LEOPARDI, Giacomo
Vita. - La Rivoluzione francese s'era propagata in Italia, turbandone la vita tranquilla e lasciandovi i germi di un rinnovamento futuro: e le truppe di Bonaparte avevano invaso lo Stato Pontificio ed erano da pochi mesi passate da Recanati, quando L. vi nacque il 29 giugno 1798, dal conte Monaldo e da Adelaide dei marchesi Antici, primogenito della nobile casata. Infanzia felice, per quanto nei primissimi anni della sua vita le fortunose vicende politiche procurassero guai a suo padre e le condizioni economiche della famiglia fossero dissestate, con l'aggravante di annose liti pendenti, e per quanto la madre, austera e non espansiva, desse all'andamento della casa un tono di estremo rigore. Nel 1799 gli nasceva un fratello, Carlo, e nel 1800 una sorella, Paolina. Furono essi, più assai dei due altri fratelli sopravvenuti dopo, i suoi primi e maggiori amici, ch'egli, fanciullo, dominava nei giuochi e nelle birichinate e incantava inventando e narrando lunghe novelle, e aveva sempre consenzienti nel suo frequente recalcitrare alla disciplina domestica. Il padre li aveva affidati a un precettore, don Giuseppe Torres, al quale intorno al 1808, e fino al 1812, succedette l'abate Sebastiano Sanchini. Dall'uno e dall'altro ebbero un insegnamento poco più che elementare; ma il padre, che era colto, sorvegliava e incoraggiava i loro studî e andava orgoglioso dei loro progressi, dei quali gli piaceva dar pubblico saggio agli amici in vere e proprie accademie: l'ultima, il 20 luglio 1812, comprendeva un programma di scienze, di lettere, di filosofia, fin di teologia, che dimostra come gli sforzi riuniti del Sanchini e di Monaldo aprissero, per quanto lo consentiva l'ossequio alla tradizione cui si ispiravano, i più disparati orizzonti allo spirito dei tre fratelli. Giacomo cresceva intellettualmente precoce, avidissimo di sapere, dotato di grande spirito d'osservazione, divoratore di libri, curioso di cose nuove, bisognoso di affermarsi; come il padre lo produceva nelle accademie, egli aveva, fanciullo, smania di scrivere libri, se anche non li poteva ancor pubblicare: nel 1809, a undici anni, dava una traduzione del primo libro delle Odi di Orazio; nel 1810 raccoglieva in un quadernetto venti dissertazioni latine "de meo ingenio primordia dicendi". Questi lavori sono conservati nella biblioteca paterna, che, generosamente dotata di nuovi libri via via che l'allargarsi dei suoi interessi spirituali ne richiedeva l'uso, fu, dal 1812, la sua vera maestra: in essa, nel giugno 1813, il Leopardi cominciava a studiare da sé il greco, nel dicembre l'ebraico; e intanto componeva i primi lavori poetici, liriche, favolette, sermoni, epigrammi, fin due tragedie: La virtù indiana e il Pompeo in Egitto (1812). Ma se dimostrava in questi tentativi una disinvoltura superiore all'età, non pensava però con essi di arrivare alla gloria. Alla gloria s'illudeva che avesse a portarlo la filologia: e così dava mano, tra i quattordici e i diciotto anni, a lavori d'erudizione impostati con un ardimento e con una larghezza di concezione che va rilevata: una Storia dell'astronomia abbozzata nel 1812, un Saggio sugli errori popolari degli antichi composto in due mesi di lavoro nel 1815, un Commentario su Sesto Giulio Africano pure nel '15, un Discorso su M. Cornelio Frontone nel '16. E insieme, versioni dal greco e dal latino, numerose: di epigrammi (1814), degl'idillî di Mosco (1815), della Batracomiomachia (1815), di Frontone (1816), del primo libro dell'Odissea (1816), del secondo dell'Eneide (1816), della Titanomachio esiodea (1817). Il più di questi lavori, in cui il giovane Leopardi era piuttosto un erudito che un filologo, e in ogni modo piuttosto un filologo che un artista, per quanto intorno al 1816, sotto l'influenza soprattutto del Giordani, per effetto della sua, come egli diceva, "conversione letteraria", spingesse il culto della forma all'affettazione, rimase inedito finché il Leopardi fu vivo: ma qualche saggio ne diede, a Milano, Lo Spettatore, periodico dell'editore A. F. Stella; e qualche altro - gli scherzi epigrammatici tradotti dal greco - fu pubblicato a Recanati. Così il giovane L. cominciò ad esser noto fuori della cerchia delle relazioni familiari, specialmente a Milano, dove il Giordani, condirettore allora della Biblioteca italiana, ne celebrò con generoso entusiasmo l'ingegno, e a Roma, dove lo zio Carlo Antici, dotto e frequentatore di dotti, se ne professava orgoglioso. Ma intanto lo studio "matto e disperatissimo", di cui l'abbondante produzione ora ricordata è testimonianza, rovina senza rimedio la sua salute, e lo riduce un povero essere fiaccato, quasi deforme, senza resistenza fisica e senza attrattive. Ne seguì una pausa forzata nelle letture e nello studio; ma il suo mondo interiore s'era fatto prodigiosamente ricco, e al bisogno di conoscere e di produrre, che non poteva più essere soddisfatto con la continuità e con l'alacrità di prima, sottentrò quello di meditare e di esprimersi. Così egli diventava, e fu poì sempre, essenzialmente un pensatore e un poeta.
Il bisogno di esprimersi, che si manifesta per la prima volta nell'Appressamento della morte (1816) - cantica in terzine che risente dell'influenza del Varano e del Monti, ma che è già qualche cosa di più che un'esercitazione letteraria - va considerato anche in relazione al disagio, ormai incoercibile, in cui il L. s'era venuto a trovare all'annunziarsi della pubertà. Innamorato della gloria e innamorato dell'amore; conscio di sé stesso e spesso vittima di una timidezza morbosa; smanioso di vivere la vita e senza fede più nella vita; irritato per la disciplina cui lo tenevano legato i genitori, che lo amavano a modo loro ma non l'intendevano più; portato, per reazione, a veder tutto male nella sua famiglia e nella sua città, e tuttavia incapace di attingere il necessario nutrimento spirituale alla solitudine ombrosa in cui si chiudeva, il Leopardi si sfogava, con appassionata eloquenza, nelle lettere raccolte nel suo Epistolario, che sono le sue liriche più immediate: e l'opera sua d'artista prendeva naturalmente la forma di lirica, e nella lirica attingeva altezze cui nessuno s'era levato più, in Italia, dopo il Petrarca.
Le due prime canzoni (All'Italia, Sul monumento di Dante) furono pubblicate nel 1819, con la data del 1818, a cura dell'abate Cancellieri, a Roma, con una dedica a Vincenzo Monti; quella Ad Angelo Mai a Bologna, nel'20, da Pietro Brighenti. Altri canti, dettati prima, erano stati rifiutati o per ragioni diverse non li aveva potuti pubblicare e non li pubblicò più, salvo un frammento dell'Appressamento della morte che, rimaneggiato, trovò poi posto nell'edizione napoletana del 1835; di altri, un gruppo importante in cui la sua personalità si afferma più decisa scrisse tra il '21 e il '23, e una parte ne pubblicò più tardi, ancora a Bologna, nel 1824. Dopo un tentativo di fuga dalla casa paterna, facilmente sventato (1819), il L., che ormai a Recanati non sapeva vedercisi più, fu, col consenso e per iniziativa dei genitori, per cinque mesi a Roma, tra il 1822 e il 1823, ospite di Carlo Antici. Là si accorse, con doloroso stupore, che l'infelicità la portava con sé, e che tutto il mondo è paese. Pensò di lavorare per l'editore De Romanis, al quale avrebbe dato una versione di Platone, o di ottenere un impiego statale, che l'amicizia del Cancellieri, ch'era stato il primo a celebrarne pubblicamente l'erudizione, e la protezione dello storico G. Bertoldo Niebuhr, ministro di Prussia presso la corte pontificia, gli facevano sperare. Ma queste speranze non si concretarono, né il Leopardi ebbe pazienza d'aspettare che si concretassero. Tornò a Recanati con desiderio, e a Recanati trovò più lena per leggere e per lavorare, scrivendo in pochi mesi poco meno che un migliaio di pagine dello Zibaldone. Dalle riflessioni in esso raccolte volta a volta, scaturì l'idea prima delle Operette morali, alle quali il L. aveva pensato fin dal 1820, secondo che accennò in una lettera al Giordani, ma che scrisse tutte dal gennaio al novembre 1824, in un anno di lavoro felice, quasi d'impeto, e corresse e ritoccò nel corso del 1825. Ma anche questa volta, per quanto la dimora in patria gli si dimostrasse la più propizia al lavoro, finì col prenderla a noia: e appena gli si presentò la possibilità di partirne, nel luglio 1825, ne partì, per recarsi, con un desiderio che dimostra come anche in lui l'illusione avesse presa, a Milano, ospite e stipendiato dall'editore Stella, con l'incarico di lavori letterarî: versioni, edizioni di testi classici, una progettata "enciclopedia delle cose inutili" alla quale non pose mano, un sobrio e meditato commento al canzoniere del Petrarca che invece compì e pubblicò nel 1826, e due crestomazie italiane, di prose e di versi, che uscirono poi, rispettivamente, nel 1827 e nel 1828. Anche Milano, dove si trattenne fino al settembre, non l'appagò: non ci si sentiva nel suo "centro". Lo attraeva invece Bologna, dove aveva fatto una breve sosta nel luglio, e dove, lasciata Milano, pensò di fissarsi, mantenendovisi con il tenue assegno continuatogli dallo Stella e con qualche lezione privata. A Bologna ebbe amici, estimatori, anche critici: gente insomma che s'accorgeva di lui. Frequentò la società, ricevette accoglienze cordiali da molti. Pubblicò un nuovo volume di Versi, quasi tutti non recenti. Aspirava anche a un impiego statale - la segreteria dell'Accademia di belle arti -; ma gli affidamenti ricevuti dal cardinale Della Somaglia, decano del Sacro Collegio e suo benevolo, vennero meno, perché dava ombra la sua amicizia col Giordani, ch'era un mangiapreti. Fu invece incoraggiato da un altro suo benevolo, il Bunsen, a recarsi a Roma dove avrebbe potuto ottenere una cattedra alla Sapienza, ma, preccupato per la salute, non si sentì di muoversi prima di ricevere la nomina, e la nomina non venne mai. Controvoglia, quindi, si decise, nel novembre del 1826, al ritorno a Recanati, dove la famiglia lo aspettava con desiderio orgoglioso, ma dove egli si sentiva sempre più straniero. A Recanati passò l'inverno 1826-27; poi di nuovo a Bologna nell'aprile del 1827, e poi, nel giugno, a Firenze, dove il Giordani l'aspettava. Iniziato da lui, il L. prese a frequentare il gabinetto del Vieusseux e le conversazioni di famiglie ospitali. Con nessuno divenne intimo: non collaborò, benché invitato, all'Antologia, che nel gennaio del 1826 aveva dato una primizia delle Operette morali; si straniò dal Giordani che era stato il suo grande amore ma col quale non aveva mai avuto consuetudine di vita, o forse il Giordani, invescato nelle conversazioni e nella mondanità, si straniò da lui; conobbe il Manzoni, e assisté, freddo ma cortese, a un ricevimento offerto dal Vieusseux in suo onore. La città tuttavia, dove egli dimorò a diverse riprese, esercitò sempre su lui un fascino tranquillo e rasserenante. Meglio ancora sembra che si trovasse a Pisa, dove fu nell'inverno 1827-28, che passò, se raccogliamo la testimonianza delle sue lettere e badiamo all'intonazione e alla vena più limpida dei canti che, dopo una lunga pausa nell'attivita creativa, scrisse allora (Il Risorgimento, A Silvia), in un benessere spirituale che gli era fino allora mancato e che non ritrovò più mai. Nella primavera del 1828, di nuovo a Firenze; nel novembre, poiché la salute declinava sempre più e gli erano venute meno, cessato il contratto che aveva con lo Stella, le risorse con cui fino allora aveva potuto, senza chiedere nulla alla famiglia, mantenersi fuori, di nuovo a Recanati. Quest'ultima dimora nella vecchia casa, dove il Leopardi si ridusse avendo per compagno di viaggio il Gioberti, per andarvi a morire poiché ormai disperava di fabbricarsi altrove il suo destino da sé, ha qualche cosa d'indicibilmente triste. Nel 1827, dopo lunghi indugi, lo Stella aveva pubblicato le sue Operette morali, ma la pubblicazione non aveva riportato che un freddo successo di stima. Il Leopardi aveva potuto accorgersi di essere contro corrente, e di essere destinato a vivere, nel suo tempo, come un solitario.
A Recanati, la sua famiglia, ancora in lutto per la morte d'un suo fratello più giovane, Luigi, era scompigliata per il dissidio determinato da Carlo, l'altro fratello, con un matrimonio al quale i genitori, specie Monaldo, erano stati ostilissimi, e non s'erano saputi acconciare. Giacomo ne sentì disagio, e s'appartò più che mai. Era sfiduciato, non aveva più lena di lavorare, e, con gli occhi malati, non era nemmeno in grado di leggere; faceva conto, scrisse al Rosini, d'aver terminato il corso della sua vita. Chiese invano agli amici che gli trovassero un impiego: non se ne potevano trovare di soddisfacenti, o di abbastanza retribuiti, o di tali che richiedessero un compito che egli fosse in grado d'assolvere. Più giovane, avrebbe potuto, vestendo l'abito clericale, assicurarsi il godimento di benefici, resisi vacanti per la morte di un prozio, che di diritto spettavano a membri della sua famiglia; non aveva voluto, perché in coscienza non si sentiva; e Monaldo, ch'era sull'altra sponda ed era galantuomo come lui, lo aveva approvato. Per un momento sperò d'ottenere, con le Operette morali, un premio di mille scudi che doveva essere assegnato dall'Accademia della Crusca nel 1830 all'opera letteraria italiana più notevole che fosse stata pubblicata nel quinquennio: ma il concorso, per quanto non vi avesse preso parte con i Promessi Sposi il Manzoni ch'egli sentiva il solo avversario temibile, non gli fu favorevole: il premio fu dato a Carlo Botta, e le Operette non ebbero che due voti. Nuovo abbattimento del L.; ma riuscì a trarnelo con un'iniziativa generosa, e a trarlo insieme da Recanati, il generale Pietro Colletta allora esule in Toscana: il quale, dopo averlo invitato a recarsi a Firenze ospite suo e avere tentato invano diversi ripieghi per indurlo ad accettare, mise insieme, con altri benevoli, una somma da versargli, per un anno, a rate mensili, allo scopo di assicurargli la possibilità di vivere per qualche tempo in Toscana, economicamente indipendente dai suoi, e di curarvi un'edizione definitiva dei canti.
Così il L. tornò a Firenze nel maggio 1830. Nel luglio, pensando di farsi editore egli stesso del promesso volume, diede fuori un manifesto; nel dicembre, raccolte circa 700 sottoscrizioni, cedette l'iniziativa al libraio G. Piatti, per il compenso di 80 zecchini, e gli consegnò i Canti (le Canzoni e i Versi pubblicati a Bologna nel 1824 e nel'26, e molte cose nuove, le sue più significative e più alte), ai quali premise una lettera di dedica "agli amici di Toscana" che era e voleva essere un ringraziamento e un riconoscimento del beneficio da loro accettato, e che è insieme la più disperata e la più eloquente delle sue prose. Conobbe in questo tempo uno studioso svizzero, Luigi De Sinner, cui affidò i suoi manoscritti filologici giovanili perché li divulgasse in Germania; e conobbe Antonio Ranieri, col quale, nel dicembre del '30, si decise a far vita insieme. Figli di famiglia tutti e due, il Ranieri molto più giovane e senza sicure risorse proprie, si sarebbero, economicamente, sostenuti secondo le rispettive possibilità. Il L. poteva contare, per qualche mese ancora, sull'assegno degli amici di Toscana; poi sul provento dell'edizione dei Canti; poi, dal luglio 1831, dispose di un modesto mensile, e di qualche assegno straordinario, che, vinto l'orgoglio, si decise a chiedere ai suoi, e lo ottenne subito, conservandolo per tutta la vita. Anche il Ranieri aveva denari da casa; ma presto gliene fu sospeso l'invio, che il padre, modesto impiegato, dichiarava di non poter continuare. Era quindi in una situazione economica anche più precaria che il L.; e tuttavia ebbe il torto, per ingenua megalomania, di voler passare presso i posteri, specialmente in un libretto di memorie pubblicato mezzo secolo più tardi (Sette anni di sodalizio con G. L.), per il finanziatore del contubernio e quasi per il mecenate del poeta. Questo vanto, dimostrato arbitrario, gettò su lui una luce antipatica. In realtà, egli amò e curò, per tutto il resto della vita, il L., che s'era fatto sempre più bisognoso di assistenza: anche se, esclusivo come era per indole, ebbe l'aria di sequestrarlo, e se, tanto al di sotto di lui come risorse interiori, non lo intese mai del tutto, e non riuscì a fargli superare quel senso di angosciosa solitudine - tanto più angosciosa quando non sia solitudine anche materiale - che è la vera tragedia spirituale del L., e dà alla sua esistenza un'impronta così desolata.
Nel marzo 1831 il L. era stato eletto a voti unanimi deputato distrettuale, per la città di Recanati, all'assemblea che doveva tenersi a Bologna, essendo dichiarato decaduto, nella Romagna e nelle Marche, il dominio temporale. Ma quando la notizia dell'elezione gli giunse, il moto rivoluzionario, che per un momento aveva dato allo Stato Pontificio un regime costituzionale, era già domato; e il poeta poté esimersi dal prendere atto di una pur significativa prova di fiducia, che meneva in serio imbarazzo lui e specialmente suo padre. Nel determinare in lui questo imbarazzo aveva anche parte il suo distacco spirituale, ormai irrimediabile, da Recanati, il "natio borgo selvaggio", e dalla sua casa, dove i genitori e la sorella lo avrebbero sempre voluto, anche per brevi periodi intermittenti, ma si andavano ormai rassegnando a non vederlo più.
La vita fiorentina del L. e del Ranieri, che era ormai divenuto il suo sodale, fu interrotta, dall'ottobre 1831 al marzo successivo, per una breve dimora a Roma, che non ha altra causa documentabile all'infuori del desiderio del Ranieri d'inseguirvi un'amica, attrice di molta fama. Che il L. lasciasse Firenze per salute, o per sottrarsi al fascino di una donna appassionatamente amata che si sarebbe burlata di lui, è mera supposizione alla quale i più tra i biografi hanno finito, ripetendola, col dare una consistenza immeritata. Questa donna, di cui egli si sarebbe poi vendicato in una lirica sdegnosa ch'è un'invettiva già nel titolo, Aspasia, è stata identificata quasi da tutti con Fanny Targioni-Tozzetti, moglie di un botanico illustre. Ma né i rapporti fra questa signora e il L., che furono corretti e cordiali anche dopo, e appariscono impostati in modo da avere come presupposto un'espressa rinunzia all'amore da parte del L., dato pure che egli sentisse il fascino della bellezza di lei, autorizzano l'identificazione, né l'Aspasia leopardiana - come del resto le altre donne da lui cantate, avessero un nome o no - è, in senso stretto, comunque identificabile. Nessun vero romanzo d'amore nella sua vita: non tanto per le sue infelici condizioni fisiche o per la sua timidezza, quanto per la sua impossibilità psicologica a spezzare il cerchio incantato della solitudine - contrasto irrimediabile tra il suo io interiore e il di fuori - alla quale era condannato. Se si toglie una violenta, improvvisa, anch'essa inespressa passione giovanile per la cugina Geltrude Cassi, le altre donne della sua lirica (Silvia, Nerina, Elvira, Aspasia) o le altre che forse lo turbarono senza che il turbamento avesse poi un'espressione artistica, non furono che le cause occasionali di stati d'animo la cui origine prima e i cui elementi di sviluppo il L. trovava tutti dentro di sé. In realtà, il L. amava, più che le singole donne, la "donna che non si trova", come disse di sé presentando l'ultima delle Nuove canzoni pubblicata dal 1824: o piuttosto amava l'amore: era assetato d'amore, di quell'"amore fortunato" in che "arse" Raffaello d'Urbino, ch'egli perciò specialmente invidiava, se badiamo a una iscrizione da lui dettata per la Villa Puccini di Scornio presso Pistoia.
Poco dopo il ritorno a Firenze da Roma, dove, come dovunque oramai, il L. s'era trovato in grandissimo disagio, il Ranieri lo lasciò per recarsi a Napoli, dove si proponeva di condurlo in seguito quando si fosse inteso con la famiglia. Il L. rimase a Firenze fino al settembre del 1833: solo, più solo che mai, fino all'aprile 1833; poi di nuovo col Ranieri, che accorse da Napoli agli appelli disperati dell'infelicissimo, per non staccarsene più. La sua salute peggiorava sempre: un'ostinata oftalmia gl'impediva di leggere e di applicarsi. Fu un periodo tristissimo, al quale vanno riferiti i canti del ciclo di Aspasia, quale che ne fosse l'ispirazione esteriore; e due dialoghi aggiunti alla seconda edizione delle Operette morali. Momenti di esaltazione malata e di desolazione; impeti di ribellione e senso di tedio: in ultima analisi, "amaro e noia", nella vita, "altro mai nulla"; e nel mondo - son parole del canto A se stesso - non altro che "fango".
Napoli, dove il L. si recò col Ranieri nel settembre 1833 avendo dato a credere a suo padre che vi andava per qualche mese per consiglio del medico - e gli prometteva che avrebbe poi fatto ritorno a Recanati per aver "l'incredibile piacere" di rivedere i suoi cari - fu la sua dimora fino alla morte. Nemmeno qui il suo spirito inquieto doveva trovare tregua: ebbe più volte la tentazione di cambiare clima, si rivolse al De Sinner col proposito di stabilirsi a Parigi, al Gargallo per passare in Sicilia; forse pensò veramente d'andare a morire a Recanati, solo o col suo Ranieri: almeno, lo lasciò sperare a Monaldo. Ma il Ranieri e una giovane sua sorella, che come quella del Leopardi aveva nome Paolina, lo curarono con una perseverante premura che ha dell'eroico: vissero essi insieme, parte in un quartierino in citta parte in una casa di campagna ai piedi del Vesuvio; e la salute del Leopardi, in qualche periodo, grazie al clima più mite sembrò rifiorire.
Una nuova edizione delle Operette morali, aumentata, comparve a Firenze, presso il Piatti, poco dopo che i due sodali avevano lasciato quella città, nel 1834; e nello stesso anno, a Napoli, il L. si accordava con un altro editore, lo Starita, perché desse una raccolta delle sue opere in sei volumi. Due soli ne furono pubblicati, il primo, dei Canti, e il secondo, che conteneva parte delle Operette; la censura vietò la vendita e la continuazione della pubblicazione, e d'altra parte il L. si disgustò dello stampatore. Ma questi contrattempi non gli inaridirono la vena. A Napoli egli avrebbe, secondo una congettura corrente, composto l'Aspasia; certo vi compose il più complesso e l'ultimo dei canti, la Ginestra, come vi rielaborò nei Ceutoundici pensieri alcune pagine dello Zibaldone; vi preparò una nuova edizione del commento del Petrarca, che l'editore fiorentino Passigli pubblicò poi nel 1839; vi scrisse - e in parte dettò al Ranieri - i Paralipomeni alla Batracomiomachia, cui lavorava ancora il giorno prima di morire. In questo poemetto, adombrando avvenimenti del suo tempo, il L. si mostrava una volta di più uno spirito contro corrente. Amava egli l'Italia, e nel carteggio giovanile col Giordani s'era seriamente preoccupato dell'azione civile spettante agli scrittori, e quest'azione si era seriamente proposta, con una efficacia che i giovani della generazione successiva alla sua avrebbero pienamente sentito; ma l'Italia del suo amore era ancora quella di Dante, del Petrarca e dell'Alfieri: era fuori del suo tempo e fuori delle correnti spirituali del suo tempo. Alle quali egli si sentiva estraneo, come nel campo politico - forma di attività che "abbominava" scrisse una volta alla Targioni-Tozzetti - così in altri: ciò che lo portava, in questi anni, a schernire la fede nel progresso negli endecasillabi della Palinodia, la riaffermata fede religiosa nei Nuovi credenti. Gli è che contro corrente egli viveva specialmente a Napoli, dove era giunto ignoto ai più, e dove visse appartato, rannicchiato come un "ranavuottolo" (ranocchio), frequentato quasi soltanto da qualche forestiero di passaggio (tra gli altri, dal Platen), veramente inteso da pochi: forse solo dai giovani della scuola di Basilio Puoti, più che dagli altri dal De Sanctis che, in quella scuola appunto lo vide una volta e gli parlò, e della visita serbò un ricordo incancellabile.
Nell'ottobre del 1836 scoppiò nella città, violento, il colera. Il L., che divisava allora una nuova edizione dei suoi scritti a Parigi e aveva interessato il De Sinner a parlarne col Baudry, schivò il male, di cui aveva un morboso terrore; ma soggiacque a un'idropisia, e a un conseguente attacco d'asma, il 14 giugno 1837, mentre, col fido Ranieri, si disponeva a recarsi a Torre del Greco, per allontanare il rischio di cader vittima della moria.
La salma del L., sottratta, attraverso difficoltà che in tempo di epidemia si possono facilmente comprendere, alla fossa comune dalla pietà premurosa del Ranieri, fu sepolta a Fuorigrotta, davanti a una chiesa: dopo qualche tempo, col concorso di amici; ebbe un decoroso monumento sepolcrale, che si fregiò d'un'iscrizione del Giordani.
L'attestato di un frate agostiniano in virtù del quale il cadavere poté ottenere sepoltura cristiana, e le dichiarazioni del Ranieri a Monaldo per tranquillizzarlo, fecero credere a una conversione religiosa del L., in punto di morte. Sulla cosa, anni dopo, s'accese una polemica aspra tra credenti e non credenti, che si contesero il morto glorioso; e il Ranieri, unico testimonio sul quale si potesse contare, si schierò, non senza contraddizione, con questi.
Fortuna del L. - Morto il L., il Ranieri, presso cui erano rimaste le sue carte, si considerò il depositario autorizzato del suo pensiero, e il custode della sua fama. Di qui dissidî tra lui e il Giordani, che, anche se a Firenze non gli era stato vicino, era sempre il più eloquente e il più fervido ammiratore di quell'altissimo ingegno, che si gloriava d'essere stato il primo a scoprire. Questi dissidî ebbero una conseguenza sulla ristampa degli scritti del L.: l'edizione che egli stesso, vicino a morire, aveva divisato di promuovere a Parigi, non poté essere tradotta in atto; ma il Ranieri riuscì dopo qualche anno, auspice il Vieusseux, a intendersi col Le Monnier, perché ne assumesse l'iniziativa, e si riservò il compito di curarla. Così le "opere approvate" videro la luce a Firenze nel 1845, in due volumi - i Canti e le Prose - della "Biblioteca nazionale": ai quali un terzo ne aggiunse subito il Giordani, in collaborazione con P. Pellegrini, di Studi filologici, dissertazioni e versioni dell'età giovanile, completati da scritti diversi già pubblicati sparsamente; e un quarto, l'anno dopo, il P. Viani, contenente il saggio sugli Errori popolari: infine due altri, nel 1849, lo stessti Viani con l'epistolario. Un volume fuori serie integrava la raccolta: quello contenente i Paralipomeni, che a iniziativa del Ranieri era invece stato stampato, per le difficoltà che avrebbe opposto in Italia la censura, a Parigi dal Baudry (1842). Il materiale manoscritto sul quale furono condotti i primi due volumi era e rimase in mano al Ranieri; né la famiglia del L., rispettosa di quella che riteneva l'ultima volontà di lui lo rivendicò: finché, morto il Ranieri, per assicurarne allo stato il possesso, un nipote del poeta, alla vigilia del centenario della sua nascita, reclamò in via giudiziaria la restituzione di quelle e delle altre sue carte, che così, per sua donazione, passarono alla Biblioteca Nazionale di Napoli, dove si trovano tuttora, e dove vi si sono aggiunte, più recentemente, quelle copiosissime del Ranieri, che le integrano.
Questa donazione offrì il materiale per la pubblicazione dello Zibaldone (Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura), che fu curata, a spese dello stato, in sette volumi da una commissione presieduta da Giosue Carducci, e per quella di un volume di Scritti varî inediti dalle carte napoletane (1906). Altre cose giovanili erano state nel frattempo pubblicate da G. Cugnoni (Halle 1880), altre da C. Benedettucci (Recanati 1887), altre furono date più recentemente da A. Donati (Bari 1924), altre da altri sparsamente; ma di tutte le cose leopardiane non accolte nei due volumi di "opere approvate" le più importanti erano state pubblicate a cura di G. Mestica in due volumi di Scritti letterari (1899) che sostituirono e integrarono, nella raccolta lemonnierana, quelli del Giordani, del Pellegrini e del Viani: come i tre volumi dell'Epistolario curati da G. Piergili (tutte le lettere conosciute del L. e alcuni gruppi di responsive) sostituiscono oramai quelli dati dal Viani nel 1849 e nel 1878.
Il moltiplicarsi delle edizioni, e, presto, delle traduzioni dell'opera leopardiana; e il trapasso dalla difficoltà, che prima s' incontrava, a trovare un volonteroso che assumesse la stampa delle "opere approvate", alla ricerca, di cui diede per primo esempio il Giordani, delle cose anche meno rilevanti e aventi mero valore di documenti, segna il rapido e sicuro dilatarsi della fama del poeta. Se in vita erano pochi a predicarlo come un "miracolo" e a professargli un'appassionata ammirazione - il Giordani, il cremonese Giuseppe Montani, il Compagnoni tra gl'Italiani, il Niebuhr e il De Sinner tra gli stranieri - e l'entusiasmo di questi pochi suonava rampogna all'indifferenza dei più, già nel primo decennio dopo la sua morte egli fu studiato, inteso, celebrato come uno dei più grandi scrittori e dei pensatori più originali che avesse avuto l'Italia. Nel 1840 la sua complessa personalità era fatta nota ai Tedeschi - che prima avevano ammirato in lui soltanto il filologo - da un'ampia monografia di Guglielmo Schultz; nel 1842 e nel 1844 il De Musset e il Sainte-Beuve lo imponevano all'attenzione del pubblico colto europeo dalle pagine della Revue des Deux Mondes; già negli anni precedenti, in Italia, suoi biografi erano stati il Montanari, l'Ambrosoli, lo Stella. Ma in Italia la vera comprensione del L. data da Francesco De Sanctis, il quale, mentre lo Schopenhauer lo riconosceva il più eloquente e il più alto tra quanti avevano messo a nudo la miseria della vita, tenne invece ad affermare la differenza fondamentale tra i due grandi pensatori per l'azione risvegliatrice che esercitava, in ultima analisi, l'accorato pessimismo dell'Italiano (1858): azione che egli stesso aveva considerata la meta ultima e aveva desiderato di conseguire come premio dell'opera sua, se è vero, come diceva nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, che faceva "poca stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al lettore nell'animo un tal sentimnento nobile, che per mezz'ora gl'impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un'azione indegna". Il De Sanctis, in sostanza, affermava ciò che sentivano oscuramente - non importa se a proposito d'una delle liriche più deboli e meno apprezzate da lui stesso, la canzone All'Italia - i giovani della sua generazione, che è quanto dire della generazione che diede il Risorgimento; per i quali il nome del L. fu una bandiera, come era stato, nella prima generazione del secolo, quello dell'Alfieri; e così si andava superando la miope diffidenza che aveva impedito al Mazzini, al Capponi, e, più iroso, al Tommaseo di sentire l'arte e d'intendere il pensiero leopardiano. Col De Sanctis, e poi col Mestica, col Carducci, con lo Zumbini, col Chiarini, la storia della "fortuna" del L., che nei loro scritti ha tappe significative, s'avvia a diventare la bibliografia dell'argomento.
Svolgimento del pensiero leopardiano. - Una caratteristica osservabile della "fortuna" (v. sopra) del L. è questa: che riguarda, da principio, essenzialmente il poeta, e la sua gloria è quasi soltanto raccomandata ai Canti. Quando l'Epistolario fu conosciuto, ebbe anch'esso lettori appassionati, perché vi si riconosceva una forma più immediata e quasi grezza di quella storia della vita interiore del L. che ha nei Canti un'espressione lirica artisticamente perfetta. Così delle Operette morali, in cui la medesima vita si riflette in una forma razionale, il germe e gli elementi fondamentali si trovano nello Zibaldone; e soltanto dopo la pubblicazione di questo fu possibile anche di esse, dopo decennî di trascuranza, sentire a dovere il valore positivo. Dei Canti e delle Operette - lo si avverte di più quando si considerino gli uni e le altre in rapporto alle lettere e allo Zibaldone - il protagonista vero è lo stesso L., lirico anche dove disserta e discute. Egli ci presenta, anche se il suo proposito sembra diverso, i suoi successivi stati d'animo in tutti i suoi scritti, che in un certo senso costituiscono appunto, se li consideriamo nel loro complesso, quella "Storia di un'anima" che si proponeva di scrivere, e di cui, nel 1828, stese il "proemio" (Storia di un'anima scritta da Giulio Rivalta); ma la coerenza che non può non essere avvertita tra questi stati d'animo, e la profonda armonia che avvicina tra loro le diverse espressioni, siano esse immediate o meditate e artisticamente compiute, ch'egli ne dà, si traduce in una profonda unità spirituale che investe tutta l'opera del Leopardi.
Il momento decisivo di questa storia d'un'anima, a considerarla in senso strettamente biografico, è dato dal trapasso che Eleandro, protagonista di un dialogo delle Operette morali in cui il L. adombra sé stesso, esprime così: "sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in un'anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco tepida; non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile". In sostanza, è il bisogno appassionato di amore - "amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita", come scriveva nel 1822 in una lettera al fratello Carlo -; il "grandissimo e forse smoderato e insolente desiderio di gloria" che confessava al Giordani nel 1817; la smania esasperata di vivere la vita intensamente, con tutte le sue risorse e tutti i suoi rischi, con le molteplici possibilità di esperienze che sembrava offrire; e il contrasto fra tanta esuberanza interiore e il mondo di fuori, l'indifferenza di questo, alla quale il L., disposto, secondo che diceva il Giordani, a sopportare le percosse, non si sarebbe rassegnato mai; i vincoli e le limitazioni imposte prima dalla severa disciplina della sua casa, poi dalla sua timidezza, dal suo facile adombrarsi, dal suo "essere", secondo che confessava sempre in persona di Eleandro, "quanto si possa mai dirimpetto a conversare con gli altri, anzi alla stessa vita", o almeno a godere della vita, che tanto meno gli offriva allettamenti quanto più, ingrandendoli con l'accesa fantasia, li aveva fervidamente aspettati. Per reazione, egli si rifugia negli studî: e il mondo del passato, ch'essi gli aprono, gli sembra il solo degno, il solo sereno: il presente non altro che una deformazione, un oscuramento, quasi un rattrappimento di esso, senza nulla più di eroico e di nobile. A questo pessimismo relativo, che prevale nella prima fase del pensiero del L. (pessimismo storico), ne sottentra un altro più assoluto, senza scampo, quando, esauritasi in lui, per la salute sempre più malferma, la già scarsa capacità di godere, egli perde la fede nel passato e il desiderio di attingere serenità negli studî in cui esso rivive ("libri e studi che spesso mi meraviglio d'aver tanto amati"). La vita gli sembra allora un valore irrimediabilmente negativo, gli si presenta come un deserto senza oasi, per inesorabile disposizione del fato: la morte, consolatrice unica. La vita, insomma, senza uno scopo, crudeltà gratuita della natura che l'infligge ai viventi, o la morte scopo unico della vita (pessimismo cosmico). La natura nemica, quindi; o la natura indifferente e ignara delle sofferenze alle quali condanna gli uomini; o tutt'al più la natura pietosa che, nell'infanzia dell'umanità o nell'infanzia dei singoli, li consola con le illusioni finché, inesorabile, la ragione non prevale su lei. Qualche volta, per altro, prende essa, sulla ragione, la sua rivincita, perché "non è fastidio della vita", dice Plotino a Porfirio nel dialogo che prende nome da loro, "non disperazione, non senso della nullità delle cose della vanità delle cure, della solitudine dell'uomo; non odio del mondo e di sé medesimo, che possa durare assai; benché queste disposizioni dell'animo siano ragionevolissime e le loro contrarie irragionevoli". Questa preziosa confessione, che riduce il pessimismo a uno stato d'animo, offre bensì il rincalzo della ragione al sentimento negativo della vita; ma ammette che questo sentimento possa e debba in determinati momenti, che è quanto dire in determinate condizioni dell'individuo, essere superato. Conclusione che legittima il dubbio che il L., per bocca del protagonista di un altro dialogo delle Operette morali, Tristano, ammette possibile: "se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so", anche se questo dubbio, quando era posto innanzi da altri, offendeva profondamente il L.: e sono note le sue sdegnose frasi di protesta in una lettera al De Sinner del 1832, quando ebbe notizia che appunto con le disgraziate condizioni di salute di lui un articolo critico dell'Hesperus spiegava la sua filosofia. Checché sia di ciò, questa concezione negativa non potrebbe essere materia di poesia, se l'uomo si limitasse a "mirare intrepidamente il deserto della vita" o a nutrire - son sempre parole di Tristano - una "fiera compiacenza" nel "vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà" del suo destino. La vera tragedia è appunto che la vita sia un deserto, cioè che l'uomo sia solo: questa, s'è già rilevato, anche la tragedia individuale del L. e, per superarla, egli stesso non vede altra via che l'amore, o quella dilatazione della personalità che è data dalle azioni nobili ed eroiche alle quali l'esaltazione dell'amore conduce. E quando anche dell'amore ci si accorga che non spezza la solitudine, perché in ultima analisi anche chi s'illude d'amare una creatura che sia fuori di sé non ama che l'"amorosa idea" che se n'è formata dentro, rimane il senso generico della solidarieta e della fraternità umana: o per consolarsi del dolore immedicabile della vita, o per vietarsi di aggravarlo negli altri reagendo disperatamente al proprio dolore, o per amarsi e sostenersi a vicenda contro la natura nemica che ce lo ha imposto.
I Canti e le Operette morali. - Ridurre all'inesorabile dilatarsi del pessimismo di cui s'è fatta parola fin qui la storia del pensiero leopardiano è dargli una semplicità lineare, quasi schematica, che esso non ha, ma questo concetto è un utile filo conduttore per chi voglia considerare partitamente, come momenti successivi della vita del suo spirito, i singoli Canti e le prose del Leopardi.
La loro serie è aperta dalle due canzoni All'Italia e Sul monumento a Dante che si prepara in Firenze, che nell'ottobre del 1818 il L. mandava, manoscritte, al Giordani. Nella prima è palese il proposito di cimentarsi col Petrarca, delle cui canzoni, pur con la libertà di metro ripigliata dal Guidi, egli ricordava l'andamento; nella seconda più specialmente si avverte l'influenza dell'Alfieri, di cui il L. aveva letto di fresco la vita e di cui, in un sonetto, aveva espresso il voto di visitare, come in pellegrinaggio, la tomba. Più famosa, anzi la più famosa, da un secolo a questa parte, tra le poesie del L., la canzone All'Italia, concitata, qua e là retorica, non bene equilibrata tra le parti, ma piena di movimento e di afflato lirico. Lo spettacolo delle miserie d' Italia, e quello di una dispersione di energie, che gli sembra esiziale, offerto dagl'Italiani che hanno pochi anni prima dato la vita in Russia per Napoleone, turba il giovane L., che domanda di combattere e di morire, e che il suo sangue sia "foco agli italici petti". Non il sangue, ma questa stessa invocazione accorata, che a torto il Tommaseo credette insincera perché non sapeva scompagnarla dall'immagine dello scrittore attediato che conobbe dieci anni più tardi, fu irresistibile incitamento all'azione per gl'Italiani. Altro il motivo d'ispirazione della canzone Per il monumento di Dante: ancora agl'Italiani si volge il L., ma per richiamarli al loro augusto passato, e sdegnarsi che il ricordo di esso non li risvegli dall'"antico sopor", e invitarli a lasciare la terra in cui tutto parla di grandezza, se non riescono a farsi degni di lei. La disperazione che allora il L. sfogava così abbondantemente nelle lettere, s'affaccia in un'apostrofe ai morti in Russia, come un desiderio di annullamento della personalità; ma è un accenno fugace: il mondo poetico del L. non s'identifica ancora col suo mondo interiore. L'identificazione è, invece, piena negl'Idillii, gruppo di canti che il L. tenne gelosamente per sé, non accogliendoli nell'edizione bolognese del 1824, finché non si decise a pubblicarli nel Nuovo raccoglitore di Milano, nel dicembre del 1825: Alla luna (1819); L'infinito (1819); la Sera del dì di festa (ottobre 1820); il Sogno (dicembre 1820); la Vita solitaria (estate 1821). In questi canti il L. effonde veramente sé stesso; e nella limpidezza dell'espressione, nella delicatezza dell'analisi interiore, nell'evanescente fantasticare, si può dire che apra alla lirica italiana una via nuova. L'Infinito, quindici versi in cui, con una straordiriaria semplicità di mezzi, ci comunica lo sgomento e la dolcezza triste dell'individuo che si annulla nell'universo, è un capolavoro. Tra gl'Idillii, il L. pubblicò, al primo posto, nell'edizione Starita del 1835, il Passero solitario, la cui concezione forse risale alla medesima epoca; ma la stesura, che rivela un'arte più matura, è presumibilmente da datare dall'ultima dimora del L. a Recanati.
Mentre ancora lavorava a questo gruppo di canti - in cui il dolore gli appariva ancora come un funesto retaggio toccato a lui, destinato "all'affanno" da "l'antica natura onnipossente", ma già veniva meno quell'appassionata ammirazione del passato che lo aveva fatto rivivere, come un elemento di forza, dentro di lui - il L. scrisse e mandò alle stampe, con altre due canzoni non potute pubblicare per il divieto di suo padre mosso da scrupoli morali che questa volta non ledevano i diritti dell'arte (Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, Nella morte di una donna), quella Ad Angelo Mai, che vide la luce nel 1820 a Bologna. Angelo Mai, cardinale e custode della Biblioteca Vaticana, aveva sollevato l'entusiasmo dei dotti scoprendo in un palinsesto il testo quasi integrale del De Republica di Cicerone; a questo entusiasmo fece eco il L., ch'era col Mai in rapporti di carteggio cortese per merito del Giordani, ripetendo nella sua lirica, con più largo respiro, i motivi e gli atteggiamenti delle due già pubblicate due anni innanzi. Anche qui il passato, più vivo che mai, è fiera rampogna al presente, troppo pago di "riposo" e guidato "da mediocrità": ma vi è un più profondo e accorato senso del dolore, dal quale "comincia e nasce l'italo canto". La canzone, probabilmente per opera del suo stesso editore, il Brighenti, ch'era una provetta spia dell'Austria per quanto coltivasse, forse appunto per motivi professionali, l'amicizia degli spiriti più aperti del suo tempo, fu proibita nel Regno LombardoVeneto come "poesia scritta nel senso del liberalismo": battesimo che valeva, in favore del L., più delle lodi misurate con cui essa fu accolta dai letterati che andavano allora per la maggiore.
Alle tre canzoni pubblicate si ricollegano, per la tecnica e in parte per il contenuto, le sette nuove che il L. vi aggiunse, dando fuori per la prima volta nel 1824, sempre a cura del Brighenti, un volume di versi, corredato di elaboratissime Annotazioni estetico-filologiche con le quali intese dar prova di erudizione, e giustificare la lingua e lo stile dei suoi canti dalle critiche di cui li avevano gratificati i puristi del cenacolo bolognese. Le dieci canzoni rappresentano tre fasi successive, ma assai vicine tra loro, dell'arte del L.: a parte le tre prime, un gruppo compatto di sei fu composto dal novembre 1821 al luglio 1822; l'ultima, dopo la pausa improduttiva della dimora a Roma, nel settembre 1823. Nel dicembre scriveva al Giordani d'aver pronto per la stampa un "tometto di versi", e gli aggiungeva che i nuovi erano "simili ai già pubblicati". Simili, specialmente, per l'andamento metrico e per l'eloquenza spesso ridondante, erano le due prime delle "nuove canzoni " scritte insieme tra l'ottobre e il novembre 1821, Per le nozze della sorella Paolina, allora in progetto e poi sfumate, e A un vincitor nel pallone: nelle quali il rimprovero all'"obbrobriosa etade che duro il cielo a noi prescrisse" perde ogni amarezza per l'incitamento fiducioso, che vi si associa, all'azione redentrice dell'educazione specialmente affidata alla donna; e la pessimistica visione di un prossimo ulteriore decadimento delle condizioni d'Italia, lontana ormai dai fastigi di Roma, induce il poeta a spronare il giovane ginnasta perché, piuttosto che sopravvivere "alla patria infelice" spenda la vita per essa. Questo ottimismo finale è in contrasto con l'imprecazione alla virtù e con l'apologia del suicidio che leggiamo in Bruto minore (dicembre 1821), nel quale sono già, in una forma ancora torbida ma vigorosa, gli elementi essenziali del pessimismo leopardiano più totalitario e più crudo. Bruto che irride alla "stolta virtù" nel momento storico in cui "l'italica virtude" soggiace, "ruina immensa", al destino, acquista un significato universale: "lì è il mio pensiero" disse lo stesso L. riferendosi a questo canto. Artisticamente è molto superiore, perché i diversi elementi vi sono meglio fusi, l'Ultimo canto di Saffo (maggio 1822), lirica ricca di spontaneità e di movimento, in cui il L., piuttosto che il suo pensiero, riflette, ed è in materia più pura di poesia, il suo stato d'animo: rinunzia all'amore, e rinunzia alla vita che nega l'amore; senso della necessità del dolore, sola realtà: "arcano è tutto fuor che il nostro dolor". In questa lirica è il presentimento dell'arte più limpida dei nuovi idillî del 1828 e del 1829; e si ha, come è stato notato, un risveglio del sentimento in un periodo di attività essenzialmente cerebrale. Alla primavera (gennaio 1822) e Inno ai patriarchi (luglio 1822) sono invece liriche d'ispirazione puramente letteraria, fredde e levigate, che svolgono il motivo delle felici illusioni che fecero serena l'umanità nelle fasi iniziali del suo incivilimento, mentre l'ultima delle "nuove canzoni", Alla sua donna (settembre 1823) è una celebrazione della potenza dell'illusione, per cui una eterna idea" diventa viva realtà quando alla realtà si rinunci: lirica variamente interpretata, in cui senti l'influsso delle dottrine platoniche, ma avverti pure, fresca fonte d'ispirazione, il bisogno anche sentimentale del L. di sollevarsi al disopra della realtà che lo attediava.
Dopo questa lirica la poesia del L. tace a lungo. È il periodo della composizione delle Operette morali: diversa forma estrinseca di espressione, ma espressione anch'essa dei fluttuanti stati d'animo dell'autore di fronte all'eterno problema che lo assilla, il dolore. Dalla forma si lasciò fuorviare il Giordani, che in una lettera al Colletta e al Niccolini, presentando loro il manoscritto del lavoro, mostro meraviglia che "a speculare e argomentare e in perfettissima prosa filosofare" fosse così "prestamente divenuto chi poco innanzi era si affettuoso e infocato poeta". In realtà, il L. non era più filosofo nelle Operette di quanto fosse stato nelle Dieci canzoni, né, se teniamo presenti le pagine più ariose e più concitate, era meno poeta. Ma la prosa era per lui più confacente ad esprimersi nel momento in cui il suo pensiero aveva bisogno di chiarificarsi e, nella conquista di una certezza pur dolorosa, di rasserenarsi: soprattutto di liberarsi dalle scorie degli elementi non ancora fusi insieme ne tutti assimilati ugualmente, che intorbidavano, per dire un esempio, le strofe del Bruto minore.
In questo senso le Operette, di cui G. Gentile ha giustamente rivendicato la profonda unità spirituale, costituiscono un momento decisivo dell'opera leopardiana considerata nel suo complesso, e, in quanto non si voglia scinderle artificiosamente dai Canti, un elemento essenziale dell'unità spirituale di essa. Scritte nel giro di pochi mesi come un'opera organica, e rivedute poi riposatamente con preoccupazioni puramente stilistiche, soprattutto nell'intento di ottenere una maggiore chiarezza di concetti e di produrre effetti d'arte con la scelta di vocaboli peregrini, le Operette non rappresentano però una sola fase del pessimismo del L., ma le riflettono tutte: era in esse, diceva lo stesso Leopardi, il frutto della sua vita finora passata; e v'erano i germi degli ulterion sviluppi del suo pensiero. Le precede, in tutte le edizioni, una sintesi fantastica ricca di suggestione, la Storia del genere umano; e le concludeva, nell'edizione del 1827, il Dialogo di Timandro e di Eleandro: in quella la sintesi, in questo la giustificazione della visione che il L. aveva della vita dell'uomo e dell'universo. Tra l'una e l'altra, sempre nella prima edizione, diciotto prose, che il Gentile ha distinte in tre gruppi, di sei ciascuno "come tre ritmi attraverso i quali passa l'anima del L.". nel primo, al quale appartengono - disposti così dal L., in un ordine logico che si differenzia di poco da quello cronologico della composizione - il Dialogo di Ercole e di Atlante, quello della Moda e della Morte, la Proposta dei premi fatta dall'Accademia dei Sillografi, i dialoghi di un lettore di umanità e di Sallustio, poi ricusato dall'autore, di un folletto e di uno gnomo, di Malambruno e di Farfarello, svolgono i motivi che abbiamo veduto ispiratori delle prime Canzoni: se non l'esaltazione dell'antichità e la deplorazione dell'abbrutimento del tempo presente, certo la visione dell'umanità avviata verso la morte - "questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte" -; la natura amica a chi vive la vita spontanea; l'attività intellettuale, il dominio della ragione negazione della vita. Da queste illazioni scaturisce, come di necessità, il motivo dominante delle Operette del secondo gruppo, i dialoghi della natura e di un'anima, della Terra e della Luna, La scommessa di Prometeo, i dialoghi di un fisico e di un metafisico, di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, della Natura e di un Islandese. Il problema che il L. si pone è quello dei rapporti tra l'uomo e la natura, che gli ha dato come legge della vita il dolore e gli ha tolto il senso della vita e l'attaccamento alla vita col tedio; e tuttavia lo ha fatto irrimediabilmente suo prigioniero, vietandogli di sottrarlesi. La vita nell'universo non è se non "con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono": a chi piace? a chi giova? Ma a questo danno e a questa morte non si può non reagire: ed ecco, con un motivo nuovo e consolante, il terzo gruppo delle Operette: sarà nel desiderio della gloria che aveva confortato il L. giovinetto quando s'era dato allo studio (Il Parini ovvero della gloria); o nel colorire con un' "immaginazione piacevole" l'idea della morte, porto di rifugio (Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie); o nel filosofare, che è quanto dire nella ricerca e nella conquista del vero che, "conosciuto", "ha i suoi diletti", secondo che il L. dice altrove, "ancor che tristo" (Detti memorabili di Filippo Ottonieri); o nel rischio affrontato e nell'azione spesa per riaffezionarsi alla vita e vincerne il tedio (Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez); o nell'abbandono canoro all'impeto lirico (Elogio degli uccelli, Cantico del gallo silvestre); o infine nel senso di solidarietà umana e di pietà verso il proprio simile condannato al dolore, che tempera di dolcezza e di bontà l'espressione della visione pessimistica del mondo (Dialogo di Timandro e di Eleandro). Questo ultimo motivo, che è come l'apologia che, per bocca di Timandro, il L. fa del suo sistema, è quello stesso con cui si conclude la Storia del genere umano, secondo la quale Giove, dopo aver dato l'infelicità agli uomini rimovendo da loro "i beati fantasmi" dei tempi primitivi e mandando loro la Verità perché avesse "appo loro perpetua stanza e signoria", si commosse alla fine dei miseri, concedendo loro la presenza ristoratrice di "Amore figliolo di Venere Celeste", la cui virtù singolare è che "dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve già segregate dalla consuetudine umana".
Poesia, e della migliore lega, in questo mito profondo e pieno di dolcezza; poesia alata nell'Elogio degli uccelli, lirica piena di movimento scritta abbandonatamente, in cui il sentimento della natura diventa gioia. In essa, e in molti punti delle Operette, specie per bocca di quegli interlocutori dei dialoghi in cui mette più larga parte di sé, il L. parla "non veramente all'intelletto, ma al senso dell'animo". Queste parole son tratte dal Dialogodi Plotino e di Porfirio, che insieme col Copernico, il Leopardi scrisse intorno al 1827, e contava di aggiungere nell'edizione napoletana dello Starita che restò a mezzo; mentre intorno al 1832 ne aggiunse due altre, il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, e quello di Tristano e di un amico, che invece pubblicò egli stesso, in aggiunta alle Operette già note, nell'edizione fiorentina dei piatti.
I nuovi dialoghi, e il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco scritto nel 1825 e sostituito nella staritiana al Sallustio, rimangono fedeli alla linea che, come s'è visto, hanno, considerate nel loro complesso, le Operette morali. La nullità del nostro mondo è il motivo dominante del Copernico, al quale può, per l'argomento, essere accostato il Frammento, e nel quale affiora tuttavia il concetto, caratteristico delle prime Operette, del graduale avanzarsi dell'umanità verso la morte; la forza dell'illusione sempre rinascente è la nota che nel dialogo del Venditore di almanacchi consola o tempera il pessimismo; la solidarietà tra gli uomini è nel Porfirio freno efficace al bisogno di una reazione disperata al dolore che la ragione ci porterebbe ad ascoltare: "attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita". Questo freno, il L. non lo sentirà più quando scriverà, negli ultimi mesi tristissimi della sua dimora fiorentina, il Tristano: nuovo epilogo, più polemico e più amaro, del volume, in cui, per bocca del protagonista del dialogo, il L. deriderà, con gli stessi accenti della Palinodia, il progresso nel quale credono gli uomini del suo tempo, professerà la sua indifferenza alla politica, si meraviglierà d'aver tanto amato "libri e studi", "disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d'immortalità"; affretterà col desiderio la morte: "se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi".
Ma il dialogo di Tristano si stacca di molto dalla data di composizione della massa compatta delle Operette pubblicata dallo Stella; e a questa giova fermarsi, per dare al volume il significato che gli spetta nell'evoluzione del pensiero del L. e per considerare l'azione che la composizione di essa esercitò sul suo spirito. Fu questa azione, in complesso, benefica: chiarificatrice e semplificatrice; in ultima analisi, rasserenante. I problemi che avevano pesato come un incubo sull'elaborazione delle Nuove canzoni avevano ormai trovato una formula; non problemi, oramai; convincimenti di fronte ai quali il sentimento del L. poteva atteggiarsi pacatamente. Dello stato d'animo col quale il L. compose le Operette si risente ancora l'epistola A Carlo Pepoli, letta, con molta ammirazione degli ascoltanti, nell'Accademia dei Felsinei a Bologna (1826), tecnicamente impeccabile, limpidissima: ma, ancora, filosofia versificata, salvo che nell'ultima parte, in cui la nota personale è data dalla rivelazione accorata della rovina delle illusioni dalla quale si erge, per riempire con qualche cosa "l'ingrato avanzo della ferrea vita", il proposito d'impadronirsi dell'"acerbo vero", rifugio dello spirito dell'autore. Ma un orientamento di questo spirito verso la lirica pura già si manifesta, alla fine del 1825, nella pubblicazione degl'Idillii, scritti oltre un quinquennio prima; e più si manifesta, dopo un'altra pausa, tra il 1828 e il'29, nella composizione dei Nuovi Idillii, in cui il Leopardi, che pareva avviato verso la rassegnata soppressione dell'"io" attraverso la visione negativa dell'universo, ha finalmente conquistato, in un sereno rifiorire del sentimento per cui l'illusione acquista il valore di una realtà nuova, quell'equilibrio spirituale che dà alla sua arte, in questi frutti veramente maturi, un'impronta squisitamente classica.
Apre questa nuova serie di canti il Risorgimento, lirica sgorgata dal cuore, a Pisa, nella primavera del 1828, con l'andamento metrico e con tutta la freschezza d'espressione d'una canzonetta popolare, in cui il L. canta il trionfo de "gl'inganni aperti e noti, che gli rivivono, contro le conclusioni della ragione e quasi con sua meraviglia, in "seno". Segue, a breve distanza, l'ode dolcissima A Silvia, ch'è una cosa perfetta: e con un'aderenza della forma metrica (brevi strofe di settenarî e di endecasillabi di varia misura e vario schema) all'atteggiarsi del sentimento, con un senso d'armonia, una delicatezza d'espressione, una potenza di evocazione, in cui l'arte del L. dà la piena misura di sé. Affini per contenuto, ma più vigorosi, gli endecasillabi sciolti delle Ricordanze, scritti a Recanati nel 1829, esprimono uno stato d'animo più tormentato e rivelano una piena attitudine alla rappresentazione del mondo esterno con contorni decisi e con un rilievo dato anche ai minimi particolari, che li rende evidenti: rappresentazione di cui abbiamo i saggi più felici in La quiete dopo la tempesta e nel Sabato del villaggio, scritti nello stesso torno di tempo, per quanto in essi, e più nel Passero solitario che appartiene al medesimo gruppo, questa rappresentazione non sia per il L. che il pretesto per l'enunciazione del proprio pensiero. Rappresentazione - non però più di una realtà concreta - ed enunciazione - non però di un convincimento pacato, nemmeno negativo - sono invece tutt'uno nel Canto notturno del pastore errante: e questa fusione trasforma in materia poetica la visione della vita alla quale non si vede uno scopo, di cui il canto dà vivo il senso e l'angoscia, di modo che vi si sente un inquieto bisogno di pace e di certezza, un'incapacità, sempre riaffermantesi, dello spirito ad adattarsi all'annullamento della vita, che dànno un movimento appassionato al canto. Seguono i canti del ciclo cosiddetto di "Aspasia", che risalgono all'ultima dimora fiorentina del L.: o che un fatto nuovo, come affermano i più dei biografi, fosse entrato nella vita del L., o che il tormentoso bisogno di reagire alla concezione negativa della vita lo portasse, per non accettarla, ad aggrapparsi alla più potente delle illusioni, questi canti costituiscono la celebrazione, in diversi toni, dell'amore-passione e della sua forza. Tale il Pensiero dominante, in cui questa illusione - che polarizza tutta la vita interiore verso una meta, che esalta le forze spirituali, che, "terribile ma caro dono del ciel", potentissimo tra "i leggiadri errori" della natura, apre nuovi orizzonti, rivela una "nova immensità", dà agli uomini il senso eroico della vita - acquista la concretezza di una realtà; tale Amore e morte, in cui invece è rassegnatamente affermato il carattere caduco di questa illusione, come un elemento di fascino e un motivo di fraternità con la morte, che annulla il male della vita così come essa le dà il solo bene di cui è capace. Lo stesso motivo, ma abbassato di tono e circoscritto a un caso personale, è in Consalvo, rappresentazione di un morente "in sul fior dell'età" al quale la donna amata concede, dono supremo, un bacio: romanticheria di gusto discutibile che, in quanto rivela un'arte meno sicura, era stata dagli studiosi attribuita agli anni giovanili del L.: anche perché, con una correzione apportata da lui, prima della stampa, al testo originario, Consalvo è detto un giovane giunto appena "a mezzo il quinto lustro", e perché al canto si è generalmente attribuito un valore autobiografico che probabilmente non ha. La caduta dell'illusione ha il suo epicedio nel breve canto a A se stesso, e negli sciolti di Aspasia, riferiti generalmente al 1833 e al 1834. Il primo è forse la lirica più vigorosa e più intensa del L., che esprime potentemente una disperazione senza limiti: riprende il motivo dell'Ultimo canto di Saffo, ma con una sobrietà, una limpidezza uno strazio interiore che a quella canzone mancava. Aspasia è stata giustamente avvicinata al Consalvo di cui è come un complemento; è, come altri ha avvertito, "la vendetta verso un'Elvira che gli ha negato fin l'ultimo bacio". E come del Consalvo, così di questa lirica è da osservare che non ha il carattere rigorosamente autobiografico che le si è attribuito: l'unica confessione vera che in essa il L. ci fa è questa, ch'è sembrata invece un artificio polemico necessario alla sua vendetta: che la donna amata da lui non è stata l'Aspasia che lo ha deluso, ma l'"amorosa idea" che egli, turbato dai vezzi di lei, se n'era formata; che insomma anche l'amore, l'ultima delle illusioni, non ha liberato il suo spirito dalla solitudine.
Dei canti napoletani, con cui si conclude la carriera poetica del L., poco è a dire. Essi segnano, se si faccia astrazione dalla Ginestra, un indebolimento delle sue risorse; e sono, i più, incompiuti: segno della sua accresciuta incontentabilità, ch'era diventata sfiducia in sé. Metricamente, sono tra i più raffinati: ché il L., che aveva cominciato con l'accettare dal Giordani la sentenza che si dovesse riprodurre la lingua del Trecento e lo stile dei Greci, aveva finito col non accettare più dalla tradizione nemmeno quella convenzione puramente estrinseca che è la metrica; e l'aveva sapientemente, con avvedimenti che sono stati analizzati, piegata ai suoi fini, volta per volta. Ma se l'armonia è impeccabile, il pensiero del L. si esprime con un certo sforzo, il suo sentimento non ha che a tratti la potenza d'espansione di prima. Nei due abbozzi di canzoni gemelle, Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra un ritratto di bella donna, il L. sembra dubitare del suo pur "fermo" convincimento, che il vivere sia "sventura" e "grazia il morir": ché anche la morte, "ai mali unico schermo", non gli apparisce più, inconseguenza ch'è in lui un riaffermarsi dei diritti della natura, come qualche cosa di desiderabile. La Palinodia, epistola polemica a Gino Capponi, ripete l'andamento di quella al Pepoli, ma non ne ha più la pacata serenità; vibra in essa la nota satirica, alla quale il Leopardi non ha vocazione. La Ginestra, più che tradurre in poesia una determinata fase del pensiero del L., vuol essere la sintesi di tutte: è un canto di una grandiosità di concezione di cui la tradizione letteratia italiana non ha che pochissimi esempî; e il senso della desolazione della natura alle falde dello "sterminator Vesevo" dà alla descrizione con cui esso s'inizia, malgrado la pacata sobrietà che ne caratterizza lo stile, una concitazione lirica e una potenza espressiva singolari. Ma presto l'elemento razionale vi sopraffà il sentimento, e le allusioni sarcastiche alle credenze del secolo vi tolgono rilievo all'invocazione alla solidarietà umana, di cui il "fiore del deserto", la ginestra, apparisce il simbolo. Questa invocazione conserva tuttavia il suo valore come affermazione della necessità dell'amore tra gli uomini per difendersi dal loro destino crudele: vi avverti lo stato d'animo del L. che scrivendo al Bunsen nel 1835 condannava la "melanconia" delle sue prose, cioè si sentiva in possesso di una formula per superarla. Ed è significativo, come documento della coerenza e dell'armoniosa organicità del suo pensiero, che la medesima nota ritorni nell'epilogo dei Canti com'era stata nella prima delle Operette morali.
Gli scritti minori. - Ma, accanto ai Canti e alle Operette, non si possono trascurare, già prima di procedere verso la conclusione della carriera poetica del L., l'Epistolario e lo Zibaldone. L'uno e l'altro abbiamo ricordato come i presupposti delle sue opere maggiori, e come i documenti in cui si trova spesso la giustificazione e il chiarimento di determinati atteggiamenti dello spirito del L., o la possibilità di determinarne la data. Le sue lettere raccolte sono poco meno di 900: egli non era un epistolografo abbondante come il suo Giordani, e non ne aveva la ridondanza, come non aveva la passione del Foscolo, né la leziosa ricerca dell'effetto del Giusti. Il L. scriveva per necessità o per bisogno esasperato di aprirsi con lontani: scriveva lettere che non hanno nulla di letterario, degne di un sobrio conversatore, terse, qua e là naturalmente eloquenti: nell'Epistolario - nelle lettere scritte abbandonatamente, non in quelle agghindate, che aveva indirizzate, specie negli anni giovanili, a persone con cui fosse in rapporti di cortesia - sono molte delle sue pagine di prosa migliori. Quanto ai sette volumi dello Zibaldone (Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura) che costituiscono, nel manoscritto, più di 4500 pagine di fitta scrittura, essi raccolgono appunti di letture, riflessioni morali, osservazioni di cose vedute, discussioni o dubbî filologici o letterarî, che il L. venne annotando, quando con diligenza quotidiana, quando a lunghi intervalli, dal luglio 1817 al 4 dicembre 1832. Più nei primi anni - s'è già notato che buona parte ne scrisse in pochi mesi nel 1823 - e più a Recanati che altrove: era insomma, questo suo diario filosofico-filologico, l'unica conversazione cui si abbandonasse quando si sentiva solo. Il suo pensiero spicciolo, l'enunciazione primitiva e spontanea dei problemi che più lo affaticarono, la confessione d'impressioni, di ricordi, di avvenimenti significativi della sua vita interiore, la testimonianza delle sue letture e dei fluttuanti interessi spirituali è nello Zibaldone: il quale, appunto per la molteplicità di questi interessi spirituali, finisce con l'essere una "organica enciclopedia" (così la definiva il Carducci nel proemiare all'edizione fattane a cura dello stato), alla quale lo stesso L., cui premeva di orientarcisi perché sapeva di poterne cavare, come a una miniera inesauribile, il materiale di nuove opere, non mancò di dare il corredo d'indici copiosi. Con lo Zibaldone si ricollegano i Centoundici pensieri pubblicati dal Ranieri nell'edizione lemonnierana del 1845, tratti da esso nella loro maggioranza, ma sottoposti a una sapiente rielaborazione formale e spogliati del carattere, che taluni avevano nella prima stesura, di testimonianze di vita vissuta: documento interessante, in ogni modo, dell'ostinata coerenza del pensiero leopardiano sulla società e sugli uomini, da quando, tra il 1819 e il 1820, cominciò a interessarsi di quei problemi - contava di scrivere un trattato Del machiavellismo in società - agli anni della dimora napoletana. A questi anni va riferita l'ultima, in ordine di tempo, delle opere del L.: i Paralipomeni, narrazione distesa, secondo la sua finzione, delle parti omesse nella Batracomiomachia attribuita ad Omero, che egli aveva tradotto nella prima gioventù (1815) e poi ritradotto (1822) e infine ripresentato in una nuova veste che era piuttosto un rifacimento (1826). Il poemetto originale - quattro brevi canti in ottave - che vuol continuare l'antico, mostra come il soggetto interessasse il L. e gli paresse ricco di risorse, e come, negli ultimi anni, la sua attività letteraria fosse ormai un ripiegarsi sul suo passato. Lo scopo è satirico. Gli avvenimenti presi più particolarmente di mira quelli della rivoluzione napoletana del '21; ma, piuttosto che essi, la situazione europea e italiana del suo tempo, rappresentata in modo che nessuno si salva dalla sua fredda ironia, né gli Austriaci (granchi), né i Napoletani (topi), né i Pontifici (rane), né Ferdinando I di Napoli (Rodipane), né il Metternich (Camminatorto). La narrazione è spedita e qua e là vivace e lepida, alcune digressioni significative; le ottave ben tornite, per quanto in più punti si senta che manca la lima. Nel complesso, però, il poemetto è freddo e rivela un'anima stanca e senza più fede: la grande arte del L. non vi si sente più; del carattere universale, che essa ha nei Canti e in tono minore nelle Operette, non v'è più traccia.
Delle edizioni del L. venute alla luce lui vivo e della prima lemonnierana s'è discorso di sopra: per la storia di questa si cfr. F. P. Luiso, Ranieri e L., Firenze 1899, e M. Zezon, in Rassegna nazionale, XLIV (1822), pp. 31-46. Delle successive basti ricordare, per il commento, quelle dei Canti dovute ad A. Straccali (3ª ed., Firenze 1910), a G. Tambara (Milano 1907; 2ª ed., 1912), a F. Moroncini (Palermo 1917), a F. Sesler (Roma-Milano 1930), a M. Porena (Messina 1916), a G. A. Levi (Firenze 1921); e quelle delle Operette morali curate da G. Gentile (Bologna [1918]), da D. Bianchi (Palermo 1922), da V. Piccoli (Torino 1924), da I. Della Giovanna (più recente ed., Firenze 1928). Per il testo, importa soprattutto tener presenti le edizioni critiche curate, con larghissimo apparato, da F. Moroncini, così per i Canti (Bologna 1927, voll. 2) come per le Operette (ivi 1929, voll. 2) e per le Opere minori approvate (ivi 1931, voll. 2). A complemento dell'Epistolario, delle cui edizioni s'è già detto, giovano: Lettere scritte a G. L. dai suoi parenti, Firenze 1878, Nuovi documenti intorno agli scritti e alla vita di G. L., Firenze 1889, ambedue i volumi per cura di G. Piergili, e Carteggio inedito di vari con G. L., con lettere che lo riguardano, a cura di G. e R. Bresciani, Torino 1932.
Bibl.: Saggi di bibliografia leopardiana pubblicarono L. Cappelletti, in Poesie di G. L. scelte..., Parma 1881, pp. 259-338, e a parte, 2ª ed., ivi 1882; G. Piergili, in Il bibliofilo, IV (1883), ristampato in Tre vecchi scritti leopard., Recanati 1891; C. Antona-Traversi, Studi su G. L., Napoli 1887; ma una bibliografia che può dirsi compiuta, compilata da tempo da G. Mazzatinti e M. Menghini per il periodo fino al 1898, è stata pubblicata a Firenze nel 1930: la parte riguardante il periodo successivo, dovuta a G. Natali, è uscita pure a Firenze nel 1932.
Biografie del L. dobbiamo a T. Teja-Leopardi, Notes biographiques sur L. et sa famille, Parigi 1881 (traduz. ital., Milano 1882); a G. Piergili, Vita di G. L. scritta da esso, Firenze 1899; a G. Chiarini, Vita di G. L., Firenze 1905; 3ª ed., 1921; a G. A. Cesareo, La vita di G. L., Palermo 1902; a M. Scherillo, come prefazione ai Canti, Milano 1900; 3ª ed., 1911; a P. Hazard, G. L., Parigi 1913; a V. Piccoli, L., Milano 1924; a G. A. Levi, L., Messina 1931; tra i contributi di carattere biografico, che sono numerosissimi, si citano, dopo i famigerati Sette anni di solalizio di A. Ranieri (Napoli 1880; 2ª ed., 1920), quelli di F. Ridella (Una sventura postuma di G. L., Torno 1897, e Leopardiana, Torino 1928); di G. Taormina (Ranieri e L., Palermo 1898); di G. Mestica (Studi leopardiani, Firenze 1901); di C. Antona-Traversi (tra l'altro, Documenti e notizie da servire a una compiuta biografia di G. L., Verona 1887); di C. Bandini (Contributi leopardiani, Bologna 1923); di G. Ferretti (L. Studi biografici, Aquila 1929).
Tra gli studî critici d'insieme, a prescindere da quelli inclusi in trattazioni di carattere generale (tra le quali è da citare per l'ampiezza l'Ottocento del Manzoni, Milano 1913; 2ª ed., Milano 1933), giova ricordare quelli di F. De Sanctis (Studio su G. L., Napoli 1885); di V. Piccoli (Itinerario leopardiano, Milano 1923); di A. Zottoli (Leopardi. Storia di un'anima, Bari 1927); di G. Bertacchi (Un maestro di vita, Bologna 1917); di A. Sorrentino (Cultura e poesia di G. L., Città di Castello 1928); di C. Vossler (L., Monaco 1923; traduz. ital., Napoli 1925). La raccolta di studî particolari più importante è sempre quella di B. Zumbini, Studi su G. L., Firenze 1902-1904, voll. 2; ma cfr. anche le Divagazioni leopardiane di G. Negri, Pavia 1894-99, voll. 6.
Per la storia del pensiero del L., oltre ai Saggi critici del De Sanctis (Schopenhauer e L.), si veda M. Porena, Il pessimismo di G. L., Genova 1923; G. A. Levi, Storia del pensiero G. L., Torino 1911; M. Losacco, Contributo alla storia del pessimismo leopardiano, Trani 1896; P. Gatti, Esposizione del sistema filosofico di G. L., Firenze 1906; F. Cantella, G. L. filosofo, Palermo 1906; G. Gentile, Manzoni e L., nuova ed., Milano 1929; C. Berardi, Ottimismo leopardiano, Venezia 1930.
Per la lirica in generale: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme della poesia di G. L., Bologna 1898 e in Opere, XVI; B. Croce, L., in Poesia e non poesia, Bari 1923; G. Citanna, Sulla poesia it. dal Parini al L., in La critica, XXV (1927), pp. 85 segg., 158 segg., 225 segg.; C. De Lollis, Petrarchismo leopardiano, già in Rivista d'Italia, VII (1904), ora in Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, Bari 1929; R. Bezzola, Spirito e forma nei canti di G. L., Bologna 1930; A. Borriello, La lirica leopardiana dell'Infinito, Napoli 1930.
Per lo Zibaldone e per i Pensieri: G. Setti, La Grecia letteraria nei "Pensieri" di G. L., Livorno 1906; R. Giani, L'estetica nei pensieri di G. L., Torino 1904; 2ª ed., 1929; E. Bertana, La mente di G. L., in Giorn. stor. d. lett. ital., XLI (1903), pp. 193-283; M. Porena, I centoundici Pensieri di G. L., in Rivista d'Italia, XVIII, ii (1915). Per i Paralipomeni: R. Bacchelli, Confessioni letterarie, Milano [1932], p. 141 segg. Per gli studî filosofici: F. Moroncini, Studio sul L. filologo, Napoli 1891. Per i Nuovi credenti, cfr. B. Croce, Commento storico a un carme satirico di G. L., Bari 1933.