arduamente con lo spirito di ribellione, quello medesimo che aveva tentato Leopardi alla mancata fuga giovanile, e più tardi ne determinò il distacco da Recanati, e con la divisione intellettuale, che nel suo caso, com’è noto, andò ben più in profondo del solco che normalmente divide le generazioni. Ciò che comporta le reticenze, le velature, le difese calcolate e intimorite, le amorose ipocrisie, facilitate dallo stile di ossequioso rispetto che dominava ancora a quei tempi i rapporti della famiglia patriarcale. Ipocrisie che giungono talora fino alla duplicità, come quando, all’apparire dei reazionari Dialoghetti di Monaldo, dopo qualche mese, a seguito degli equivoci per cui il libretto gli veniva spesso attribuito, egli si vede costretto a dare una smentita alla stampa, giustificandola un po’ tortuosamente al padre. Eppure egli si compiace caldamente, e con questi e con Paolina, del suo straordinario successo, mentre negli stessi giorni, scrivendone al Melchiorri, lo definisce in un impeto d’ira «infame, infamissimo, scelleratissimo libro... sozzi, fanatici dialogacci» (15 maggio 1832). Ma è soprattutto nelle più tarde, dalla successiva del 3 luglio 1832 all’ultima dalla Villa Ferrigni a Napoli, di pochi giorni precedente la morte, dove, nel prospettare la propria crescente miseria fisica, e nel richiedere soccorsi finanziari, torna a riannodarsi profondo, sul disarmato lamento, il vincolo infantile originario di affetto e di memoria, che suole rifondere e placare in sé i contrasti del più cruciale dei rapporti umani, quello tra padri e figli.
Mentre il rapporto col padre appare riassumere in sé, almeno nell’epistolario, quello con la madre (la rigida figura di Adelaide Antici vi appare per lo più in modo indiretto, sullo sfondo), alla medesima profonda affettività si ispirano, naturalmente su tonalità diverse, quelli coi fratelli Carlo e Paolina. Le lettere a Carlo, ch’egli considerava, scrivendone al Giordani, «un altro me stesso», e per cui provava un «amor di sogno» (ossia, una profonda intesa, a momenti «romanticizzata»), sono, tra le «familiari», le più libere e sciolte, quelle in cui Giacomo dà più naturalmente corso alla confidenza e allo sfogo (e che perciò devono assai spesso passare inosservate, coi debiti accorgimenti, agli occhi dei genitori). Così quelle scritte durante il primo soggiorno romano in casa dello zio Antici, ricche di vivace descrittività e d’umor giocondo, non immuni, talvolta, da una punta di cameratesca spavalderia provinciale, come nel raffronto tra le donne romane e le recanatesi, e relativa possibilità d’occasioni. Più riservate, naturalmente, seppure a momenti più poeticamente abbandonate, quelle a Paolina, in cui la tenerezza s’accentua nel vezzeggiamento scherzoso, e si alterna col tono protettivo, spingendosi fino all’autorità dei consigli in materia matrimoniale, in cui Giacomo appare investirsi della sua parte responsabile di fratello maggiore, appartenente a famiglia nobile.
Occorre tener presente, a questo proposito, che uno dei dati fondamentali della situazione vitale di Leopardi, determinanti l’angolatura sotto cui egli vede il mondo, è la condizione, per sempre insuperata, del «figlio di famiglia», legato, volente o nolente, tradizionalmente e sentimentalmente, al nucleo familiare dell’amata-odiata Recanati, con la sua ambivalenza di ribellione, che ne lo allontana di continuo, e di dipendenza organica e nostalgica, che di continuo ve lo riconduce, se non altro con la memoria e preoccupazione affettiva. Insomma, Recanati costituisce pur sempre il suo centro di gravità, se anche egli ne sfuggirà in perpetuo, per effetto di quella forza centrifuga che costituisce l’altro aspetto del suo destino. Ché l’esistenza del letterato vagante di città in città, con costanti preoccupazioni di salute e di clima, e finanziarie (e, in fondo, la segreta irrequietudine e ansiosa ricerca di un introvabile ubi consistere), non riesce a condurlo sull’altro versante, quello della maturità, che presuppone la costituzione di un altro centro. E, nella già citata lettera al padre del 3 luglio 1832, se pure egli conferma la sua incrollabile decisione «di non tornare stabilmente costà [a Recanati] se non morto», qualche riga innanzi dichiarava che «la vita in qualunque luogo gli è abbominevole e tormentosa».
Così, la storia della breve esistenza di Giacomo Leopardi ci conserverà di lui, fino all’ultimo, un’immagine giovanile, e non nel puro senso cronologico. Mentre egli non raggiungerà mai l’assestamento pratico, l’altra chiave della maturità, quella dell’amore, gli resterà preclusa. Dell’amore gli sarà dato di conoscere soltanto la traiettoria ascendente, normalmente propria dell’adolescenza e della prima gioventù, quella del vagheggiamento e costante disinganno, mentre gli rimarrà ignota l’altra, pianeggiante o discendente, generalmente rappresentata dal matrimonio o dalla piena passione corrisposta, quest’ultima ambivalentemente bramata e temuta da Giacomo, ma, nella forma profonda del destino, quella che solo la poesia – secondo le parole di Rilke – può rivelare in trasparenza, già in anticipo rinunciata (la linea che va da Il primo amore e Alla sua donna sino ad Aspasia). Le tracce che gli amori di Leopardi lasciano nell’epistolario sono assai scarse. Gli accenni, imprecisati, al primo vagheggiamento giovanile per la cugina Cassi in una lettera al Giordani. Qualche missiva e confidenza ci testimoniano dell’amitié amoureuse bolognese per la Carniani-Malvezzi, e un’acre lettera al Papadopoli dell’inevitabile delusione; e dell’altra relazione fiorentina con la Targioni-Tozzetti, altrettanto destinata a concludersi in amaro rigurgito. Quale sia stata l’effettiva realtà, oggi per sempre sepolta, di quelle passioni e relazioni, solo è dato congetturare (sembra facile, e non lo è) dai dati biografici. Ma, sempre sul piano profondo, si può pensare, specie considerando le istintive scelte dell’amante Leopardi, «un tempo addietro... capacissimo», come scriveva al Melchiorri nel dicembre 1823, «di una passione furiosa», e «più volte vicinissimo ad ammazzarsi per ismania d’amore», e sulla riflessione d’esperienza comune che né l’infelicità o la malattia, né la stessa deformità fisica sono di per sé, solo che si presentino le occasioni appropriate, ostacoli all’amore, essendo anzi tante volte vero il contrario, a qualcosa come ad un’astuzia del Fato, implicante una predisposizione allo scacco amoroso, in vista di altre difficili compensazioni e riscatti.
È, anche questo, uno dei tanti aspetti della struttura contraddittoria del destino di Leopardi: come di ogni altro destino, ma nel caso suo particolarmente rilevata e appariscente. Essa può aiutarci a congetturare, anche sulla traccia dell’epistolario, quali transazioni inconscie gli abbia imposto la mancata conquista della piena autonomia, pratica e spirituale, dal fondo familiare originario: quell’autonomia della maturità in cui i rapporti d’affetto e di consuetudine, pur persistendo immutati, entrano in una nuova dimensione. Quali siano stati i prezzi pagati, nella sepolta economia vitale, per la stupefacentemente radicale libertà e spregiudicatezza di pensiero che mostra lo Zibaldone. per i rari e difficili, ma supremi, esiti della poesia. Forse, l’inerzia totale sul piano pratico di tante premesse – che pur si mantengono su quello ideale della vita e dell’opera di Leopardi –, e che appare abbastanza singolare, sol che si pensi all’entusiasmo che le due prime canzoni pubblicate da Giacomo, All’Italia e Sopra il monumento di Dante, accesero al loro apparire, tanto che il Giordani gli scriveva da Piacenza : «girano per questa città come fuoco elettrico: tutti le vogliono, tutti ne sono invasati». Si pensi, a contrasto, alla estrema cautela diplomatica con cui Leopardi, da Pisa, rispose il 29 marzo 1831 alla lettera del Comitato di Governo Provvisorio di Recanati che lo nominava deputato rappresentante dell’Assemblea Nazionale di Bologna, circospezione che l’imminenza del ritorno delle truppe austriache non basta a motivare (e la risposta venne sostanzialmente concordata col padre, cui pure scriveva: «Desidero però sommamente che la città e la provincia si scordino ora totalmente di me e de’ miei: creda per certo che non possono farci cosa più vantaggiosa»). Si pensi pure, più tardi, alla satirica ambivalenza e irresolutezza dei Paralipomeni della Batracomiomachia. E infine, più in grande, al riflesso di una tale irresolutezza nella ricorrente e insuperabile clausura pessimistica del pensiero leopardiano: che pure, nella febbrile elaborazione di tutto il suo decorso, sembrerebbe tante volte consentire altre aperture e possibilità di sviluppo; e che le miserie, pur gravi, in cui visse il poeta, non bastano, come s’è visto – e le sue proteste al riguardo hanno un accenno di schiettezza che non può mentire –, a motivare integralmente.
Si è detto dell’immagine giovanile – anzi, con persistenti tratti di adolescenza – che ci lascia di Leopardi, fino agli ultimi anni, l’epistolario. Immagine giovanile che, a ben vedere, stinge su tutta la sua poesia e tutto il suo pensiero, colorendo della vividezza del suo incarnato il diaccio pallore dell’infelice esperienza vitale. E poco importa che egli, nelle sue lettere, neghi d’aver mai avuto gioventù, valga per tutte quella a Giulio Perticari del 30 marzo 1821: «La fortuna ha condannato la mia vita a mancare di gioventù: perché dalla fanciullezza io sono passato alla vecchiezza di salto, anzi alla decrepitezza sì del corpo come dell’animo». Confidenza probabilmente contemporanea ai versi del Sogno:
Giovane son
la giovanezza mia come vecchiezza;
la qual pavento, e pur m
Ma poco da vecchiezza si discorda
il fior dell
Ma, pochi mesi prima, in un appunto dello Zibaldone, egli aveva notato acutamente come proprio dei giovani l’inebriarsi, al pari che della felicità, anche dell’infelicità: «E perciò il giovane è incapace d’altra consolazione che della morte» ecc., qualificando così sotto il segno della giovinezza gli atteggiamenti più spontanei del suo sentimento. E noi sappiamo altresì come il senso intollerabile di aridità e sazietà della vecchiaia sia peculiare delle giovinezze negate e deluse: e tutti rammentiamo come esso venne fatto proprio da romantici e decadenti, che pure scrivevano in giovinezza o nel pieno vigore dell’età, da Musset a Baudelaire fino ai simbolisti e ai crepuscolari.
E, se il mito giovanile dell’amore si sublimerà, per Leopardi, essenzialmente nella poesia e nel sogno, l’altro mito della giovinezza, quello dell’amicizia, sarà destinato a prender corpo e a serbargli le più durevoli consolazioni. È desso, accanto al pathos volta a volta trepido, commosso e rattenuto delle relazioni familiari, ad assicurare all’epistolario le sue più potenti e poetiche aperture. Né occorre dar troppo peso, soprattutto nelle lettere al Giordani, e più tardi al Ranieri – e relative risposte – a certi traslati e iperboli di stampo amoroso che, ai nostri dissueti orecchi d’oggigiorno, rischiano di assumere un che di ambiguo e di svenevole: essendo piuttosto da porsi in relazione alla diffusa moda illuministico-romantica che, dopo Rousseau, così usava caricare le espressioni del sentimento. Le prime grandi lettere al Giordani, nella loro concitazione appassionata, ci offrono l’immagine più ardente, pura e virile dell’amicizia, quella che sorge dalla comunanza degli interessi e delle azioni ideali, e che, nella clausura recanatese del primo Leopardi, si effonde, attraverso l’impetuosa confidenza autobiografica, con uno slancio di vita che fa tutt’uno con l’esplodere della ribellione da tempo covata, come una scoperta improvvisa del mondo. E poco monta che il rapporto, naturalmente iniziatosi da parte di Giacomo come di discepolo a maestro, col tanto a lungo atteso e bramato «uomo di cuore d’ingegno e di dottrina straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermi l’amicizia sua», rapidamente si modifichi, e quasi si rovesci, e il «Maestro» diventi a poco a poco, nonostante la differenza degli anni, eguale e compagno, e più che altro confidente e testimone del «tumulto di pensieri», della «piena di pensieri» (e di passioni, e di scontenti, e di rovelli), sulla vita, il mondo, la letteratura, che Leopardi gli espone. E che, per quanto profondamente sincera nel suo affetto come nella sua presaga ammirazione, la natura debole e malpratica del letterato piacentino, pur famoso e influente al suo tempo, non riuscisse a escogitare per Giacomo altri validi aiuti e indirizzi all’infuori di consigli tanto amorevoli quanto generici. Anche l’amicizia, come l’amore, ha le sue grandi stagioni, e trova la sua pienezza nell’ardore della corresponsione più che nei positivi assestamenti. Più tardi, l’ultima grande amicizia del Leopardi, quella col Ranieri (a tralasciare le altre col cugino Melchiorri, col giovane patrizio Papadopoli, col Brighenti, col Pepoli, col Vieusseux, ecc. e infine quella, tenerissima e veramente consolatrice per Giacomo, con la famiglia Tommasini), sarà contrassegnata invece, più che da una vera e propria comunanza intellettuale, dalla dipendenza affettiva e pratica: né essa lascia nell’epistolario tracce di molto rilievo, fuorché biografico. E non è il caso, in un breve scritto limitato ad alcuni aspetti della letteratura e del pensiero leopardiano, di riandare alle polemiche dei biografi sulla parte e funzione esatta avuta dal Ranieri in quel rapporto amicale, cui non mancano aspetti enigmatici e un po’ morbidi, ma che pure in qualche modo sostenne il Leopardi negli ultimi anni della sua vita; e sulla testimonianza che lo stesso Ranieri ne lasciò nei Sette anni di sodalizio.
Siamo infine al lamento, che percorre l’epistolario, della vita infelicissima. Al motivo della solitudine, delle «infinite e micidiali malinconie», della squallida attonita noia, della sempre, per una causa o l’altra, cagionevole salute, con la correlativa preoccupazione dei climi favorevoli e degli spostamenti necessari; l’insistenza, come avviene per i malati cronici, su descrizioni di sintomi, di effetti e di rimedi; e la constatazione, di tanto in tanto, dei radi periodi di sollievo e di benessere.
Non solo nelle lettere ai familiari e agli amici, ma, a volte, in quelle dirette ad estranei, Leopardi dichiara la propria situazione d’infelicità quale fondamentale condizionamento del suo destino, se pure egli nega che ne dipenda la sua concezione generale della vita (il che, come si è visto, è vero, se pure in un senso assai complesso). Infine, a un certo momento, non più paga della confidenza privata o della trasposizione poetica, una tale dichiarazione d’infermità e di miseria si fa pubblica – ma ci aiuta ad intenderne quella che oggi potrebbe parere mancanza di riservatezza il conformarsi, anche qui, ad uno schema di comportamento illuminista-romantico –, con la Dedicatoria Agli amici suoi di Toscana, premessa all’edizione fiorentina dei Canti del 1831: «Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena». Dove la preterizione accentua con più forza l’arreso lamento, e il patetico preannuncio di morte, che risuona fin dalla «favola breve» dell’epigrafe petrarchesca. Leopardi sente gravare sulla propria esistenza come il peso d’una condanna, d’una maledizione originaria. «Se noi fossimo antichi,» scriveva al Giordani il 24 aprile 1820 «tu avresti spavento di me, vedendomi così perpetuamente maledetto dalla fortuna, e mi crederesti il più scellerato uomo del mondo». Il concetto, che si riaffaccia, sia pure sotto un profilo un po’ particolare, nell’Ultimo canto di Saffo, trova la sua esplicazione in una nota dello Zibaldone del 3 settembre 1823, dove è considerata, con abbondanza di esempi e di comprove filologiche, l’idea delle nazioni e società primitive che reputavano «l’infelice e lo sventurato per nemico agli Dei o a causa di vizi e delitti ond’ei fosse colpevole, o a causa d’invidia o d’altra passione o capriccio che movesse i Numi...».
Eppure, per quanto possa apparire impietoso, poiché non esiste struttura di destino che non implichi le sue segrete transazioni e compensazioni (si rammentino le stupefacenti osservazioni di Dostoiewskj, nei Ricordi della casa dei morti, sulla vita di quei deportati ch’egli ci descrive in perpetuo incatenati al muro), è pur lecito chiedersi la funzione che può aver avuto, nella segreta economia dell’esistenza leopardiana, il dato della consapevole, riconosciuta e dichiarata infelicità. Quello, purtroppo reale, della debolezza e infermità fisica era condizionante, e perciò insuperabile. Il dichiararlo adempieva ad una duplice funzione, di sfogo e di alibi. Di sfogo, impossibile nell’infelicità totale: lo stesso Leopardi rilevava, nello Zibaldone. il 30 novembre 1828, «che il gran dolore (come ogni grande passione) non ha linguaggio esterno. Io aggiungo che non ne ha neppure interno... L’uomo... allora non ha propriamente pensieri, non sa neppur bene la causa del suo dolore; egli è in una specie di letargo; se piange (e l’ho osservato in me stesso), piange come a caso, e in genere, e senza saper dire a se stesso di che». L’espressione, confidenza, riflessione e poesia, adempieva il suo ufficio catartico, permetteva il ricupero della consistenza vitale. La seconda funzione, più indiretta e sottile, dell’alibi, quella, ben nota agli psicologi moderni, della malattia come difesa (giustificazione per l’allontanamento da Recanati, disimpegno nei riguardi di sistemazioni fisse e troppo vincolanti, scudo protettivo contro le fastidiose obbligazioni mondane), manteneva aperta, per tutta l’ampiezza del raggio consentita dal difficile condizionamento vitale, la disponibilità per il pensiero e per l’opera. E, nella stessa giornata recanatese, ricca d’idee, del 30 novembre 1828, egli aveva già notato: «Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo. Passar le giornate senza accorgermene, parermi le ore cortissime e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle». Così, anche Leopardi raggiungeva nel concreto operare – e non soltanto, deve pensarsi, nei rari, beati e laboriosi ratti della composizione poetica –, il difficile e vario compenso di positivo e negativo, indipendente dal pensiero e dalla volontà cosciente, la sottile lama di rasoio su cui, a ben vedere, si equilibra ogni esistenza, per il solo fatto di sussistere e di durare, al di là delle distinzioni di piacere e di dolore, di felicità e di infelicità, di bene e di male, in cui sogliamo incasellare, per comodità di rapida intellezione e di pratico scambio, le fisionomie e i destini.
Infine l’idea della morte, l’ultimo rifugio, la suprema valvola di sicurezza, per così dire, della psicologia leopardiana, che presto si annuncia anche nelle lettere, per farsi più insistente via via, man mano che le forze scemano, la malattia agli occhi – che gli vieta la lunga applicazione, e a periodi la stessa lettura – si aggrava, e la condizione di infermità lo riavvicina al disarmato lamento infantile. Quanto egli l’aveva accarezzata e stancata, quell’idea, attraverso il vagheggiamento poetico; quanto l’aveva fermamente analizzata, come nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, dove, dissociando la morte e il dolore, egli sembra verificare l’impetuosa e vaga immagine romantica della fine consolatrice nelle linee glaciali e un po’ cavillose della sua filosofia sensistica. Più tardi, mentre nel Tramonto della luna e nella Ginestra, ossia sul piano oggettivo della poesia, essa si colorerà di virile rassegnazione stoica, nella chiusa vita del sentimento individuale si intensificherà vieppiù come smarrito anelito, cieca aspirazione al riposo. È sintomatico l’abbandono, sfiorante la crudeltà, con cui ne scrive al padre, fino all’ultima lettera già da noi citata del 27 maggio 1837. E già nell’altra pure in precedenza citata del 3 luglio 1832, quasi ponendo in opera un ingenuo affettuoso ricatto per ottenere un soccorso economico, e per assicurare ch’esso non avrà facilmente occasione di ripetersi, egli scriveva: «Se mai persona desiderò la morte così sinceramente e vivamente come la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in ciò mi fu superiore. Chiamo Iddio in testimonio della verità di queste mie parole. Egli sa quante ardentissime preghiere io gli abbia fatte (sino a far tridui e novene) per ottener questa grazia; e come ad ogni leggera speranza di pericolo vicino o lontano, mi brilli il cuore dall’allegrezza ». Dove la trasposizione di quell’anelito nei termini della pratica religiosa non può neppure più attribuirsi, come altrove scrivendo al padre, a una sorta di ossequiosa ipocrisia filiale: tanto, dall’intera lettera, risulta spontanea l’identificazione di Giacomo alla lontana situazione puerile, di arreso bisogno e di amoroso cruccio e implorazione.
Si è appena accennato, di sfuggita, a un’idea romantica della morte: con più precisione occorrerebbe riflettere al primo confuso insorgere dell’entusiasmo e della disperazione romantica dal seno del razionalismo illuministico, a partire dal Werther, e seguire via via quell’idea, dai suoi primi germogli preromantici, nel riflettersi sui microcosmi individuali. Ma in poeti come Foscolo e Keats, la morte accarezzata nella fantasia resta pur sempre l’«altro» distinto dalla vita, se anche affacciantesi al culmine della passione, e quasi coronamento e magari ricompensa della sua irresistibile intensità. Per Leopardi si può pensare, invece, a qualcosa come un impasto originario dell’ardente desiderio della vita, proprio della giovinezza, e di quella istintiva declinazione verso la morte, che di solito si manifesta gradatamente nell’età adulta: ma mentre nella vecchiezza quella paurosa tendenza cerca di ingannarsi o sopirsi nella sordità dell’indifferenza e dell’abitudine, in lui continua ad avvivare il proprio gelo dei colori e delle forme della prospettiva esistenziale, fatti più puri, fermi e incantevoli da quel preventivo senso di desolata rinuncia e distacco. Il che appare creare, in taluni punti supremi della poesia leopardiana, qualcosa come un equivoco e fascinoso scambio fra l’uno e l’altro regno, per cui le rispettive immagini vengono a coincidere, e, ad esempio, l’appassionato abbandono alla morte («null’altro in alcun tempo – sperar, se non te sola») misteriosamente si confonde e si identifica col giovanile anelito al felice riposo dell’amore («quel dì ch’io pieghi addormentato il volto / nel tuo virgineo seno»).
Una scelta dello Zibaldone e delle Lettere imponeva, soprattutto quanto al primo, ardui e delicati problemi, in ragione stessa dell’ampiezza di tale scelta.
Per quanto riguarda lo Zibaldone. sono state, anzitutto, soppresse le note di mero carattere filologico, la cui importanza, giustamente rivendicata nei nostri anni, riguarda tuttavia un Leopardi «specialista», e destinato a specialisti. La scelta si è quindi unicamente esercitata sul Leopardi moralista e filosofo.
Si sarebbe potuto, seguendo un criterio attuato da alcuni esimii compilatori di spicilegi leopardiani, enucleare dal complesso tessuto dello Zibaldone pensieri sparsi a sé stanti, vuoi rispettandone l’ordine cronologico, vuoi ordinandoli per materie. Adottandosi un simile procedimento, si sarebbe potuto invocare un autorevole precedente addirittura in Leopardi stesso, che a quello si uniformò traendo, dal caotico materiale dei suoi quaderni, i centoundici Pensieri. Ma ridurre il pensiero leopardiano a una serie di frammenti e di punte aforistiche e staccate, sopprimendo i passaggi esplicativi e dialettici, avrebbe finito col tradire il suo più vero carattere, che consiste invece nella sua continuità, nel suo insistente e consequenziario sdipanarsi in lunghi e particolareggiati sviluppi riflessivi. Si sarebbe falsata, in tal modo, la struttura «saggistica» cui massimamente si affida la sostanza e il significato della filosofia leopardiana.
Si sarebbe potuto quindi, con più aderenza, attenersi unicamente ad un Leopardi «saggista», trascegliendo nella loro integralità le pagine che riflettono alcuni grandi temi centrali ricorrenti nella sua meditazione (ad esempio teoria del piacere, teoria delle illusioni, poesia degli antichi, amor proprio e amor patrio, vitalità, assuefazione, ecc.). Ma si correva, così operando, il rischio di sacrificare tratti ricchi di poesia, osservazioni morali autonome spesso tra le più vive letterariamente, e, per converso, di mantenere pagine più stanche, ripetizioni, ecc.
Così, il criterio di scelta ha dovuto essere forzatamente eclettico e contemperare le diverse esigenze. Abbiamo anzitutto rispettato l’ordine cronologico, indispensabile ad intendere gli sviluppi e le direzioni della filosofia leopardiana. Si sono salvate, per quanto possibile, le suites di pensieri sui temi che in Leopardi ci sembrano essenziali in quanto più prossimi alla sua problematica istintiva, morale e poetica. Così abbiamo abbondato nella scelta delle sue riflessioni metafisiche e psicologiche, come pure in quelle di natura storica e politica, sopprimendo tuttavia, nelle une e nelle altre, i passaggi che ci sono parsi meno sostanziali. Così, ad esempio, abbiamo limitato quelle di pura estetica, linguistica e letteratura alla parte più vivace e veramente innovatrice, sacrificando le più scolastiche e tradizionalistiche (ad esempio, molte sopra la «relatività» del bello fisico).
Un criterio di economia riferito alla struttura complessiva dei due tomi delle opere, con le loro rigide esigenze di spazio, ci ha pure indotti a sopprimere, nella nostra scelta – salvo rare eccezioni che ci sono parse particolarmente illuminanti –, le parti che vennero successivamente elaborate e collocate da Leopardi stesso nei Pensieri. in alcune Operette morali, e altrove, come nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Si è cioè, in loro luogo, preferito offrire al lettore pagine completamente nuove, ossia non trovanti riscontro nel primo tomo delle Opere.
Più agevole è stata la scelta dalle Lettere, in cui abbiamo dato, naturalmente, il passo alle più intense e ricche sotto l’aspetto umano e poetico, come pure a quelle meglio rivelatrici del carattere leopardiano, nelle sue stesse complessità e contraddizioni, e del suo ambiente. Naturalmente, un tale criterio ha finito per fare più largo spazio alle lettere giovanili che a quelle della maturità. A illuminarne e completarne il senso, si sono offerte, nelle note di commento, stralci a volte anche sostanziosi delle lettere dei suoi corrispondenti. Abbiamo invece dovuto sacrificare quelle di puro interesse incidentale e biografico, come abbiamo soppresso, nel corpo di alcune lettere, i lunghi passaggi di riferimenti eruditi, bibliografici e tipografici, meno essenziali per il lettore non specializzato.
Per quanto infine concerne i criteri generali a cui ci siamo attenuti nelle nostre note di commento, di carattere unicamente esplicativo e filologico, secondo vuole anche lo spirito informatore della collezione, non abbiamo che da rimandare il lettore alla nota apposta in calce alla Introduzione al primo tomo delle Opere.